Una prospettiva critica sui Corsi di Specializzazione per le attività di sostegno agli studenti con disabilità e sul mantra della formazione continua per gli insegnanti.
Probabilmente, la maggior parte dei cittadini italiani ignora che tra il 25 e il 26 maggio, presso i principali Atenei italiani, si è svolta la prima prova del concorso per l’ammissione alla nuova edizione del Corso di Specializzazione per le attività di sostegno agli studenti con disabilità, relativo a tutti gli ordini scolastici. Per i non addetti ai lavori: si tratta di un percorso formativo, di durata annuale e a numero chiuso, che consente di ottenere l’abilitazione per l’insegnamento del sostegno. Come nel caso dei Tfa (i Tirocini formativi attivi, ovvero il percorso con cui si ottiene l’abilitazione nelle diverse classi di concorso), anche l’attivazione di un nuovo ciclo di Corsi di Specializzazione sul sostegno viene decisa dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (Miur), mentre i Corsi sono organizzati e gestiti dalle singole Università. I corsisti ricevono una formazione, fatta per lo più di lezioni frontali, impartita da docenti universitari, e devono poi svolgere un tirocinio in una scuola scelta in base alla tipologia di Istituto scolastico per cui stanno conseguendo la specializzazione – Scuola primaria, Scuola Secondaria di primo grado, oppure Secondaria di secondo grado. Per i vincitori del concorso di ammissione, la Tassa di immatricolazione al Corso di specializzazione ha un costo, che in Toscana è di 2.500 euro. Da ultimo: secondo la normativa vigente, occorre essere già abilitati in una classe di concorso per poter accedere al Corso di specializzazione sul sostegno, e questo percorso formativo è un passo indispensabile per diventare docente di sostegno di ruolo, cioè un docente con contratto a tempo indeterminato. Infatti, anche per la disciplina sostegno, la possibilità di partecipare ai concorsi a cattedre indetti dal Miur, grazie a cui avviene l’immissione in ruolo, è riservata ai docenti in possesso di specializzazione.
Sarebbe interessante intervistare i candidati al concorso che si è appena svolto per comprendere un po’ meglio qual è il loro rapporto con il mondo della scuola. I cittadini italiani potrebbero così scoprire che, in molti casi, i canditati sono gli attuali insegnanti di sostegno che lavorano nelle scuole, consentendo a migliaia di studenti con disabilità di poter usufruire del diritto al sostegno scolastico. Insegnanti che, con l’avvicinarsi della fine dell’anno scolastico, durante i prossimi giorni saranno impegnati negli scrutini finali, nella redazione delle relazioni finali degli studenti con disabilità (i Pei, Piano educativo individualizzato), nelle Commissioni degli Esami di Stato. Insegnanti, in breve, che svolgono il lavoro di docente di sostegno, anche da alcuni anni. E che, in molti casi, risultano persino inseriti nelle Graduatorie di merito dell’ultimo concorso a cattedre indetto dal Miur, il cosiddetto Concorso docenti 2016. Tuttavia, questi insegnanti non sono ancora docenti di ruolo perché, dopo la conclusione dell’iter concorsuale, molte delle cattedre bandite per il Concorso sono semplicemente “sparite” – in parte perché utilizzate dal Miur per la Mobilità straordinaria dell’anno scolastico 2016-17, in parte per vari “errori di calcolo” relativi al reale fabbisogno di docenti nelle diverse regioni, al numero dei pensionamenti, dei trasferimenti, ecc. ecc. ecc. Dopo queste informazioni potremmo anche porci la seguente domanda: ma perché questi insegnanti sono interessati a frequentare un corso che dovrebbe formarli come docenti di sostegno se, de facto, lavorano già come docenti di sostegno nelle nostre scuole?
Per trovare una risposta a questo interrogativo dobbiamo ricordare alcune questioni. In primo luogo: negli ultimi anni, il numero degli alunni con certificazione di disabilità, definita dalla legge 104/1992, è notevolmente aumentato, tanto che i docenti di sostegno in ruolo non sono sufficienti a garantire il quantitativo di ore richiesto per sopperire ai bisogni educativi di tutti gli studenti a cui spetta il diritto al sostegno. All’inizio dell’anno scolastico, dunque, le diverse scuole hanno la necessità di reperire altri docenti, così da coprire il fabbisogno interno. I docenti, a cui sarà assegnato un incarico annuale (ovvero, un contratto a tempo determinato, solitamente con scadenza al 30 giugno dell’anno scolastico in questione), sono selezionati, in primo luogo, tra i docenti che già possiedono la specializzazione sul sostegno, ma che non sono ancora entrati in ruolo. Tuttavia, questa graduatoria è comunque insufficiente a garantire le richieste delle scuole. Perciò, una volta esauriti i docenti specializzati sul sostegno, gli Istituti scolastici passano a contattare i docenti abilitati delle varie classi di concorso. Quando anche questa graduatoria è esaurita, le scuole contattano infine i docenti inseriti nell’ultima graduatoria (la cosiddetta terza fascia), dove troviamo quei docenti che non sono in possesso di alcuna abilitazione all’insegnamento. Probabilmente, i lettori che hanno figli o nipoti in età scolare sono al corrente di questa procedura, ma è bene ricordare a tutta la società che, ogni anno, il diritto all’istruzione e il diritto al sostegno che le nostre scuole devono garantire, per legge, a tutti i bambini e i ragazzi in età di obbligo scolastico, viene de facto garantito da persone che, stando all’ideologia didattica imperante nel nostro paese, non hanno ancora tutti i crismi del docente – del docente di sostegno, per rimanere al caso specifico di cui parliamo qui.
La situazione, allora, potrebbe sembrare paradossale. Perché ci troviamo di fronte a due ipotesi, di cui l’una sembrerebbe escludere necessariamente l’altra. Per la prima ipotesi, gli insegnanti che attualmente lavorano nella scuola come docenti di sostengo sanno già fare il loro mestiere, e dunque non hanno bisogno di conseguire un ennesimo titolo di studio per vedersi riconoscere questa professionalità. Per la seconda ipotesi, invece, gli insegnanti senza specializzazione sul sostegno necessitano di un anno di formazione per diventare dei veri docenti di sostegno, dunque attualmente non sono ancora in grado di fare il lavoro che fanno. Ma, in questo caso, dovremmo anche tristemente constare che il nostro Stato si comporta da scellerato. Eh sì, perché, se questa seconda ipotesi è vera, allora lo Stato utilizza ogni anno i soldi di noi contribuenti per pagare personale non qualificato, e soprattutto (ciò che è ancora più grave) permette che i nostri studenti più bisognosi di attenzioni educative e didattiche siano affidati a personale impreparato a svolgere tale funzione Ecco allora che l’attivazione di una nuova edizione del Corso di specializzazione si presenta come il tentativo di mettere in atto una virtuosa sanatoria. Lo Stato sembra far di tutto per uscire dallo “stato di eccezione permanente” che caratterizza il nostro sistema educativo, e concede a quegli insegnanti già abilitati sulla materia e che lavorano come docenti di sostegno di mettersi in regola, di completare la propria formazione nel giro di un anno, così da trasformarsi in docenti di sostegno a tutti gli effetti.
Tuttavia, per l’esercito degli insegnanti non di ruolo che da sempre, in questo paese, contribuisce in maniera fondamentale al normale svolgimento delle attività scolastiche, questa virtuosa proposta suona piuttosto come l’ennesimo velato – ma neanche troppo – ricatto a cui lo Stato sottopone, ormai da anni, una parte della classe docente italiana. Perché lo Stato ha bisogno di te, insegnante non di ruolo, al punto tale da proporti un incarico sul sostegno anche se, nel corso dei tuoi studi e del tuo percorso professionale, non ti sei mai occupato di sostegno. E non importa se ti capita di lavorare come docente di sostegno per anni, non importa se ti appassioni a questo mestiere, se tenti di mettercela tutta per farlo al meglio, perché sai bene che in ballo c’è l’educazione e la serenità di uno studente disabile e della sua famiglia. Ebbene, tutto ciò non basta. Non ancora. Non contano i risultati conseguiti in classe, né i titoli pregressi (una Laurea, un’Abilitazione sulla materia, magari anche un Dottorato di ricerca o un Master), né l’esperienza professionale, documentabile, come docente, formatore, divulgatore scientifico, eccetera. Tutto ciò non ti garantisce che lo Stato avrà ancora bisogno di te anche il prossimo anno scolastico. Che potrai lavorare con continuità nelle classi a cui sei stato assegnato. E soprattutto, che la tua professionalità e il contributo essenziale che dai al sistema scolastico vengano finalmente riconosciuti.
Ecco, allora, che la scelta di partecipare al concorso per il nuovo Corso di specializzazione sul sostegno, fatta da tanti insegnanti che lavorano come docenti di sostegno con contratti a tempo determinato, comincia a diventare chiara. Quanti di loro credono che questo Corso gioverà realmente alla loro professionalità? Ben pochi. Ma il fatto è che questo ulteriore titolo darà loro maggiori chance di continuare a fare il mestiere che già fanno, quello dell’insegnante di sostegno. Il conseguimento della specializzazione, infatti, consente soltanto di accedere a una graduatoria privilegiata, la prima ad essere contattata dalle scuole all’inizio dell’anno scolastico quando si tratta di reclutare i docenti di sostegno di cui c’è realmente bisogno. Per il resto, questo titolo non comporta altre certezze: chi volesse entrare di ruolo sul sostegno, dovrebbe comunque superare un nuovo Concorso a cattedre, se e quando sarà bandito. E anche in quel caso, come insegna il Concorso docenti del 2016 ricordato prima, non c’è alcuna certezza che i candidati vincitori si vedranno realmente assegnare una cattedra. Né è dato sapere cosa succederà quando le “Graduatorie di merito” scadranno – quelle del Concorso 2016 hanno una validità triennale, ma nessuno dal Miur o dagli Uffici scolastici regionali sa dire ai vincitori cosa accadrà se non avranno ottenuto una cattedra entro questo lasso di tempo. Senza parlare del fatto che il decreto legge 59/2017, emanato lo scorso 16 maggio, sembra modificare nuovamente le condizioni dell’accesso in ruolo, prevedendo un nuovo percorso formativo di ben tre anni per i futuri vincitori di Concorso.
La questione più drammatica, allora, è che, in questo paese, lo Stato non sembra essere interessato a ciò che gli insegnanti sanno o non sanno fare, alla reale qualità del loro lavoro in classe. Perché l’unico modo per poter legittimamente affermare di saper svolgere la professione dell’insegnante è divenuto quello di possedere una serie di titoli, il cui numero è in costante aumento. Nella scuola oggi serve un titolo per certificare che conosci una lingua straniera, anche se magari puoi dimostrare di aver lavorato per anni in un’Università straniera, insegnando a studenti madrelingua; un titolo per certificare che hai competenze informatiche, anche se programmavi con il Commodore 64 già da ragazzino; e così via e così via, di titolo in titolo, di corso formativo in corso formativo. Forse che sia giunto il momento di aprire una discussione pubblica su cosa intendiamo per formazione continua? Perché il sospetto è che oggi, per poter lavorare, soprattutto nelle professioni intellettuali, si è costantemente costretti a pagare – in termini di soldi, tempo, energie – per acquistare un nuovo titolo, che avrà come unico vantaggio quello di offrire al suo possessore maggiori garanzie di svolgere, anche negli anni futuri, il lavoro che ha già imparato a fare, e che sta già svolgendo.
Si potrebbe tuttavia obiettare, citando la pedagogia contemporanea, che gli studi con cui si accede alle classi di concorso (Laurea, Dottorato, Master) sono di per sé insufficienti ad apprendere il mestiere dell’insegnante, perché occorre una formazione specifica per imparare come diventare insegnanti. E dunque, come è possibile apprendere a fare l’insegnante di sostegno se non si è stati formati per questa specifica funzione? A questa obiezione si potrebbe rispondere che, in realtà, tutti gli insegnanti abilitati, indipendentemente dalla loro classe di concorso, nel corso formativo per l’abilitazione studiano per l’appunto Pedagogia generale e Pedagogia speciale, relativa cioè all’insegnamento ai discenti con disabilità. Inoltre, il tirocinio che sono tenuti a svolgere nelle scuole riguarda tanto la materia quanto la disciplina del sostegno. Quindi, nessun insegnante abilitato può dirsi assolutamente digiuno quanto a formazione in merito al sostegno. Ma, se vogliamo comprendere meglio lo scenario odierno della Scuola italiana, non è questo il punto rilevante dell’obiezione esposta sopra. La questione interessante è che, chi continua a servirsi di insegnanti non specializzati sul sostegno per mandare avanti le scuole italiane ma, al tempo stesso, nega loro il riconoscimento di una professionalità già acquisita, afferma implicitamente che tali insegnanti sarebbero privi di una competenza che, tuttavia, dovrebbero già saper insegnare ai loro studenti. Questa competenza è “imparare ad imparare”, cioè: insegnare ai discenti a perseverare nell’apprendimento, a diventare consapevoli del proprio metodo di studio, ad organizzare autonomamente gli obiettivi del proprio apprendimento, al fine di imparare ad utilizzare le conoscenze pregresse nelle nuove situazioni problematiche che potranno incontrare sia nella vita privata, sia in ambito professionale. Si tratta di una delle otto “Competenze chiave per l’apprendimento permanente” definite dalla Raccomandazione del Parlamento e del Consiglio dell’Unione Europea del 18/12/2006, e recepita dall’ordinamento italiano con il decreto 139/2007 (Regolamento recante norme in materia di adempimento dell’obbligo di istruzione), dove viene definita come una “competenza chiave di cittadinanza”, che ogni cittadino dovrebbe possedere dopo aver assolto il dovere all’istruzione. Ebbene, è così difficile comprendere che, dopo anni di studi e dopo anni di esperienza sul campo, un insegnante è perfettamente in grado di imparare una nuova mansione specifica, come l’essere docente di sostegno, dalla pratica stessa dell’insegnamento? Che possiede già gli strumenti cognitivi, emotivi e metodologici per comprendere autonomamente ciò che deve ancora studiare, apprendere e perfezionare al fine di svolgere al meglio il suo mestiere in classe? Se così non fosse, allora faremmo bene a dubitare che un nuovo corso formativo possa effettivamente colmare il divario che lo separa dal saper fare il mestiere dell’insegnante. Di nuovo, siamo di fronte a un evidente paradosso: lo Stato ti affida l’incarico di andare a insegnare, e dunque ti ritiene in grado di insegnare anche la competenza ricordata sopra, ma al tempo stesso non riconosce tale competenza in relazione al tuo percorso formativo pregresso e alla tua professione attuale, almeno fino a quando non avrai superato un altro percorso formativo erogato dallo Stato stesso.
Inoltre, esisterebbero metodi diversi per accertare che un insegnante, attraverso anni di lavoro, abbia realmente acquisito la professionalità necessaria per essere legittimamente considerato in grado di svolgere la funzione di insegnante di sostegno? Certamente. Ad esempio, si potrebbe chiedere una valutazione del suo lavoro alle famiglie degli studenti disabili che ha seguito nel corso dell’anno, ai colleghi curriculari dei Consigli di classe con cui ha lavorato per un intero anno scolastico, ai colleghi referenti per il sostegno e l’inclusione dell’Istituto, e ovviamente al Dirigente scolastico che, se è davvero un dirigente, non può non essersi fatto un’idea della professionalità dei docenti che lavorano nell’Istituto che dirige. Questo giudizio, peraltro, viene esercitato già, informalmente, verso tutti i docenti non di ruolo. Chi ha lavorato bene, alla fine dell’anno si sente pregare dalle famiglie dei suoi studenti: “Professore, Professoressa … speriamo che il prossimo anno sia ancora con noi, non vorremmo cambiare nuovamente l’insegnante di sostegno!”. I colleghi di ruolo, in genere più anziani, si complimentano sinceramente, augurandosi di poter contare su di te per la “squadra” del prossimo anno. Chi invece ha lavorato male, lo comprende subito dalla freddezza con cui viene congedato e, se ha un minimo di deontologia professionale, dovrebbe riconoscere che il mestiere di insegnante di sostegno non fa per lui/lei, e non accettare incarichi futuri. Analogamente, se volessimo veramente essere certi che un insegnante privo di specializzazione sul sostegno possa usufruire di un’ulteriore formazione nel momento in cui ne ha maggiormente bisogno (ossia, quando svolge un incarico sul sostegno per la prima volta), la soluzione dovrebbe cercarsi dentro la scuola, e non altrove. Basterebbe affiancare al neo-insegnante di sostegno un collega più esperto, che possa aiutarlo ad inserirsi nelle classi a cui è stato assegnato, a valutare il percorso educativo e didattico pregresso degli studenti con disabilità che seguirà, e così via. Un processo che, peraltro, avviene già nelle scuole, dove da sempre i nuovi arrivati si confrontano con i colleghi strutturati dell’Istituto, consultandoli sulle questioni didattiche ed educative concrete che riguardano i loro studenti.
Chi ha conseguito il Tfa sa bene che il momento del percorso abilitante realmente utile dal punto di vista della propria crescita professionale è il tirocinio svolto a scuola, l’unica attività del Tfa che permette un confronto attivo con i colleghi di ruolo, ovvero con coloro che svolgono il mestiere di insegnanti da anni. A poco o nulla servono le lezioni impartite da docenti universitari che, tranne rarissime eccezioni, non hanno passato neanche un giorno della propria vita professionale ad insegnare nella scuola. Docenti che, magari, possono conoscere benissimo la teoria pedagogica e metodologica che definisce, sulla carta, la figura dell’insegnante scolastico, ma che mai hanno svolto questo mestiere. E ancora, docenti che sembrano ignorare che l’insegnamento di una materia a scuola è radicalmente diverso dall’insegnamento di quella stessa materia a livello universitario, proprio perché radicalmente diverso è il contesto educativo in cui avviene il rapporto docente-discente nei due diversi sistemi di istruzione. Ma perché allora gli accademici italiani, tranne rare eccezioni, finora non hanno preso posizione rispetto al ruolo che le Università stanno esercitando da decenni nel processo di formazione dei docenti della scuola? Ebbene, questa domanda apre a una questione di carattere specificamente economico: infatti, da quando in Italia è stata introdotta l’idea di una formazione per diventare insegnanti della scuola, le Università ne sono state le principali beneficiare.
Umiliati sempre più da uno Stato che continua a ridurre i fondi per la voce “Università e ricerca”, già di per sé insufficienti rispetto alla media degli investimenti europei in tale settore, gli Atenei sono stati autorizzati da questo stesso Stato a “fare cassa” grazie alle tasse di iscrizione che riscuotono dai docenti della scuola. I corsi abilitanti e di specializzazione per il personale docente della scuola, infatti, costituiscono ormai un’entrata fondamentale nel bilancio delle nostre Università. Si comprende allora la decisione, presa ad esempio dall’Ateneo senese, di far iniziare le lezioni del Corso di specializzazione sul sostegno a metà luglio, ovvero prima che il Miur e l’Ufficio scolastico regionale possano essere in grado di comunicare ai docenti inseriti nelle Graduatorie di merito del Concorso 2016 se l’agognata immissione in ruolo avverrà o meno con il nuovo anno scolastico. Questa tempistica, infatti, permetterà all’Università di Siena di incamerare la prima rata del Corso di specializzazione (che, da bando di concorso, non può essere rimborsata per alcuna ragione) anche da chi, tra gli ammessi al Corso, a fine agosto avrà la fortuna di vedersi confermata l’immissione in ruolo. Ecco perché, realisticamente, è difficile aspettarsi una critica costruttiva al sistema della formazione scolastica da parte dei docenti universitari, i cui stipendi, oggi, sono pagati anche grazie a tale entrata. Tutti teniamo famiglia.
Ed è proprio per questa ragione che l’autore o autrice di questo articolo si guarderà bene dal firmarlo col proprio nome e cognome. Perché gli insegnanti con contratto a tempo determinato, o precari che dir si voglia, si sentono sempre più soli: i loro problemi lavorativi, la loro frustrazione, il mancato rispetto della professionalità acquisita attraverso anni di studio e di servizio nella scuola sembrano non interessare a nessuno. Non occupiamo le prime pagine dei giornali, non ci sono documentari sulla realtà della scuola italiana, non ci sono intellettuali che manifestino la necessità di aprire una riflessione pubblica sulla schizofrenia che caratterizza il rapporto tra Stato e docenti nel nostro paese. Nello scenario odierno, le poche voci che tentano di raccontare un altro punto di vista sulla scuola rispetto alla grande narrazione offertane dall’ideologia didattica statale, si espongono realisticamente all’ostracismo professionale. Dalla solitudine del mio anonimato, posso solo lanciare un ultimo interrogativo ai cittadini che hanno avuto la pazienza, e anche la curiosità, di arrivare alle fine di questo lungo articolo: dopo questa formazione infinita, ai docenti delle vostre scuole rimarrà ancora un po’ di voglia di fare l’insegnante?