Una riflessione su identità e social network
In un articolo di pochi giorni fa Daniela Monti partiva da un memo di Slate, una vignetta satirica di 7 anni fa, uno spazio ridottissimo e una sana dose di luoghi comuni per ritenere incoraggiante la crescita dei social network, segno del crollo dell’anonimato telematico: «la Rete è cresciuta, la bambinaggine di nascondersi dietro un paravento non interessa più»; la “fatica di diventare adulti” comporta “metterci la faccia”, “combattere a viso aperto.” Per la Monti, tutto ciò equivale a utilizzare la propria identità.
Ma probabilmente la più diffusa vulgata sui social network (questa sì banale e filoreazionaria), in contrasto a quanto detto sopra, è quella per cui essi distruggono la “vera socialità”, quella che si forma in piazza giocando a campana, parlando con gli anziani sulle panchine e riscoprendosi anni dopo in foto color seppia: Facebook causerebbe alienazione, confusione sociale, moltiplicazione massificata di amicizie superficiali, tumori e così via.
Ricordiamo anche che la recente esplosione di dispositivi tablet e di smartphone, dispositivi capaci di connettersi da ogni dove abbia fatto nascere polemiche legate alla privacy, alla possibilità di venire tracciati o di vedere diffusi i propri dati ad aziende terze. Questi tre punti ruotano tutti attorno alla questione dell’identità e della sua protezione. Ma ora la domanda non banale: cosa viene considerato identità, negli esempi di cui ho parlato?
Sull’articolo c’è in fondo il nome Laura Monti, per cui io credo l’abbia scritto lei. Mostrare la propria identità è anzitutto mostrare un nome, quello con cui si viene registrati all’anagrafe, che ritroviamo nei documenti ecc… Ma credere che l’identità coincida con l’esplicitazione del proprio nome è un errore non da poco.
Tutto questo non è troppo dissimile da quanto fanno le marche pubblicitarie; per assicurare che sia un jeans “buono”, metto il nome Levi Strauss; o riso Scotti; o, sul logo del partito, metto il nome del suo Leader carismatico. Sono tutti nomi, ma vengono usati all’interno di un processo per cui “metterci la faccia” è più importante di “metterci le parole”, dove chi parla mi garantisce della qualità del cosa dice, prima ancora che sia letto.
Tutto questo fa parte di un meccanismo, quello di crescita esponenziale del valore del brand, che è quasi una costante del Novecento. Se l’Ottocento era l’epoca del romanzo di formazione, in cui attraverso le proprie azioni si otteneva un posto (e un nome) nel mondo, ora siamo dall’altra parte del percorso: in cui bisogna mostrare il nome per assicurare che “la qualità è sempre quella”, o farlo diventare desiderabile, conosciuto. Oggi la lotta si gioca sui mezzi attraverso cui si mantiene e si diffonde questo nome.
Nel mondo del web 2.0, in cui le informazioni si muovono velocemente e trasversalmente e gli aggregatori le determinano per “democratica massa di +1”, non è possibile non farsi pubblicità. Ogni azione è un’onda che si propaga nella rete: il che è certamente paritario e permette a chiunque i suoi 15 minuti di fama. Ma per restare a galla è naturale che le parole-marchio debbano essere ricercate, diffuse, diventare come delle icone; tutto ciò è praticamente inseparabile dalla giusta necessità di ognuno di noi di parlare per esprimere se stesso, di farsi conoscere e vedere i propri discorsi entrare in dialogo con altre persone.
Il parallelo di questa tendenza è naturalmente quello del “metterci le parole”, di agire in modo che ciò che facciamo, diffuso attraverso i mezzi di cui siamo in possesso, sia il primo lasciapassare della nostra identità; ma contemporaneamente, possiamo pensare che una corretta costruzione della nostra identità passi per un utilizzo consapevole dei nostri discorsi, oltre ogni possibilità di essere ridotti a marchio, stereotipo, brand.
La responsabilità con cui coloro che scrivono abitualmente sui forum e chat portano avanti le proprie identità è data soprattutto dalla lucidità con cui ci si rende conto che essa non è un dato di fatto, ma qualcosa da preservare, costruire, mettere in gioco nel dialogo; valutare i contenuti, giudicare per ciò che viene detto è una banalità che deve essere ripetuta.
Quello che invece sta cambiando ed è cambiato, e qui qualcuno se ne è già accorto, è piuttosto la volontà del popolo di internet di far interagire, sempre più, i due grandi mondi del reale e del virtuale. Come durante le grandi colonizzazioni della storia, continenti lontanissimi e irraggiungibili venivano abitati da profughi, rifugiati politici, compagnie economiche e religiose: uno spazio immenso che richiedeva adattamento, trasformazione, assunzione di nuova identità e assunzione di un nuovo ruolo; e solo col crearsi di una comunità, attraverso la creazione di commerci e comunicazione, essi diventavano altrove definiti, non più terre leggendarie ma realia geografici.
Il mondo di internet vive oggi correnti di stabilizzazione identitaria, di responsabilizzazione collettiva; altre di consolidamento delle identità “reali” e dei trust delle multinazionali: ma ora sta creando ponti sempre più forti, attivismo virtuale che sconfina nel reale, flussi migratori di discussione politica, strumento di comunicazione e di dialogo, che agiscono indipendentemente dal nome e dalla volontà di esibirli, ma dalla necessità di nuovi spazi dove le precedenti gerarchie non valgano, di luoghi (virtuali) dove respirare… E forse l’assumere il proprio nome è davvero l’aspetto meno importante di un grande continente che continua a cercare nuove regole, tra invisibili dispotismi, fasce di resistenza e realtà ormai autosufficienti.