“Corpi di reato” è un reportage curato da Fabio Severo con le foto di Tommaso Bonaventura e Alessandro Imbriaco, il progetto è dell’Associazione ZONA.
All’archeologia visiva dei fenomeni mafiosi nell’Italia contemporanea realizzata dai due fotografi affianchiamo la lettura di alcune delle loro foto realizzata da Antonio Iannello e Antonio Vesco.
Gli scaffali del Centro Internazionale di Documentazione sulle Mafie reggono centinaia di fascicoli. Una delle immagini del reportage fotografico di Alessandro Imbriaco e Tommaso Bonaventura curato da Fabio Severo è dedicata agli atti del primo maxi-processo a Cosa Nostra. É l’immagine più potente, tra quelle proposte dagli autori di “Corpi di reato”. L’enorme mole di informazioni conoscibili sulle mafie e il livello di complessità di un fenomeno la cui definizione non sfugge alle sue rappresentazioni giudiziarie sono testimoniati dallo scatto che “tutto tiene”. Ma tutto non si può tenere, si può al più indicare. E quella giudiziaria è solo una delle fonti possibili. Se all’interno di questa specifica fonte vi sono nuclei di informazioni così reticolari e complesse, allora come raccontare e definire le mafie senza studiarne il ruolo storico e sociale, pari a quello di un attore di primo piano della storia italiana? Il limite dei dispositivi giuridici come le sentenze di condanna vengono disegnati precisamente dalla stessa mole di materiale che si produce in fase istruttoria e d’indagine. I limiti della fonte giudiziaria sono rintracciabili al suo stesso interno. Per tacere di altre fonti possibili, questa foto più di altre (e forse al contrario di altre) ci dice che studiare la mafia significa esattamente studiare la società.
Dal Padiglione d’arte contemporanea di Milano allo Zephir di Mannheim, passando per la Biennale dell’Architettura di Venezia, e ancora Roma (MACRO e Istituto centrale per il catalogo e la documentazione) e Trento (Gallerie) la mostra “Corpi di reato” attraversa il Paese con un taglio di essenziale originalità. Come raccontare le mafie attraverso la fotografia, pare essere l’interrogativo che spinge gli autori in questo progetto dell’Associazione Zona, in collaborazione con le associazioni daSud, Fondazione progetto Legalità onlus, Libera – associazioni, nomi e numeri contro le mafie e l’agenzia Contrasto. Un progetto fotografico molto ampio anche rispetto alla selezione proposta su Zona.
L’obiettivo degli autori, dichiarato fin dal testo di presentazione del reportage, è quello di contrastare la dispersione di un fenomeno – in parte prodotta dalla sua sovra-rappresentazione – sempre più percepito come indefinito, multiforme, talvolta invisibile, «per ridare alle mafie un orizzonte visibile seguendo i tanti segni lasciati sul territorio».
Gli scatti che compongono il reportage si susseguono allora nel tentativo di restituire la tangibilità delle mafie. Lo sguardo – e questo caso non fa eccezione – non sfugge alle forme della rappresentazione, se ne fa guidare, come da lenti che accompagnano il movimento degli occhi che poggiano su un oggetto più connotato che denotato. Allo stesso tempo, attraverso uno stile secco e asciutto come i testi che accompagnano le immagini (luoghi, soprattutto, ma non soltanto, come scoprirà chi avrà occasione di vedere la mostra nella sua completezza), il progetto si caratterizza come un lavoro in corso, una ricerca aperta. I segni indelebili lasciati dalle cosche siciliane, dalle ‘ndrine calabresi e dai gruppi di camorra, che ritroviamo nelle immagini, appaiono talvolta inscritti nella narrazione – giuridica, mediatica, accademica – che ha contribuito a dissolvere il fenomeno nell’ambiente circostante, a confonderlo con questo. Dapprima nelle società meridionali che per prime lo hanno espresso, poi in tutto il Paese, divenuto simbolo di corruzione, di degrado civile e politico. Il Paese-humus, il Paese-contesto, cristallizzato a partire da una interpretazione troppo immediata della prosa sciasciana.
La mafia come explanans, come variabile in grado di spiegare diversificate dinamiche di illegalità, piuttosto che come explanandum di cui spiegare logiche e caratteristiche (Cfr. R. Sciarrone, in Mafie del Nord. Strategie criminali e contesti locali, Donzelli, Roma 2014, p. 21). La mafia come oggetto-contenitore, che tiene insieme il novero di professionisti non affiliati alle cosche, imprenditori non organici, funzionari e amministratori che costituiscono il cuore dei comitati di affari. Questi presiedono alla pianificazione di grandi opere incompiute come quelle presentate dalle immagini che ritraggono i cantieri abbandonati della statale 106 “Ionica”, in Calabria. È poi vero, però, che le imprese mafiose sono meno efficienti di altre? Immagini del genere rimandano a un radicato binomio, quello che identifica la presenza mafiosa con il sottosviluppo: un’equazione messa in discussione perfino da un altro degli stereotipi sulle mafie, che vorrebbe i gruppi mafiosi come sempre più integrati nel sistema capitalistico.
E non sfugge alla grande narrazione sulle mafie l’urgenza di ritrarre i luoghi-simbolo del racconto mediatico del fenomeno mafioso, come il luogo dell’attentato a Peppino Impastato, alla periferia di Cinisi, o l’ingresso dello stabile di via D’Amelio, dove fu ucciso Paolo Borsellino. O, ancora, il covo di Bernardo Provenzano.
Il reportage rivisita, uno dopo l’altro, i principali elementi della grande narrazione sul fenomeno mafioso. Dall’ossimoro, mediaticamente efficace e proprio per questo ben radicato nel senso comune, della progressiva finanziarizzazione (le immagini su San Marino) di gruppi criminali i cui capi trovano ancora rifugio – e radicamento – in contesti agrari e urbani (Corleone, paesino arroccato; il rifugio di Provenzano, un casale abbandonato alle porte del paese) all’espansione in nuovi territori – il Nord Italia, di cui la Lombardia e le immagini sulla cittadina di Desio costituiscono un caso esemplare, perché ampiamente affrontato dalla magistratura e inevitabilmente sviscerato dai media. Si tratta di elementi che rendono conto della sempre maggiore complessità di organizzazioni criminali la cui caratteristica principale risiede nella natura ibrida della loro composizione: gruppi criminali che stanno sul confine tra il radicamento territoriale nelle aree da cui provengono gli affiliati e la delocalizzazione delle proprie attività in aree avanzate del Paese.
I protagonisti del racconto sono però ancora loro, i mafiosi, con le loro caratteristiche e i loro cliché. Le indagini sociologiche più recenti ci hanno invece abituati a considerare i gruppi criminali italiani come attori tra gli altri, inseriti in complessi sistemi di corruzione. Il filo rosso che unisce le foto cavalca uno degli stereotipi più diffusi, più radicati nel senso comune: la mafia come anti-Stato. Una separazione concettuale che pare non accogliere i risultati delle ricerche e delle riflessioni storiche, antropologiche, sociologiche degli ultimi anni.
La discarica di Desio è un buco nella terra che pare raffigurare un nascondiglio: anche qui il marcio sta sotto. Il discorso appare inserito ancora una volta nella polarizzazione alto/basso; luce/buio; sotto/sopra, appunto: è questo un giusto paradigma per la conoscenza rispetto alle mafie? Ci pare che ricacciare le mafie in un luogo altro, buio, inconoscibile sia stata per lungo tempo una sorta di giustificazione da cui discende una modalità di contrasto puramente repressiva, legalitaria. Mentre le mafie agiscono anche nella luce, attraverso strumenti e imprese legali, talvolta insieme a queste, talaltra in contrasto e competizione.
L’immagine di San Marino ben si contrappone al basso di Desio. È il Purgatorio, risultante dalla caduta di Lucifero, di cui si parla in Isaia e poi nella Commedia. Lucifero cade dal cielo sbattuto via da dio e rovina sulla terra, che si ritrae e crea un imbuto che sarà poi l’inferno (il basso, Desio, i rifiuti), ma come movimento opposto dall’altro lato della terra si forma il monte Purgatorio, S. Marino: è lì che i peccati sono ripuliti e perdonati. Basta un passaggio, breve o lungo. Se il segreto bancario è importante per la proliferazione delle mafie questo non è tuttavia una loro esclusiva: quanto conta infatti per quelle imprese del tutto legali che se ne servono?
Le immagini delle cave di Mazara del Vallo, della Masseria, mettono al centro del discorso la necessità di scavare. Scavare per scovare. Scatti che rimangono all’interno della necessità della cattura, secondo un paradigma repressivo difficile da estirpare: una lettura che ci dice che lo scopo ultimo rimane quello di catturare l’attuale “capo dei capi” (oggi identificato con Matteo Messina Denaro: finchè la narrazione su ‘ndrangheta e camorra non produrrà personaggi altrettanto identificabili, il capo mediatico di questa macro-organizzazione criminale che include tutte le mafie italiane non potrà che essere rappresentato da un siciliano).
L’aula del consiglio comunale di Marciana. Vuota perché l’infiltrazione mafiosa ha determinato il commissariamento. Il concetto di infiltrazione, mutuato dalla logica e dal linguaggio giudiziari, continua a permeare il discorso sulle mafie, a nutrire immagini che pure intendono restituire tangibilità a un fenomeno che, al momento, appare definito per lo più dalla sua narrazione giudiziaria. La necessità di materializzare un fenomeno sfuggente non avrà successo, però, finché non si prenderanno sul serio i discorsi che lo performano.
Infine, il luogo dell’attentato a Peppino Impastato. Al centro c’è un segnale di morte. I cavi per la trazione elettrica del treno – protagonisti dell’immagine – potrebbero essere una più utile forma di rappresentazione della stretta mortifera agita dal potere mafioso. Questo si presenta come erogatore di risorse imprescindibili (la mobilità) e costantemente capace di minacciare, ma l’energia elettrica è erogata dalle imprese e dallo Stato: forse in questo caso le linee dritte e regolari (dunque legali) sono più efficaci nel rappresentare il punto di fusione, le vie parallele e compresenti di imprese, istituzioni, gruppi criminali che insieme erogano e minacciano.
È necessario indagare le condizioni storiche di possibilità entro cui il potere mafioso ha potuto vedersi riconosciuto un ruolo politico, ha potuto ritagliarsi uno spazio di agibilità nell’economia, nei servizi, nel mercato del lavoro. Rintracciare i processi attraverso i quali tali gruppi di potere hanno acquisito un ruolo di rilievo – perché sempre più percepiti come pertinenti – all’interno di quello spazio ibrido che si attesta sul confine tra legale e illegale.