Covid-19, un oggetto culturale e politico

L’emergenza relativa alla diffusione del Coronavirus ci dice qualcosa sull’Italia contemporanea e sulla governance del rischio.

Una delle opere esposte nella mostra ‘I colori della Scienza’ (fonte: INFN)

Ciò che affascina delle emergenze – intese come quegli eventi inattesi e indesiderati che fanno irruzione nella vita di una società e ne interrompono il regolare flusso – è la loro capacità di mettere a nudo i tratti più autentici della normalità. Ossia le caratteristiche, le relazioni e i tic propri del quotidiano nei tempi di pace. L’insieme di quei rapporti, insomma, che finiscono con l’essere occultati dal fluire ordinario del tempo. Un po’ come nel caso di quell’antropologo che per comprendere la vita nascosta di una comunità interroga con interesse lo scemo del villaggio normalmente relegato ai margini della vita sociale e ritenuto incapace di dire alcunché di sensato. Oppure in quello dello sperimentatore che causa incidenti relazionali per trarre delle indicazioni sulle aspettative comuni nella vita associata. I tempi di sospensione della normalità sono quelli che meglio di altri illuminano l’ordinario.

Covid-19, com’è stato recentemente rinominato quel virus-specchio anamorfico della normalità che tanto sta turbando la vita del nostro paese, è ancora più interessante perché è posto a un livello di intersezione tra livelli politici. È cioè un fenomeno globale che, in quanto tale, getta luce non soltanto sull’impatto e la ricezione locale di un fenomeno emergenziale, ma sugli intrecci e le fughe di un piano dall’altro. Ciò, in altri termini, che costituisce l’adattamento locale a un fenomeno globale.

Inoltre, senza la pretesa di stare dicendo alcunché di originale, di Covid-19 possiamo anche dire che, com’è tipico delle epidemie e dei virus, esso è un fenomeno culturale e politico. Ossia una entità che evade dall’ambito stretto della salute e intercetta tanto il piano della risposta sociale al pericolo (per esempio, la corsa ai supermercati, alle mascherine e ai gel igienizzanti) quanto quelli della narrazione (in primo luogo giornalistica, improntata sul climax) e, naturalmente, della risposta politica (incentrata sulla performance, ancora prima che sul buon governo dell’emergenza: una contraddizione in termini che speriamo potrà emergere chiaramente da queste riflessioni).

Questa analisi non pretende di dire nulla sulla pericolosità e il rischio del virus. Ma intende trattare quest’ultimo come un oggetto culturale e politico, rimettendo insieme alcuni pezzi scomposti che, visti nella loro interezza, sono in grado di dire qualcosa sull’Italia contemporanea nei suoi intrecci coi livelli superiori della governance del rischio.

Il primo banale aspetto che è possibile intravedere è relativo al fallimento della comunicazione del rischio. Se con questa dobbiamo intendere una presa di posizione e una definizione della situazione di matrice istituzionale ed esperta, univoca nei suoi tratti, precisa e comprensibile per un pubblico quanto più generale, ciò che si è visto in azione è l’esatto contrario. In ragione probabilmente della mediazione garantita dai canali generalisti di informazione – quelli, cioè, che si interpongono tra la fonte istituzionale e il pubblico – nel corso del tempo i destinatari finali delle notizie sono transitati attraverso registri e messaggi contraddittori, in cui a prevalere sono stati sempre e comunque i toni allarmistici. Il principio dell’univocità e della non-contraddizione dell’informazione sul rischio è stato dunque sistematicamente disatteso da parte dei media, in modo esplicito o attraverso la compresenza, negli stessi spazi o in quelli concorrenti, di contenuti contraddittori, volti a produrre climi morali per mezzo di narrazioni coinvolgenti incentrate essenzialmente sul pathos. 

Questo fallimento può essere ulteriormente specificato a partire dalla compresenza e competizione nello spazio mediatico di differenti esperti, portatori di visioni contraddittorie tra loro. Specie nel caso italiano, la comunicazione del rischio mediata dagli organi di informazione ha finito con l’essere ricalcata sul modello della comunicazione politica tradizionale, incentrata sulla par condicio e sul confronto a tratti persino urlato (si veda, per esempio, quella che è stata rappresentata come la lite tra gli esperti Burioni e Gismondo). Ciò ha rapidamente generato la formazione di partiti o fazioni epidemiologiche, divise tra allarmisti e rassicurazionisti, che si riflette nel basso sociale generando confusione e, possiamo immaginare, risposte individuali, modi di comprensione della situazione e stati d’animo differenti. Elementi che non vanno in direzione di una profilassi generalizzata e che, soprattutto, mettono in luce, peraltro correttamente, il carattere tutt’altro che univoco della scienza. Un ulteriore fallimento della comunicazione del rischio, dunque, riguarda l’autorevolezza della scienza e la sua funzione coadiuvante nei processi di regolazione. In altri termini, se mai l’abbia avuto, la scienza non detiene più alcuna forma di monopolio nella definizione delle situazioni e delle risposte, neanche in ambiti, come quello attuale, che per definizione le perterrebbero. Una sostanziale e ulteriore dimostrazione dello smantellamento di primati che a lungo – dal Positivismo, se non dal Seicento – abbiamo associato ad essa e continuiamo per abitudine e cecità a fare.

Il principio della non-contraddizione della comunicazione del rischio appare inoltre violato da un’altra sovrapposizione, relativa alla compresenza e simultaneità dei corsi di azione di differenti agenzie di controllo. Dall’Organizzazione Mondiale della Sanità ai Ministeri della Salute di ciascun paese e, nel caso italiano, alle agenzie decentrate di ambito regionale o provinciale, le istituzioni coinvolte hanno agito secondo modalità autonome e contraddittorie. Negli aeroporti siciliani, per esempio, sono stati lamentati pochi o nessun controllo sugli arrivi di persone provenienti da aree considerate ad alto rischio. A livello nazionale, invece, il blocco dei voli provenienti da paesi ritenuti focolai del virus ha generato le critiche dell’Oms, la quale ha lamentato una sostanziale non ottemperanza dell’Italia alle proprie raccomandazioni. Limitandoci al solo caso nazionale, una rapida e superficiale rassegna delle varie stampe locali mostrerebbe una disparità e contraddittorietà dei provvedimenti adottati equivalenti al numero delle regioni, se non dei comuni (un caso a me prossimo, Messina, mostrerebbe per esempio che nell’attimo in cui l’allarme viene recepito e un tavolo tecnico convocato, l’amministrazione non sospende il festival della pignolata, un evento gastronomico che prevede migliaia di partecipanti in spazi relativamente ristretti. Tutto ciò mentre si considera di chiudere invece le scuole. Un altro fallimento della comunicazione del rischio, dunque, consiste nella sua incapacità di imporsi persino a un livello interno, attinente cioè al coordinamento delle istituzioni stesse. Si potrebbe altresì dire, nella vistosità delle contraddizioni tra i documenti prodotti dalle agenzie virtualmente deputate al controllo del rischio sanitario e le azioni messe in atto dalle differenti amministrazioni centrali o locali.

È possibile affermare inoltre che il fallimento della comunicazione del rischio ha messo a nudo la coesistenza di due tempistiche dell’informazione e una gerarchia invertita. Da un lato vi sono i tempi dell’informazione “commerciale”, guidata, come si è già osservato, dal principio del coinvolgimento e dalla velocità. Dall’altro, i tempi lenti dell’informazione istituzionale, guidati dagli imperativi della responsabilità e dell’accordo tra esperti. Un tipo di comunicazione e una fonte che, pur virtualmente primarie e sovraordinate, divengono nella realtà pratica – ossia nei costumi di consumo e nella necessità sociale della mediazione – subordinate. Così che ciò che l’istituzione afferma diventa, anziché il centro di una notizia, il semplice contorno di un’attività di scrittura – ossia di una narrazione – che vuole essere innanzitutto coinvolgente e che appare orientata a produrre emozioni. Il secondo fallimento della comunicazione del rischio attiene dunque ai tempi della messa in circolo dei contenuti, alle gerarchie della loro visibilità e, infine, alla loro vulnerabilità a forme di processabilità mediatica secondo modalità non previste e non volute.

In ultima analisi, le condizioni sin qui analizzate ci pongono davanti alla necessità di riflettere sullo status della comunicazione del rischio in un regime di pluralismo delle voci, oltre che di moltiplicazione di queste e dei media che ne amplificano il messaggio (ciò, per lo meno, se si considerano i social network come canali capaci di generare un numero pressoché infinito di opinion-leader, ritenuti autorevoli da differenti pubblici in ragione dei propri orientamenti politico-culturali e dei propri capitali culturali). La questione appare particolarmente delicata perché, da un lato, implica l’impossibilità tecnica di una informazione unica, o quantomeno dominante, all’interno di regimi che non siano autoritari o, per lo meno, che non abbiano proclamato la sospensione del normale pluralismo. In altri termini, siamo posti davanti alla domanda se rischi come quelli posti da Covid-19 possano essere affrontati senza la proclamazione di uno stato d’eccezione (che, a scanso di equivoci, non è ciò che stiamo proponendo). Dall’altro lato, la crisi della comunicazione del rischio ci pone dinanzi alla relativizzazione dell’autorità, oltre che di ciò che viene definito, oppure percepito, come rischio.

Per essere più chiari, la crisi delle comunicazioni relative ai rischi per la vita e la sopravvivenza è la crisi dell’autorevolezza delle istituzioni. Oppure, se si crede, del suo precipitare in un regime di ambivalenza. Se è chiaro che la maggior parte delle persone continuerà ad attendersi delle risposte da istituzioni di governance della salute come l’Oms, è pur vero che istituzioni di questo tipo vanno smarrendo la loro centralità nei processi di governo. Quantomeno non hanno la stessa centralità nelle varie fasi della crisi. Si assiste così a un doppio o un triplo movimento. Da un lato sempre più attori hanno diritto di parola e, contemporaneamente, le popolazioni mantengono libertà di azione (possono, per esempio, assalire i supermercati o impiegare mascherine contro il parere delle istituzioni). Dall’altro la parola della scienza viene politicizzata. Ossia transita dall’ambito tecnico-politico – che, insieme al diritto, la rendeva spazio per eccellenza della produzione di verità – a quello dell’opinione; del parere, cioè, che vale quanto qualsiasi altra opinione, e a cui ciascuno può contribuire.

In questo quadro l’emergenza diventa il terreno di un assalto condotto da attori muniti di differenti agende in differenti territori. Così, per restare al caso italiano, Meloni può affermare in un’intervista che il Presidente del Consiglio Conte non deve illudersi e questa emergenza non salverà il suo governo. In quel dialogo con un giornalista, la politica considera ancora il virus un’emergenza, ma anche una partita all’interno di quel campionato più vasto che è la politica quotidiana: quella, per intenderci, che include le politiche per la scuola così come gli incentivi alle imprese. In un quadro di emergenze virtuali elette a lessico e grammatica della politica contemporanea, anche una emergenza globale finisce col pesare alla stessa maniera di qualunque altra questione e non merita dunque una sospensione dei normali repertori d’azione e di parola.

Coerentemente, l’emergenza scatenata dal virus può intrecciarsi con quella per l’immigrazione, intrecciando così i temi e trasformando la prima in un’articolazione della seconda. Non sarebbe troppo originale, comunque, impiegare troppo tempo a spiegare il modo in cui, esplicitamente o implicitamente, nella forma di presupposti ad una moltitudine di discorsi, questa epidemia abbia sollevato temi classici, legati essenzialmente alla razza, alle gerarchie delle nazioni, a immagini relative alla Cina come parte di un “Oriente insalubre” e altre forme culturali e insieme politiche che ruotano essenzialmente intorno a un “occidente” minacciato dai barbari. Come avviene classicamente, anche questa epidemia riattiva insomma un apparato culturale che possiamo agevolmente fare risalire al colonialismo e alla guerra delle razze di cui ci hanno parlato Foucault e una pletora di storici. Un apparato, comunque, europeo. Impiegabile da molti e per molti scopi. Che sentimenti produrrà, per esempio, la chiusura dei voli provenienti dall’Italia nei sovranisti di paesi marginali? Oppure in quelli italiani, che mai avrebbero immaginato di potere essere oggetto di una simile misura da parte di paesi subalterni?

Ma se da quest’ultimo punto di vista non vi è nulla di nuovo sotto il sole, ciò che è interessante è come questo apparato culturale entri a fare parte di un repertorio insieme vecchio e nuovo utile a fronteggiare la minaccia della morte. Se ai tempi delle epidemie classiche si abbandonava la città, si assaliva la casa di un governatore o ci si riuniva in preghiera, oggi l’angoscia della morte viene prodotta aderendo a una fazione o ricercando una comunità attraverso la condivisione di discorsi. Un modo coerente, peraltro, con quanto abbiamo tutti potuto osservare in altre circostanze. Come quella, per esempio, in cui un aereo precipita e i cellulari si sollevano per filmare la caduta, cercando di renderla disponibile on line un attimo prima dell’impatto. Anche lì, infatti, è la condivisione ad apparire centrale. Sicché possiamo dedurre che l’impotenza oggi si trasforma più facilmente in condivisione che in tumulto. E se la cosa dopo tutto non costituisce un’autentica novità – cos’altro facevano i protagonisti del Decameron nella bolla ricavata fuori da una Firenze impestata? – ciò che appare rilevante è che questa condizione sembra un preludio alla fine delle funzioni classiche dello Stato e alla trasformazione del governo in semplice performance, utile per l’appunto a dare luogo a un’ennesima condivisione.

È sempre il caso italiano a dare un’idea di questo processo, allorché covid-19 smette di essere un affare cinese, i contagi si moltiplicano e il governo mette in campo le quarantene di massa, l’esercito e quel repertorio che cerca di mettere in campo l’autorità confondendola per autorevolezza.

Ed ecco che appare chiaro che un’emergenza, in fondo, può anche uccidere e costituire un lutto per chi subisce una perdita. Ma che essa non sarà mai davvero tale fino a quando non potrà essere rappresentata come tale. E, perciò, divenire condivisibile.

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