Pubblichiamo un estratto dell’intervista a Toni Servillo a cura di Bruno Roberti. L’intervista apre il numero 22, “Maschera”, di “Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni”.
In La grande bellezza c’è una battuta che la Suora Santa dice a Jep, il tuo personaggio: «Sa perché mi cibo solo di radici? Perché le radici sono importanti». Tu sei nato nel “triangolo atellano”, alle porte di Napoli, Afragola, Frattamaggiore…
E Acerra.
Quindi nella terra che ha dato origini, radici alle maschere antiche della Fabula Atellana.
E poi a Pulcinella.
Cominciamo dal rapporto che hai con questo sostrato antico, con il retaggio della maschera latina.
Sicuramente scopro nel tempo un rapporto con Pulcinella. Questo sicuramente. Il retaggio, come lo chiami, viene da lì. Io lo dico spesso: se uno è disposto a crederci a queste cose, nel senso che alimentano l’immaginazione, qualche cosa si è depositato, attraverso i più disparati itinerari, da quel triangolo atellano. Guarda, c’è un che di profondamente eversivo nella maschera di Pulcinella. Ciò credo sia molto importante che possa trasmettersi a un attore, a uno scrittore, a un artista in generale, nel tempo. E per un attore questo elemento eversivo diventa – almeno per me, e mi riferisco al teatro – una ricerca costante. In che cosa consiste questa eversività di Pulcinella? Consiste nel momento. Pulcinella esiste nel momento. Io attribuisco a questa parola un significato molto preciso: momento.
Nella radice latina del termine c’è anche il “movimento”.
Sì: significa esserci e non esserci più. Quindi non attribuire nessuna importanza a un’idea, nel momento in cui la si è avuta. Caducità. Strafottenza. Ridimensionamento. Sensazione che si è sempre fregati. Momento che significa accadere, accadimento, ora e non più, ora e qui. Momento significa fuggire immediatamente dalla dimensione retorica. Parlo sempre come possibilità, beninteso, come tensione, dove respira questo elemento fondamentale della dimensione “pulcinellesca”. Fuggire dalla retorica, dal mercato delle idee, dal sovrappiù intellettualistico.
Essere imprendibili…
Ai limiti dell’irresponsabilità. Che cosa coincide con questa irresponsabilità di Pulcinella? Il “verso”. La voce chioccia. L’etimo napoletano di Pulcinella è “o’ pulliciniello”, “o’ pullicino”, il piccolo pulcino: questo sfuggire da tutte le parti. Tra le tante cose bellissime che sono state scritte su Pulcinella una l’ho letta proprio recentemente, e mi ha molto impressionato: è un brevissimo saggio di Domenico Rea, che è stato ripubblicato nei “Meridiani” di Mondadori. Qui Rea coglie di Pulcinella proprio questa sua dimensione eversiva, che poi è anche un po’ demoniaca.
Parlavi della “voce chioccia” di Pulcinella. In realtà la maschera alle sue origini è una “cavità sonora” (dentro il termine latino “persona” c’è il personare, il “suonare attraverso”), fatta per amplificare e deformare la voce. Era questo la maschera nel teatro antico.
Sì, anche un ausilio tecnico.
Uno strumento, per l’appunto. Una delle tue caratteristiche da sempre mi pare essere questa sorta di doppio registro vocale, che poi diventa linguistico, si fa immediatamente lingua di spettacolo. Tu trascorri spesso da una sorta di canto – e in ciò c’è anche il rapporto profondo che hai con la musica, con il melodramma, con il cantare (e penso a certa tua performatività nel restituire la parola e la sonorità dei versi di Enzo Moscato, da Partitura al pezzo di Rasoi, oppure alcune “tirate” drammaturgiche di Eduardo) – trascorri da una sorta di canto, dicevo, a un sussurrato meditativo (ricordo il tuo corifeo dei Persiani diretto da Martone a Siracusa, in cui sussurravi, amplificato da un piccolo radiomicrofono, come se stessi pensando). Questo registro duplice tu lo conduci e lo divarichi su un dispiegamento vocale, sdoppiandolo. Ciò ha a che fare, a mio parere, con la voce della maschera, con la voce del daimon che ci abita, e che abita massimamente un attore. Che poi sono “le voci di dentro”, anche quelle eduardiane che tu hai messo in scena, non a caso con una specie di tuo doppio obliquo, tuo fratello Peppe, che oltretutto è anche lui grande attore, essendo grande cantante.
Credo che queste di cui parli siano possibilità che offre la maschera, la voce come maschera, di trascendersi nel momento in cui ti esprimi sul palcoscenico. Io credo che questo sia molto importante: io parlo soprattutto del teatro, perché lì mi sento autore, al cinema è diverso. Questa necessità di trascendersi a volte si esprime non attraverso la maschera fisica, quella che attiene o che viene indossata sul volto, ma attraverso ciò che con la voce si sostituisce alla maschera. E quindi alternando dinamiche diverse, oppure facendo dei testi proprio una sorta di melopèa, che mette insieme significato e significante. In modo che nel fatto teatrale ci sia sempre una turbativa legata all’evento. L’evento va turbato. L’evento convenzionale va sottoposto a un perturbamento. E un modo per farlo è proprio questo trascendere se stessi, la propria identità, attraverso una maschera, o attraverso una maschera vocale, che crea “un avvenimento nell’avvenimento”.
Questo ha a che fare anche con la tua concezione dell’attore come “strumento”. Tu dici spesso di essere una specie di “primo violino” in un contesto che è comune, orchestrale. L’idea di strumento non è soltanto musicale, è anche – e torniamo all’idea di maschera – l’idea di un tramite, attraverso cui passa qualcosa che trascende, e ci trascende.
Esattamente, ci trascende e si mette nella condizione di trasmettere. Che cosa sono gli strumenti che dal Settecento arrivano fino ad oggi, suonati da una infinità di personalità, di musicisti con il loro corredo culturale, con la loro sensibilità? È una “strumentazione” che si mette al servizio, lo dico spesso, di congegni esplosivi, che sono i congegni drammaturgici, e gli dà fuoco. E nel momento in cui li accende si mette anche nella condizione di essere un trasmettitore, da un’epoca all’altra, di certi contenuti, che sono intellettuali, emotivi.
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C’è una linea teatrale precisa intorno alla quale lavori da anni, che può partire da un tuo Pirandello, L’uomo dal fiore in bocca, e, più o meno coevo, il tuo “corpo a corpo” con le poesie di Eduardo in E, e che prosegue via via con il Viviani di Zingari, i due Molière del Misantropo e Tartufo, il Marivaux di Le false confidenze, ancora l’Eduardo di Sabato, domenica e lunedì e di Le voci di dentro, e naturalmente l’intera Trilogia della villeggiatura. Non è un caso che questa drammaturgia lavori su un nesso vitale, la scrittura sul e per il palcoscenico, attraversando una strana soglia, quella tra persona e personaggio. Soglia che riguarda Goldoni e la sua “riforma” delle maschere della Commedia dell’Arte, Molière e il suo apprendistato con i comici napoletani a Parigi (a partire da Fiorillo), Pirandello e le sue “maschere nude”, per non parlare di Viviani e di De Filippo e il loro rapporto con il varietà, e per De Filippo anche la filiazione affermata/negata con Scarpetta, a sua volta riformatore della tradizione di Pulcinella.
La condizione dell’attore-creatore – anche se io non mi considero uno di questi, ma lavoro come tu dicevi sulle drammaturgie soprattutto di questi uomini di scena o che sono stati molto vicini al palcoscenico, dove il con- tenuto e l’espressione sono in una zona fisica di grande prossimità – credo che abbia a che fare con quella necessità e condizione che hanno gli attori di mantenere costantemente una energia pre-espressiva, che corrisponderebbe a quella dell’atleta quando si prepara prima di una gara, oppure a uno scrittore che prende appunti, o un regista di cinema che filma delle cose che gli torneranno utili. L’attore mantiene dentro di sé, alimentandola soprattutto con l’immaginazione, un’acutezza di osservazione e una condizione pre- espressiva. Sono concetti intorno ai quali io giro da molto tempo. Questa condizione mantiene nei confronti dell’esistenza una sorta di rinuncia ad altre ipotesi del vivere. In modo che tutto sia poi incanalato in questa costante confusione tra la persona e il personaggio.
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Tutto ciò mi pare abbia molto a che fare con un attore come Louis Jouvet. Si tratta di una sorta di “esercizio spirituale”, nel senso antico in cui ne parla Pierre Hadot, della filosofia greca tardo-antica. Jouvet mi sembra che tendesse esattamente a quello che dicevi, quando parlava di tensione all’impersonale, di attenzione, di “disordine” preesistente, di turbamento, di un allenamento anzitutto spirituale che non può prescindere però da uno stato psicofisico ed energetico particolare. Quando Jouvet distingueva acteur e comédien in fondo non intendeva tanto una dicotomia quanto una soglia dell’essere. C’è un po’ di comédien nell’acteur e un po’ di acteur nel comédien, o piuttosto si tratta appunto di un ritrarsi e poi di uno spingersi, di un lanciarsi.
È assolutamente così ma non potrebbe essere diversamente. Da Jouvet – che è un nume tutelare, per me –, dalla sua tensione ed esempio, dalla sua testimonianza, ho imparato proprio questa condizione, cioè di quanto la vita di un attore, la sua vita professionale, essendo strumento di se stesso, è compromessa con la vita di tutti i giorni. E quindi come naturalmente questa distinzione acteur/comédien, che serve come meccanismo d’attacco al personaggio, dal punto di vista razionale, in realtà poi nella pratica e nell’esercizio sia molto più labile, i contorni si sfumano. È un po’ la distinzione che, per capirci, faceva anche Eugenio Barba, tra gli attori-anima e gli attori-animus, se non ricordo male, ritenendo che gli attori-anima fossero quelli che corrispondono più all’attitudine del comédien e gli attori-animus, al maschile, corrispondessero più all’acteur.
Qui c’è una distinzione junghiana forse: animus/anima.
Esatto. Ma quello che è davvero fondamentale per me dell’insegnamento di Jouvet è la dimensione che lui sottolinea di rinuncia, che pone l’attore nella condizione di essere più affascinato dai bilanci che non dalle voca- zioni. Tutto quello che si capisce, se si capisce, si capisce alla fine. Quindi la maschera di un attore è il sedimento di una pratica che coincide con la sua esistenza.
Una sorta di “resto”.
Quello che rimane. La faccia di Eduardo De Filippo è una grande faccia del Novecento, la faccia di Giacometti è una grande faccia del Novecento, la faccia di Beckett è una grande faccia del Novecento. Sulla loro faccia c’è quello che è rimasto.
[…]
Attraverso questo tuo ragionamento si capisce molto bene l’altra dicotomia a cui ci si può riferire, cioè persona/personaggio in Pirandello. Se vuoi l’idea di maschera che ha Pirandello è quella novecentesca di spettralità, di sfaldamento dell’identità. Si perde – nel Novecento e nella modernità, ma già a partire dal Romanticismo, come mostra Michail Bachtin – l’idea che la maschera possa essere vitalistica, dionisiaca, possa morire e rinascere continuamente come nell’esito ultimo della Commedia dell’Arte, subentrando una sorta di “coscienza infelice” della maschera, di spettro, di automa, di burattino. Tutto il Novecento teatrale è molto vicino a questo, la maschera ritorna a un sostrato originario oscuro (la “larva”, la “masca” stregonesca) e viene rilanciata come automatismo, al limite del mostruoso o del perturbante. Da qui vorrei riferirmi ora al tuo lavoro di costruzione cinematografica. Nell’orizzonte di un cinema italiano che – da Petri a Moretti a Sorrentino – racconta e apre uno spazio politico, con tutte le sue ambiguità, attraverso le maschere del potere (Moro, Berlusconi, Andreotti), il tuo lavoro cinematografico è come se vivesse in una condizione di duplicità, costruisce personaggi e insieme maschere. Non è un caso che una delle tue interpretazioni recenti più emozionanti sia quella dei due fratelli gemelli in Viva la libertà di Andò, e anche il tuo Jep di La grande bellezza è di continuo sdoppiato, come il Ferdinando goldoniano, con la sua ironia di osservatore che poi slitta progressivamente negli accenti più dolorosi, come dimidiato tra volgarità e dolore.
Sono d’accordo, anche se devo confessarti che così come mi trovo a mio agio a parlare della maschera a proposito del teatro, perché è la mia pratica, è il mio percorso di conoscenza, questo accade meno per il cinema perché di questa maschera ne fa uso un’altra persona.
Anche perché al cinema la maschera, il diaframma, è la macchina da presa.
O l’occhio del regista. O il modo in cui il regista monta. O il modo in cui la scena con le sue maschere viene illuminata. Dal punto di vista della consapevolezza con cui la maschera viene da me lavorata, come attore e regista in teatro, o come la maschera si relaziona nel mio rapporto con il pubblico, c’è qualcosa che cambia al cinema, c’è una mediazione del regista. Ciò credo che faccia sì che io venga scelto da certi registi, anche alla loro opera prima (è accaduto per Molaioli, Cupellini, anche per Sorrentino, e in fondo pure per Ciprì, che fa il suo primo film da solo), forse proprio perché sono frequentatori e conoscitori del mio lavoro a teatro e quindi sono sedotti da questo aspetto, che ha a che fare con la maschera e di cui abbiamo parlato prima, e che poi loro fanno proprio, per cui molto spesso dico che io ci casco nei film.
In questo somigli a Mastroianni, più che a Volontè, che era un attore, grandissimo, ma che costruiva i personaggi con un atteggiamento diciamo critico o polemico verso la maschera. Mastroianni aveva un’attitudine alla plasticità, alla malleabilità, alla spersonalizzazione. Era il fantasmatico Snaporaz.
È interessante. Perché questi due grandi attori vengono spesso accostati, soprattutto come punti di riferimento della nostra generazione. Non è mai emerso però, come è invece emerso in questa nostra conversazione, che loro erano esattamente la dimostrazione di quello che abbiamo detto prima. Due attori che passano dall’acteur al comédien entrambi con la più grande indifferenza. Il problema della consapevolezza dell’esercizio della propria maschera, trasferito al cinema per me è ancora piuttosto insondabile, perché il cinema si declina al passato. Io quel personaggio l’ho recitato, per cui significa che tu quella maschera te la sei tolta e non la rimetti più. Mentre a teatro tutto è nell’atto e nell’attimo che recito: “a che ora c’è la recita?”, proprio nel linguaggio del palcoscenico c’è un presente continuo. Quindi la maschera la togli momentaneamente, usi alternativamente quel volto, quel sedimento, ed è qualche cosa che si trova ad aver a che fare con la tua vita. Invece al cinema c’è una declinazione del tempo diversa che spariglia completamente le carte, e c’è la possibilità di rivedersi, il che significa che quando tu ti vedi sullo schermo magari puoi avvertire una sensazione legata al tempo che passa, che fa montare magoni, mestizie, strazi del tempo che trascorre, per cui il tempo è fermato e la maschera prende un altro significato, rispetto anche alla tua vita. Mentre a teatro, nell’atto la maschera è fortemente legata, come dicevamo, a una dimensione di ritualità e a una forza simbolica.
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