Contro il conflitto di civiltà

Pubblichiamo una recensione di Gabriele ProglioContro il conflitto di civiltà, di Georges Corm.

conflitto di civiltà

Georges Corm, storico ed economista nato in Libano, è forse uno dei più importanti studiosi del Medio Oriente. Insegna in università collocate al di qua e al di là del Mediterraneo, in Libano, Francia, Spagna e Italia. Nel suo ultimo testo, La Nouvelle Question d’Orient (La Découverte, 2017), analizza e denuncia la volontà egemone dell’Alleanza Atlantica in Nord Africa e Medio Oriente con interventi di diverso tipo (militari, economici, politici eccetera). Corm studia la contemporaneità dando rilievo al paragone tra l’ingerenza delle nazioni europee nei Paesi della zona MENA (Medio Oriente e Nord Africa) e la presenza coloniale che – afferma lo studioso – aveva anch’essa l’urgenza di imporre un potere su quei territori. Lo sviluppo del terrorismo è interpretato come il risultato di questa “deregolamentazione della ragione”.

Numerosi sono i testi di Corm tradotti in italiano: Storia del Medio Oriente. Dall’antichità ai nostri giorni (Jack Book, 2009), Il nuovo governo del mondo. Ideologie, strutture, contropoteri (Vita e Pensiero, 2013), Il mondo arabo in conflitto. Il vicino Oriente dal dramma libanese all’invasione del Kuwait (Jaca Book, 2005), solo per citarne alcuni. Sicuramente, il più interessante, perché legato alle identità confessionali che generano violenza nel sistema internazionale contemporaneo, è Contro il conflitto di civiltà: sul “ritorno del religioso” nei conflitti contemporanei del Medio Oriente, edito da Guerini Associati (2016), curato e tradotto da Marina Calculli.

“Ritorno del” e “ricorso al” religioso

Contro il conflitto di civiltà è un ottimo volume per capire il presente, decostruendo le categorie con cui, spesso e volentieri, è stato raccontato e inventato il Medio Oriente. Tali narrazioni costruiscono una sorta di archivio – direbbe Ann Laura Stoler – fatto di immagini e rappresentazioni, di pratiche di dominio e discorsività; un archivio, si diceva, in continua formazione, che è il risultato, tra le altre cose, di discorsi ereditati dai colonialismi. Esso genera luoghi comuni e un lessico che divide il mondo in fazioni, leggendo i conflitti a patire dallo sguardo europeo, categorizzando corpi e luoghi, semplificando la complessità dei conflitti in base a uno schema binario, focalizzandosi sui volti del nemico.

Questa «nuova epistemologia dell’ordine internazionale» come la definisce Calculli nell’introduzione, genera il «ritorno del religioso». È intorno a tale categoria che Corm conduce la sua analisi. Ritorno che cela il ricorso al religioso – commenta Calculli. Già, perché l’intento di Corm è di far comprendere quanto, dietro l’accelerazione degli scontri, vi sia da più parti un investimento strumentale a far slittare le responsabilità politiche sul piano del trascendente. Bastino, a titolo esemplificativo, la «guerra al terrore» dichiarata da George Bush, per sua stessa ammissione «ispiratagli da Dio in sogno», e l’urgenza con la quale, nel mondo arabo, l’individuo è portato a identificarsi come sunnita o sciita. In questo ultimo caso, smontando le narrazioni, non si giunge al conflitto del VII secolo per conquistare l’eredità di Maometto, bensì alla contesa strategica tra Iran e monarchie del Golfo. Commenta acutamente Calculli: «non a caso questo discorso non si è materializzato fintanto che gli Stati Uniti hanno imposto e preservato un ordine geopolitico esterno che conteneva la potenza iraniana a vantaggio delle monarchie del Golfo ed è stato rifunzionalizzato solo dopo il 2003, ovvero dopo la caduta di Saddam Hussein».

 

Laicità, cittadinanza, politiche della memoria, tra Europa e “Vicino Oriente”

L’altro perno, attorno a cui ruota Contro il conflitto di civiltà, è la comunitarizzazione del mondo, ossia il fenomeno attraverso il quale milioni di individui, in tutto il mondo, si sentono prima parte di una comunità religiosa o etnica, e poi, solo in un secondo momento, cittadini, parte di una nazione. «Il mio obiettivo» spiega Corm «è di illustrare come sono stati forgiati i fanatismi che definisco “di civiltà”, che hanno rimpiazzato i fanatismi dell’era delle ideologie laiche nazionalistiche, capitaliste, liberali o marxiste». Nel percorrere la strada che porta a tale obiettivo, Corm mette in campo una puntuale analisi storica, studiando le polarizzazioni dicotomiche funzionali alle guerre e la manipolazione della memoria: dalle radici culturali dell’Europa ai “vuoti di memoria” in Medio Oriente.

La terza sezione del volume è poi dedicata al concetto di laicità. Corm parte dall’assunto che la rivoluzione francese e la filosofia liberale inglese, in particolare i testi di Locke e di Hume, introdussero il concetto di cittadinanza. Proprio su tale presupposto, dopo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789), si sarebbe dovuta basare l’idea di una società costituita da un corpo politico senza distinzione di razza, religione, sesso o appartenenza etnica e familiare.

Secondo Corm, si assiste, oggi «all’erosione del linguaggio e dei concetti su cui la nozione moderna di cittadinanza è fondata» con la mercificazione delle identità, conseguenza di politiche della memoria sviluppate da gruppi umani sradicati e infragiliti. Infatti, partendo dal concetto weberiano di “disincanto”, si può mostrare una certa simmetria tra la ricerca dell’autenticità – e aggiungerei della purezza – in Europa e le conseguenze nefaste di un multiculturalismo che ha, in fin dei conti, costruito sacche di povertà, emarginazione e rabbia sociale nelle città del Vecchio Continente, generando un processo simile intorno ai gruppi islamisti.

A questo punto, Corm lavora sul corpo della società europea, operando un’autopsia decostruttiva del modello multiculturalista, sezionando ogni tratto del pubblico e del privato: il rapporto io-noi, la triade popolo/nazione/civiltà, il binomio religione/cultura, il rapporto etnia/comunità/religione. La cittadinanza in larga parte è stata utilizzata come strumento capace di ridisegnare le gerarchie di potere interne al mondo europeo, consegnando, nelle mani di pochi, le briglie dell’economia, dello Stato, della nazione. L’alternativa è rappresentata da un sistema, sì, garante delle libertà individuali, ma che «assicuri allo stesso tempo una giusta ripartizione dei prodotti della crescita economica e del progresso tecnico per tutti gli strati della popolazione e tutte le regioni del Paese».

Cambio di sguardo: Corm si dedica, a questo punto, al Medio Oriente. La nozione moderna di libertà toccò il mondo extraeuropeo solo dopo la rivoluzione francese. In particolare, fu la campagna d’Egitto di Napoleone Bonaparte a imprimere una svolta netta nell’area. Sono citati alcuni esempi: l’attenzione di Mohammed Alì per la cultura francese – e il tentativo di trasformare l’Egitto di inizio del XIX secolo; le rivolte contadine del 1821, 1840, 1858-1859 in Egitto, Libano, Siria e in altre province dell’Impero ottomano, che si conclusero con la soppressione dello status del dhimmi (regolamentava la condizione dei non musulmani) e l’applicazione dei princìpi di cittadinanza.

Il periodo coloniale, e proprio a partire dall’Egitto di Napoleone, spazzò via questo tipo di tendenza politica perché, per controllare corpi e territori, decretò la non applicabilità del diritto europeo nelle terre d’oltremare. Le nazioni europee agirono reclamando la fine della tratta – si pensi agli scritti di Condorcet e Montesquieu – imponendo, prima con le parole e poi con l’uso delle armi, un dominio diretto su quelle zone. Il motto di Jules Ferry – «la laicità non è un prodotto d’esportazione» – era diventato legge. Superato il periodo delle decolonizzazioni, che tentò di rimettere in discussione la possibilità di uno Stato-nazione al di fuori dal baricentro culturale europeo, gli anni Settanta segnarono la reislamizzazione delle società arabe e delle società musulmane dell’Asia.

Corm, in questo interessante crescendo storico, permette al lettore di comprendere come la Carta dei diritti non fu mai usata in modo univoco e onnicomprensivo. Anzi, proprio in base agli scopi e alle finalità europee, si tentò di manipolare l’idea di libertà – introducendo, per esempio, prima il concetto di “missione civilizzatrice” e poi inventando il “Terzo Mondo” e le relazioni da intrattenere in termini di politiche internazionali, di rapporti individuali e collettivi legati alla razza, al genere, al colore, all’etnia.

Dopo aver perimetrato l’intero campo di battaglia, mostrando le evidenze storiche, Corm arriva al punto: «La manipolazione selettiva dei diritti dell’uomo nell’ordine geopolitico, il silenzio su determinati scandali, le risposte estremamente violente su altri, sono armi eccellenti che l’Occidente offre a tutti i regimi autoritari per denunciare quanto effimeri siano i valori della libertà e della democrazia e preservare l’autoritarismo dei loro regimi».

La terza guerra mondiale?

Le conclusioni, infine, tirano le fila delle riflessioni che si sono snodate lungo i dieci capitoli e nelle oltre duecento pagine. «Verso la terza guerra mondiale?» Questa è la domanda che fa da titolo alle ultime intense venti pagine. Il XXI secolo – chiarisce Corm – è segnato dal ritorno alla politica dei blocchi antagonisti, anche se lo scenario sembra molto più complicato di quello della guerra fredda. Il Mediterraneo è il confine di tale conflitto: «è spesso percepito come principale linea di frattura tra il mondo cristiano e il mondo musulmano». Esiste, perciò, un Mediterraneo cristiano il cui prolungamento porta negli Stati Uniti e più in generale nel mondo atlantico; ma, al tempo stesso, è palese l’esistenza di un Mediterraneo musulmano in continuità con l’Asia minore e centrale, con la penisola indiana. Due sono le estremità dei due Mediterranei: Israele, «uno spazio quasi sacro nella coscienza occidentale», e numerose comunità musulmane e arabe in Europa e negli Stati Uniti. Entrambe sono percepite come fonte di “pericolo” nei rispettivi contesti mediterranei.

Dopo aver preso in considerazione le cinque cause di conflitto tra le due aree (terrorismo, politica estera Usa-UE, politica della zona MENA, Israele/Palestina, Iran), Corm passa a descrivere quali possano essere gli strumenti per impedire gli sviluppi negativi delle dinamiche descritte dettagliatamente nelle pagine precedenti. Chiarito che esistono solidarietà per ciascun blocco “di civiltà” – da un lato quelle predicate da USA-EU, dall’altro quelle delle correnti islamiste che tendono verso una solidarietà panislamista, per alcuni incarnata dalla ricostruzione del califfato – occorre sviluppare una riflessione critica capace di controbilanciare queste retoriche. «Non si tratta» ammonisce Corm «di consolidare il discorso ridondante del “dialogo” tra le civiltà per fare da contrappeso alla dinamica della “guerra di civiltà”. Né l’etnia, né la religione, né la civiltà sono per se stesse responsabili delle guerre». Per giungere a un dialogo utile, è necessario, innanzitutto, «riconoscere che la guerra, al di là della cosmetica ideologica e antropologica che le è addossata a titolo di legittimazione, è sempre il risultato dell’ambizione degli uomini, dei fattori oggettivi e di natura economica, demografica, geografica e politica». Ma soprattutto, essa è il risultato dell’attentato – che continua da diversi secoli – alle regole della buona condotta internazionale istituite tra le nazioni. «Dialogare sulle religioni e sulle civiltà, piuttosto che sui reali motivi dei conflitti che si moltiplicano dalla fine della guerra fredda, contribuisce a infiammare gli immaginari e i fantasmi, invece di neutralizzarli». Dietro l’angolo, se anche questi ultimi moniti verranno disattesi, si potrebbe annidare una nuova guerra totale.

 

 

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