Recensione di A cosa serve Michelangelo? di Tomaso Montanari.
Nel suo studio dedicato all’analisi dei rapporti tra le immagini e le reazioni emozionali suscitate da queste negli spettatori (Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e emozioni del pubblico), lo storico dell’arte americano David Freedberg dedica un intero capitolo, il quinto, alla questione della consacrazione.
Secondo Freedberg le immagini non possono esercitare la loro influenza nei confronti dello spettatore senza prima essere passate attraverso un percorso in grado di attivarne determinate funzioni. Questo percorso è detto, appunto, consacrazione.
Per lo studioso «è importante distinguere tra oggetti ritrovati (dalle rocce meteoritiche o ceraunie alle immagini miracolose scoperte negli alberi o nel terreno) e immagini create specificamente per contesti culturali. Nel primo caso, l’oggetto opera miracoli e fornisce prove di essere stato investito del divino prima della consacrazione, sicché la consacrazione si limita semmai a confermare queste proprietà, benché talvolta possa servire da dichiarazione dello status pubblico dell’oggetto. Nel secondo caso, però, sembra sia l’atto stesso della consacrazione a investire l’immagine della proprietà e dei poteri che le sono destinati o successivamente attribuiti».1
La vicenda del crocifisso Gallino o pseudo Michelangelo, descritta dallo storico dell’arte Tomaso Montanari nel suo pamphlet dal titolo A cosa serve Michelangelo, credo si possa leggere anche alla luce del concetto di consacrazione così come lo delinea Freedberg nel suo lavoro.
L’affaire, ormai noto ai più, ruota intorno a un piccolo crocifisso ligneo che nel 2004 venne esposto al museo Horne di Firenze in una mostra dal titolo “Proposta per Michelangelo giovane. Un crocifisso in legno di tiglio“. Nel catalogo dell’esposizione alcuni importanti studiosi avanzavano una proposta di attribuzione che faceva della scultura un’opera di uno dei più importanti artisti del rinascimento italiano: Michelangelo Buonarroti. Il crocifisso apparteneva, al momento della mostra, a un antiquario torinese rispondente al nome di Gianfranco Gallino.
In seguito alla mostra si mise in moto un meccanismo che portò, dopo alcuni anni, lo Stato, nella figura dell’allora ministro Bondi, ad acquisire l’opera per la cifra di 3 milioni e 250 mila euro. Una cifra ragionevole, per una scultura perduta realizzata da Michelangelo, se non fosse che l’attribuzione si sia rivelata tutt’altro che esatta e che la più ragionevole provenienza dell’opera sia da indicarsi in una bottega fiorentina specializzata nella realizzazione in serie di crocifissi di piccole dimensioni.
Come è stato possibile questo colossale e dispendioso missverständnis? Il libro di Montanari cerca di rispondere proprio a questa domanda andando a ricostruire non solo l’evoluzione dell’acquisizione, i passaggi che l’hanno caratterizzate e le reti di relazioni che uniscono i vari soggetti coinvolti, ma facendo emergere l’ideologia e il sostrato culturale che hanno reso possibile questa colossale debacle del senso e del ruolo critico della storia dell’arte in Italia.
In che modo il concetto di consacrazione che si è delineato in apertura può aiutarci a capire meglio le disavventure del crocifisso Gallino? Innanzitutto perché questo ha potuto funzionare proprio grazie a un atto di attivazione, ovvero grazie all’attribuzione a Michelangelo, che ha investito un’immagine qualsiasi, seppur di buona fattura, di un potere che non aspettava altro che di essere sfruttato. Non è un caso, infatti, che attorno a questa immagini si sia mobilitato un enorme e complesso apparato di propaganda attorno al quale si è stretto un patto di alleanza tra il governo Berlusconi e le gerarchie ecclesiastiche.
Tale mobilitazione, che celebrava una liturgia di sottomissione delle più importanti cariche dello Stato alle gerarchie della Chiesa Cattolica, è stata espressione diretta di quel “potere delle immagini” che Freedberg analizza nel suo lavoro.
È bastato associare con leggerezza, e connivenza, un nome così altisonante a un’immagine per trasformarla in oggetto dotato di una potenza che qualcuno potrebbe descrivere come magica, se questo termine non portasse con sé un atteggiamento orientalista capace di escludere il soggetto che lo pronuncia dagli effetti che mette in luce.
Ma è questa consacrazione è sufficiente a giustificare l’apparato propagandistico nato intorno allo pseudo Michelangelo? Ovviamente no e questo effetto, questo potere dell’immagine, non avrebbe potuto prodursi al di fuori di quel contesto che Montanari descrive con estrema efficacia.
Le vicissitudini del crocifisso Gallino permettono all’autore di portare alla luce quel dispositivo che, nel corso degli ultimi 25 anni, si è costituito intorno all’arte e alla cultura nel nostro Paese. L’ideologia dei “giacimenti culturali” e della monetizzazione del patrimonio ha lentamente creato un sistema in cui l’accademia ha progressivamente abdicato alla sua funzione di macchina capace di produrre pensiero critico e di funzionare da contraltare al potere politico.
Gli storici dell’arte, dispersi nella frammentazione disciplinare e ridotti sempre più a prestare il fianco a un mutato panorama educativo costruito sulla nozione di “valorizzazione del bene culturale”, hanno rinunciato al loro ruolo di parresiastes, alla capacità di “parlare il vero” che dovrebbe essere patrimonio comune di chi esercita la pratica del sapere.
Il potere politico e quello economico hanno così avuto gioco facile nell’imporre il loro piano del discorso: il primo facendo dell’arte e della cultura “una escort di lusso della vita pubblica” e il secondo imponendo una logica di “grandezza” (grandi numeri, grandi eventi, grandi opere) che tralascia il patrimonio culturale diffuso e nel contempo svaluta le competenze creando una diffusa precarietà.
Come uscire da questa impasse? Secondo Montanari è possibile farlo solo attraverso una riflessione e una pratica che restituisca centralità ai saperi tecnici e critici relativi alle discipline coinvolte nella tutela del patrimonio storico e artistico del nostro Paese, che sappiano sottrarlo alla rete di dispositivi e poteri che attualmente lo assediano. Molte delle esperienze di riappropriazione del bene comune che abbiamo seguito in questi mesi lavorano proprio su questa dimensione di ricostruzione e restituzione. Una nuova consacrazione è necessaria per dare a nuove immagini il potere di cambiare le cose.