Il concorso docenti 2016 tra vincitori fantasma e abilitati con scadenza

Ancora sul concorso docenti 2016: un tentativo di decifrarne la procedura kafkiana dall’interno, dalla prospettiva di chi ha vissuto direttamente, in questi anni, la mutazione mostruosa del sistema di reclutamento degli insegnanti della scuola pubblica italiana.

Ho partecipato, insieme a molti altri, all’ormai famigerato concorso scuola 2016 in via di conclusione: sono risultato vincitore per la procedura concorsuale relativa all’insegnamento per il sostegno per la scuola secondaria di secondo grado in Toscana; in attesa di verdetto per quella relativa all’insegnamento di storia e filosofia, classe di concorso A19, sempre in Toscana. Laurea (2006) e dottorato di ricerca in filosofia (2010), abilitazione all’insegnamento con TFA (2013), specializzazione per l’insegnamento di sostegno (2015), concorso (2016): un decennio per approdare a una effettiva possibilità di impiego nella scuola, situazione del tutto tipica per la mia generazione, ossia per tutti coloro che si sono affacciati sul mondo dell’insegnamento scolastico in Italia dopo la fine dell’esperienza delle SISS, vecchio meccanismo abilitante, il cui ultimo ciclo fu celebrato nel biennio 2007-2009, per essere sostituito, solo a partire dal 2012, dal nuovo meccanismo abilitante rappresentato dal TFA. Nel frattempo – un frattempo che coincide quasi perfettamente con il tempo della crisi economica globale iniziata nel 2007-2008 – ho lavorato nei settori più disparati (ristorazione, editoria, commercio, industria) e ho vissuto le diverse fasi, indilazionabili, della vita privata. Come tutti.

Nella transizione infinita che caratterizza le vicende della scuola italiana, nell’avvicendarsi dei tentativi di riforma complessiva, degli sforzi di attuazione o di manutenzione relativa del nostro sistema scolastico (Berlinguer, Moratti, Fioroni, Gelmini, Profumo, Carrozza, Giannini: circa un ventennio di storia della scuola italiana, in effetti) si arriva alla cronaca recentissima: terminate o in via di conclusione le procedure concorsuali, dopo infinite polemiche sull’opportunità stessa del concorso e sulle modalità del suo svolgimento, i posti messi a bando per il concorso 2016 (uno dei punti qualificanti della Legge 107/2015, levatrice della cosiddetta ‘Buona scuola’ del governo Renzi), ebbene, non si trovano più. Per la maggior parte delle classi di concorso per cui è stato autorizzato il concorso, i posti messi a bando si sono tradotti in zero immissioni in ruolo per l’anno scolastico 2016/2017.

Mettendo da parte la rabbia e la delusione soggettiva di chi, essendo uscito dal concorso da vincitore, si aspettava legittimamente di poter lavorare nella scuola in una posizione più stabile di quella da cui muoveva – il concorso infatti, riservato agli abilitati, ha pescato per lo più nel bacino dei supplenti che da anni contribuiscono a far marciare la scuola nel suo funzionamento ordinario –, si può cercare di comprendere criticamente quanto sia successo, non solo come esercizio di “elaborazione del lutto” (relativo beninteso: si può vivere benissimo senza lavorare nella scuola, i più lo fanno), ma soprattutto come precondizione necessaria per ogni mossa successiva, individuale o collettiva che sia. Del resto – deformazione personale di chi scrive – cercare di razionalizzare il caos è l’ufficio proprio della filosofia.

Ora, si potrebbe innanzitutto tentare un esercizio di stile: ricapitolare la logica delle novità introdotte dalla Buona scuola e delle intenzioni più o meno dichiarate del governo Renzi a proposito del tema istruzione in Italia, senza ostilità pregiudiziali verso di esso, argomentandone i passaggi. Sembra, dunque, che il Governo, con la 107/2015, volesse raggiungere contemporaneamente tre obiettivi fondamentali:

  1. svuotare le GAE (ossia le ‘Graduatorie ad esaurimento’, costituite dagli abilitati SISS), decisamente ipertrofiche, con la maxi-immissione in ruolo dell’anno scolastico 2015-2016, anche per evitare il protrarsi dall’abuso di contratti a termine che aveva caratterizzato i precedenti anni scolastici, condannato nel 2014 dalla Corte di giustizia europea, e con occhio rivolto al probabile ritorno di consenso da parte dei docenti assunti finalmente a tempo indeterminato;
  2. Abolire nel medio termine le supplenze nella scuola italiana, anomale per il loro numero esorbitante, come conseguenza, innanzitutto, del provvedimento precedente;
  3. Far partire per i reclutamenti futuri un meccanismo regolare di concorsi, partendo proprio da quello del 2016, ciascuno preceduto da relativo ciclo di abilitazione (al momento tramite TFA, ma la 107/2015 – e in effetti già la riforma Gelmini – prevede che esso verrà, in qualche modo da definire, inglobato negli ultimi anni di laurea, tornando di fatto alle vecchie lauree abilitanti), con presumibile ritorno di consenso costruito attorno a un obiettivo che potrebbe compendiarsi nello slogan semplicistico “giovani e merito dentro la scuola“.

Peccato, però, che il Governo Renzi sembra non aver fatto fino in fondo i conti con l’oste della mobilità straordinaria di questa estate (che ha consentito agli immessi in ruolo del 2015 un riposizionamento complessivo non solo geografico) e che, in ogni caso, non ha accantonato i posti per i “giovani meritevoli” vincitori del concorso 2016 (ad oggi paiono queste le ipotesi più plausibili per la sparizione dei posti indicati nel bando concorsuale); che le supplenze seppur in calo (previste poco sotto le 100.000 per l’anno scolastico entrante) non siano ancora scomparse; che in GAE restino, presumibilmente, ancora 45.000 docenti circa. Questo per quanto riguarda le premesse della Buona scuola di Renzi, e per le sue conseguenze ad oggi. C’è corrispondenza, c’è coerenza tra premesse e conseguenze? Ossia: la Buona scuola ha raggiunto i suoi obiettivi dichiarati? O, più pragmaticamente, c’è qualcosa che possiamo fare – dalla nostra posizione di partecipanti al concorso, abilitati, docenti precari – per avvicinare le sue attuali conseguenze alle sue premesse/promesse iniziali?

Mentre passano i giorni e la notizia dei posti-fantasma mediaticamente fatica a ‘sfondare’ (ma, si sa, la macchina mediatica macina tutto incessantemente e tutto comunque dimentica presto), tolte le vie giudiziali (che ognuno decide in solitudine), paiono delinearsi due punti su cui varrebbe la pena di insistere attraverso azioni collettive, informative, culturali, politiche lato sensu:

  1. La richiesta di aumento consistente di posti di ruolo nella scuola italiana per i prossimi anni;
  2. La denuncia pubblica della svalutazione dell’abilitazione per l’accesso all’insegnamento nella scuola italiana prodotta dalla 107/2015.

Il primo punto in effetti riguarderebbe solo i vincitori del concorso, e se giocato contro i non-vincitori, aggravando il frazionamento della classe docente (sicuramente uno dei suoi mali cronici), si risolverebbe solo in un’ennesima guerra tra bande, rendendo ancora minore la forza contrattuale dei vincitori del concorso stessi verso il Governo, verso le altre frazioni del corpo docente, verso la stessa opinione pubblica. Il secondo invece riguarda tutti gli abilitati presenti e futuri tramite TFA, e quindi potrebbe avere una risonanza ben maggiore.

Veniamo al primo punto, la richiesta di aumento massiccio dei posti in ruolo. Se il Governo intende proseguire sulla linea appena ricapitolata (fine delle GAE, fine dell’abuso di supplenze, ritorno al ruolo solo da concorso), a pena di dover sconfessare le sue stesse premesse, pare non gli restino molte alternative rispetto all’opzione di aumentare di molto i posti di ruolo per i prossimi anni: per assorbire i docenti residuati in GAE e i vincitori di questo concorso, e per abbattere al contempo ulteriormente le supplenze. Insomma, in una parola, avvicinare l’organico di diritto a quello di fatto, dato che la presenza di un numero abnorme di supplenze dimostra a sufficienza che la scuola ha bisogno di ancor più personale (a fronte di circa 750.000 persone già impiegate dal comparto).

Ma ci saranno i soldi per fare ulteriori assunzioni di grandi numeri: o, meglio, il Governo deciderà di trovarli? Questa in effetti, resta una grossa incognita, non del tutto padroneggiabile nemmeno dal Governo stesso. In ogni caso esso non ha ceduto sulla riapertura delle GAE, pure richiesta da molti abilitati mediante TFA; non ha ceduto sulla dilazione del concorso, che da più parti era stata reclamata, anche da alcuni che denunciavano già nei mesi scorsi che non ci sarebbe stato posto per nuovi docenti (funesta profezia, ahimè); non ha ceduto sulla questione della chiamata diretta, nonostante le proteste di tanti. A fronte di tanta determinazione, sembra ragionevole sostenere che se i vincitori di concorso 2016 intendono far valere le proprie istanze, dovrebbero chiedere qualcosa che è già nella logica della 107/2015: ossia che le premesse della Buona scuola siano portate, coerentemente, fino in fondo. Il resto rischia di essere solo fiato sprecato. O forse il Governo vuole andare avanti in eterno con le supplenze?

E qui veniamo al secondo punto, per certi versi il più grave e inquietante dei due: l’oggettiva perdita di valore che la 107/2015 determina per l’abilitazione richiesta per l’accesso all’insegnamento nella scuola pubblica italiana. Infatti, per evitare il ricrearsi di graduatorie infinite di docenti precari in attesa di immissione in ruolo stile GAE, e gli abusi contrattuali connessi alle supplenze fuori controllo, la 107/2015 ha introdotto due novità rispetto alla normativa previgente che possono rivelarsi esiziali per gli abilitati mediante TFA: la durata triennale delle graduatorie concorsuali e la durata massima di trentasei mesi complessivi per i contratti a tempo determinato nella scuola (Cfr. L. 107/2015, Art. 1, Commi 109, 113, 131). Una duplice spada di Damocle. L’abilitazione, infatti, dà accesso alle supplenze e/o ai concorsi. Ma le supplenze, ormai, possono durare al massimo trentasei mesi, poi l’abilitazione, almeno per questo uso, diventa inservibile per sempre. Ci sono i concorsi, certo. Ma un concorso (se viene bandito, se lo vinci, se ti lasciano i posti disponibili, se ci sono i soldi per assumerti, se…) immette in una graduatoria che, da qui in poi, dura al massimo tre anni, poi scade per sempre. Quindi pare proprio che l’abilitazione – i cui costi umani ed economici non sono affatto trascurabili –, dopo la Buona scuola, serva solo a poter tentare di vincere un concorso vita natural durante: un po’ poco obiettivamente. Obiezione: sì, ma abilitarsi non dà diritto ad essere assunti dallo Stato, ne è solo la precondizione, diciamo così, cultural-burocratica richiesta per legge, così come lo Stato richiede di essere abilitati per esercitare infinite altre professioni (medico, avvocato, ingegnere, psicologo…). Contro-obiezione: vada, ma fino a prova contraria con l’abilitazione richiesta per la scuola si può solo e soltanto insegnare nella scuola, e non esercitare una qualche libera professione. E allora delle due l’una: o lo Stato fa lavorare l’abilitato nella scuola, imparando a contare per bene i posti disponibili, e, magari, riunificando il momento dell’abilitazione con quello del concorso a ruolo (cosa su cui, in effetti, sembra si stia lavorando in Parlamento); oppure decide una volta per tutte di privatizzare palesemente la scuola pubblica, affidando al “gioco” del libero mercato il valore dell’abilitazione che richiede per l’esercizio della “professione docente”. Dismette la maschera e mette in piazza questa privatizzazione soft dell’istruzione pubblica. Così come stanno le cose, invece, l’abilitazione sembra perdere quasi completamente di senso, perché praticamente (vista la difficoltà oggettiva di vincere un concorso, forse maggiore di quella di cavarsela in qualche modo in un libero mercato), essa, con la Buona scuola, è diventata per i più “un’abilitazione provvisoria”, a scadenza trentasei mesi.

E allora: una simile abilitazione è ancora definibile come “abilitazione”? Non si potrebbe sollevare tale questione di fronte all’opinione pubblica? O almeno di tutti quelli che si stanno per riversare, trepidi e speranzosi, nei prossimi cicli di TFA (che ci saranno, perché le Università hanno fame, specie i dipartimenti di area umanistica, in crisi profonda di consensi e d’identità)? Perché qui c’è l’insidia finale: che nell’attesa di soluzioni strutturali, il Governo si adagi sulla possibilità di fare leva su sempre nuove riserve di abilitati temporanei, utilizzarli per i fatidici trentasei mesi, e abbandonarli poi alla via malcerta dei concorsi a ruolo. Forse vale la pena ricordare questa possibilità agli abilitandi prossimi venturi. Ma noialtri abilitati provvisori, vincitori o meno di concorso, appariremo fatalmente ai loro occhi come, insieme, il miraggio e l’ostacolo sulla via del lavoro promesso, del tutto simili in questo ai fortunati in GAE per come apparvero a nostri stessi occhi in giorni non troppo lontani; e in questo tempo di scarsità lavorativa e di orizzonti asfittici ben difficilmente si lasceranno mettere in guardia contro le insidie dell’abilitazione a tempo al tempo della Buona scuola.

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