Come si riproducono le immagini?

In Cloning terror. La guerra delle immagini dall’11 settembre a oggi (La Casa Usher, 2013) William J.T. Mitchell compie una riflessione sul ruolo svolto dalle immagini nella guerra al terrore. Un testo fondamentale per gli studi visuali che mette a fuoco le paure e le emergenze del nostro presente.

 

Sembra difficile rimuovere dalla mente l’immagine dell’hooded man che girò su tutti i media quando scoppiò lo scandalo di Abu Ghraib. Quella fotografia riuscì in pochissimo tempo a imporsi nel nostro immaginario. È stata poi reinterpretata in diversi contesti divenendo graffito, logo o ancora utilizzata da alcuni artisti come motivo iconografico. Si è irradiata nel sistema nervoso globale proliferando di schermo in schermo e imponendosi nella quotidianità. Ogni tentativo di metterla in quarantena è fallito, il suo carattere virale l’ha resa una metapicture, un’immagine guida in grado di simbolizzare «il nuovo status dell’immagine nell’era della biocibernetica» (p.160).

William J.T. Mitchell in Cloning Terror, pubblicato da La Casa Usher e curato da Francesco Gori, parte proprio da quell’immagine sedimentata nella memoria individuale e collettiva e pronta a riemergere non appena evocata. Il libro affronta il ruolo che hanno ricoperto le immagini in quella che è stata definita guerra al terrore. A partire dall’11 settembre e passando per eventi come la cattura di Saddam e lo scandalo scatenato dalle rivelazioni sulle torture nelle carceri di Abu Ghraib, Mitchell individua dei momenti iconici in cui le immagini hanno avuto un ruolo fondamentale nel costruire la narrazione della minaccia terroristica. Ci sono immagini così che possono fare parte di un vero e proprio musée imaginaire della guerra al terrore, in grado di condensare l’orrore di un evento, la descrizione di una catastrofe. Molte di queste preferiamo dimenticarle perché, ricorda Mitchell, ci mettono di fronte l’indicibile e l’inimmaginabile, tuttavia esse hanno molto da dirci, ci rivelano qualcosa della nostra contemporaneità.

Ad attraversare tutto il libro, divenendo una costante tematica, è sicuramente la già citata immagine dell’uomo incappucciato, fotografato in piedi su una scatola di cartone e con dei fili elettrici collegati ai genitali. L’analisi di questa immagine non può prescindere intanto dalle sue riscritture, dalle sue modifiche e dalla sua risemantizzazioni in contesti diversi. È stata usata da artisti come Richard Serra o Fernando Botero, è comparsa in un murales realizzato da un’artista  iracheno e si è intromessa tra le figure di una pubblicità dell’iPod sotto forma di iRaq. Tuttavia la circolazione virale e le successive riscritture sono solo un aspetto: l’immagine, ricorda Mitchell, porta con sé anche una serie di tracce in cui è possibile riconoscere alcuni motivi legati alla rappresentazione della Passione di Cristo. Nel sottolineare questo aspetto vengono presentati numerosi esempi che vanno dall’Ecce homo, al Cristo Deriso del Beato Angelico. Emergono delle sopravvivenze che si manifestano come sintomi e l’immagine sembra farsi portatrice di una memoria che irrompe nel presente «Le immagini – quale che sia il loro medium – sono aperte alla storia e alla percezione umana in dei modi che sfuggono alle intenzioni con cui sono state prodotte» (p.172).

L’altro tema che attraversa tutto il libro è il rapporto tra terrorismo e clonazione. Il Cloning terror che dà il titolo al volume va dunque letto nella sua doppia accezione: non è soltanto il terrorismo che si diffonde come virus ma è anche il terrore della clonazione in quanto tale, la cosiddetta clonofobia nei confronti di «ciò che è copia, imitazione, vita artificiale e creazione di immagini» (p.12).  Mitchell sottolinea come nell’analisi dei discorsi della guerra al terrore e nelle sue rappresentazioni visive non si possa prescindere dal tema della clonazione. Il clone sintetizza una delle paure che si è maggiormente manifestata nella nostra cultura. La cinematografia ha attinto ampiamente a questo tema così come la letteratura, oggi questa figura diventa centrale all’interno dell’immaginario e del discorso del terrorismo.

Il clone diviene un nemico da combattare è «l’icona generale dell’automa, tagliato su misura pur di mantenere lo stereotipo del terrorista, il nemico assoluto dipinto come un umanoide anonimo e senza volto» (p.187). Collocare l’immagine dell’hooded man nel dibattito attuale significa non limitarsi solo alla diffusione virale di un’immagine e alle sue sopravvivenze ma interrogare anche le paure e le passioni che caratterizzano la contemporaneità. Ci sono immagini in grado di racchiudere le paure del nostro tempo e catturare «la struttura e il sentimento di un’epoca».

Sono tante le domande che Mitchell si pone all’inizio della sua ricerca e che verranno sviluppate e argomentate nel testo, in un percorso che ci mostra come la Visual culture lavora con i suoi oggetti, come si interroga sulle emergenze del nostro immaginario, sulle implicazioni politiche e sullo statuto dell’immagine nell’epoca della sua riproducibilità digitale. La diffusione e la conseguente moltiplicazione di immagini, la riscrittura, i casi di iconoclash[1], sono fenomeni che vanno studiati e interpretati. Mitchell ci ricorda che bisogna costantemente interrogarsi su cosa vogliono le immagini, su cosa sono in grado di dirci e cercare di comprendere quali sono i loro desideri.

 

Note

[1] B. Latour, “Che cos’è Iconoclash?” in Teorie dell’immagine, a cura di A. Pinotti, A. Somaini, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009.

Print Friendly, PDF & Email
Close