Bambino e Colore: due lemmi tratti dal “Lessico del cinema italiano”

Due lemmi tratti dal primo volume del “Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita” (Mimesis, 2014): “Bambino” a cura di Emiliano Morreale e “Colore” a cura di Luca Venzi. 

Bambino
Emiliano Morreale

La tredicenne Marta sale su un terrazzo e osserva la città di Reggio Calabria, tutta intorno a lei. Lì, il mondo le appare, e lei si sente nel mondo. Fino a quel momento, avevamo seguito il percorso di questa ragazzina che sta crescendo e che, giunta dalla Svizzera nella città dei genitori, se ne sente insieme avvolta ed estranea. Due ragazzini sono seduti a cassetta su una motoape, una signora vestita elegantemente stende i panni. Città, campagna, palazzi incompiuti, donne sedute dietro un muretto che dicono preghiere in dialetto, montagne, mare, vento.

Questo momento centrale di Corpo celeste (2011) di Alice Rohrwacher viene casualmente replicato pochi mesi dopo in L’intervallo (2012) di Leonardo Di Costanzo. Qui si tratta di una quindicenne napoletana, Veronica, “sequestrata” in un palazzo abbandonato nel cuore di Napoli. Nemmeno il suo carceriere, il mite Salvatore, sa il perché, e seguiremo il rincorrersi di questi due ragazzini per tutto il film, fino alla scena in cui, anche loro, salgono sul tetto a guardare la città, che improvvisamente appare intorno, rumorosa, aggressiva, sorpresa in mille momenti quotidiani.

Questi movimenti verso l’alto conducono lo spettatore ad abbandonare momentaneamente la vicenda e a far ruotare lo sguardo in circolo. Uno sguardo che, a quel punto, non è più onnisciente ma compreso nelle cose, commosso o corrotto. Due film tra i più sorprendenti del cinema italiano recente rifanno lo stesso movimento in un momento-clou, e affidano una epifania dolorosa, storica e morale insieme, a figure di adolescenti. Spesso, fin dal momento decisivo del cinema del dopoguerra, la figura del bambino è stata qualcosa a cui i registi si sono più o meno istintivamente rivolti per rifondare il rapporto tra racconto e visione e il ruolo del soggetto protagonista e dell’osservatore.

Ma Marta e Veronica non sono propriamente bambine, bensì adolescenti. E questa, come vedremo, è un’altra spia decisiva che riguarda il cinema più vicino a noi. I tredici e quindici anni delle protagoniste dei due film sono un’età tutt’altro che casuale.

Rohrwacher e Di Costanzo mettono in scena la difficoltà ad afferrare la realtà, e rilanciano provandoci attraverso il racconto di realtà iper discorsivizzate: il Sud e gli adolescenti. Sanno di muoversi in una terra scivolosa, e la loro “finestra nel cortile” non presume l’innocenza, ma si sa compresa in un paesaggio di media su/contro cui definirsi. E oltretutto, si tratta di due opere prime, tra le ultime a scegliere di rimanere ancorate alla pellicola (entrambi i film sono girati in super16), un attimo prima che il digitale diventi l’unica forma del cinema da sala.

Fotogramma tratto da L'intervallo (2012) di Saverio Costanzo
Fotogramma tratto da L’intervallo (2012) di Saverio Costanzo

Qualche anno prima, un altro film, in apparenza più interno alle strutture narrative e produttive, aveva utilizzato la salita sul terrazzo come luogo simbolico dell’infanzia. In Anche libero va bene (2006), felicissima regia di Kim Rossi Stuart, il protagonista sale e si sporge dal tetto della sua casa romana: si sporge, pencola, assaporando il rischio e la vertigine. Ma anche lui, da lì, vede. In particolare, rivede casa propria, e sbircia la madre inquieta, in fuga perpetua, che parla al telefono forse con un amante. Come se ogni volta la salita dei bambini-ragazzini avesse bisogno di sollevarsi dalle cose per guardarle meglio, cambiare prospettiva non per liberarsi dalle passioni e dalle miserie del mondo, ma per abbracciarle meglio.


Colore

Luca Venzi

Dal nero figure affilate, quasi dei fiori azzurri. L’immagine si illumina e, tra questi fiori, mostra un uomo, occhi chiusi e braccia sollevate. Tutto è immerso in un blu luminescente. Nell’inquadratura successiva, normalmente illuminata, un altro uomo si spoglia. Un terzo fuoriesce dal blu e gli lascia il suo posto.

Il film è appena cominciato: siamo in un solarium e il luogo della monocromia è una cabina abbronzante. Niente fiori, dunque, ma lampade. Altri uomini compaiono nell’azzurro e altri ancora in spazi normalmente illuminati. La narrazione ha iniziato a dispiegarsi, ma la rappresentazione non cessa di essere come assillata da queste dense plaghe monocolori, che continuano a punteggiarla. Il nostro sguardo vi precipita a ogni passaggio. D’un tratto, il primo degli uomini che avevamo visto nel colore si volta. Chi gli è di fronte non esita: gli spara. Anche gli altri dall’esterno delle cabine sparano a quelli che son dentro e a un altro intento al manicure. Compare il titolo del film, poi le inquadrature degli assassinati, immersi o circondati dal colore.

È l’apertura di Gomorra (2008) di Matteo Garrone. La pregnanza e l’intensità drammatica della sequenza, oltre alla sua stessa capacità di restare impressa nella memoria, non si devono soltanto alla violenza che vi esplode in modo improvviso, ma soprattutto al fatto che quella stessa violenza vi è come ispessita dalla forza del colore. La violenza dell’elemento cromatico e quella dei fatti narrati si fondono in un unico composto.

L’inizio di Gomorra è un’aggressione visuale. Il colore ci colpisce, ci disorienta – la sua deflagrazione si situa non, come più spesso succede, nel corpo del film, ma alla sua apertura –, ci spinge a misurarci, con pochissime informazioni, con la brutalità che in esso si compone.

E tuttavia, se il colore travolge l’equilibrio informativo e figurativo della rappresentazione, esso per qualche via pare, per contro, fare schermo al nostro sguardo, almeno nel senso che si situa tra noi e quanto succede: il blu ricopre ogni cosa, la trasforma in ragione della sua presenza, ne ambigua l’identità. Lo stesso sangue non è che linee e macchie scure, come ogni cosa immerse in un derealizzante impasto visuale.

Fotogramma tratto da Gomorra () di Matteo Garrone
Fotogramma tratto da Gomorra (2008) di Matteo Garrone

Una rapida sequela di omicidi è allora anche un’astratta figurazione della violenza in sé e l’una e l’altra si danno attraverso una presenza esposta del colore. La forza deformante della tinta è già pensata come un’istanza pienamente formativa, che suggella l’inizio di un film in cui violenza e brutalità innervano ogni fibra del racconto.

Si può cominciare da qui per avviare un discorso sull’uso del colore nel nostro cinema.


Martedì 27 Gennaio 2015, presso Cineteca Nazionale – Cinema Trevi,
ore 18.30 Incontro con Gianni Amelio, Roberto De Gaetano, Emiliano Morreale
Nel corso dell’incontro verrà presentato il primo volume a cura di Roberto De Gaetano, Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita (Mimesis, 2014).

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