Io e il cinema, una malattia

Riflessioni  e memorie di un cinefago.

La mia esperienza nel cinema è da sempre trasversale, sono un documentarista ma soprattutto vedo film, vado ai festival, ne scrivo, organizzo proiezioni. La mia ultima produttrice mi definisce provocatoriamente un cinefago. Ho iniziato ad ammalarmi ai tempi dell’università quando ho scoperto i cinema del centro di Milano e ho iniziato a vedere film su film, spesso di pomeriggio in visioni solitarie e piacevoli. Poco tempo dopo ho iniziato a scrivere senza impegno su un blog e a organizzare qualche rassegna anarchica in un cineforum. Nel 2009, con la città che inizia a cambiare, ho realizzato il primo film proprio sui cinema, Era la città dei cinema. Totalmente autofinanziato, è un semplice documentario a interviste sulle sale cinematografiche milanesi e sul perché sono andate a poco a poco a scomparire. Girato con due lire ha avuto un buon riscontro (grazie alla presenza di Maurizio Nichetti, Lella Costa, Paolo Mereghetti, Morando Morandini) e a distanza di quasi dieci anni da quando l’ho pensato e diretto mi viene ancora qualche volta richiesto. È un lavoro che s’interroga senza troppe nostalgie sull’andare al cinema, come è cambiato negli anni e su come una città dovrebbe trattare un tema che mi è caro e che dovrebbe essere caro a chiunque lavori nel nostro settore.

Ho deciso di iniziare questo contributo dicendo questo perché spesso vedo un distacco clamoroso tra la produzione e le fasi successive che portano i film in sala. Mi accorgo spesso che autori, produttori, esperti del settore non vanno al cinema. Anche durante i festival non riesco a sottrarmi dal richiamo della sala cinematografica, mentre ormai sembra che dei festival si debba seguire solo il programma industry, quello riservato ai professionisti del settore per procurarsi nuove occasioni di lavoro. Puntualmente perdo gli appuntamenti con produttori perché c’è un film che altrimenti non potrei vedere. Non ce la faccio, è più forte di me. Questo “scollamento” tra il fare e il vedere è un punto nevralgico del discorso nel nostro settore, credo che ci sia bisogno di interrogarsi e anche molto. E forse anche la legge cinema avrebbe dovuto ancora più interrogarsi su questo.

Tornando alla mia storia personale, sempre a Milano ho frequentato la Scuola Civica di cinema, e dopo altri percorsi formativi ho realizzato altri documentari con budget limitati che hanno girato i principali festival italiani e non: HABITAT [PIAVOLI] un lavoro che segue Franco Piavoli a casa sua e s’interroga sulla vita e sul cinema, è un film presentato al Torino Film Festival 2013 che ha avuto un ottimo riscontro di critica, ma che purtroppo non è stato molto visto dal pubblico.

Capulcu – voices from Gezi Park è il mio lavoro successivo, un film da battaglia, collettivo, girato a Istanbul durante le proteste contro Erdogan. Siamo andati lì durante i giorni di Gezi Park a cercare di capire cosa succedeva e ne è uscito un lavoro piccolo piccolo che però ha girato e continua a girare in Italia e in Europa, tra gli altri festival è stato proiettato a Salonicco, Sofia, Vienna, Marocco e anche in terre più lontane.

Il mio ultimo film, Un altro me, è forse l’esperienza più significativa che ho avuto ed è il mio primo film finanziato dal Ministero. Ha appena avuto la sua anteprima nel concorso internazionale del Festival dei Popoli dove ha vinto il premio del pubblico e girerà in vari festival nei prossimi mesi. È un documentario girato per un anno all’interno del carcere di Bollate dove ho seguito il primo esperimento in Italia che un’equipe di criminologi, psicologi e terapeuti sta portando avanti con degli autori di reati sessuali. Ho passato un anno accanto a loro per capire chi sono, cosa pensano e quali sono le dinamiche profonde di chi ha commesso questo tipo di reati. È un documentario di osservazione che spero incontri un pubblico perché quando si fanno i film credo sia fondamentale instaurare un dialogo tra le persone sullo schermo e gli spettatori in sala.

Grazie alla produzione torinese del film, Graffiti Doc, ho avuto il sostegno allo sviluppo del Piemonte Doc Film Fund e il contributo essenziale del Mibact. Per la prima volta mi sono approcciato davanti alla commissione ministeriale e ho ottenuto un piccolo finanziamento che ha permesso la realizzazione del film. Devo dire con franchezza che ho visto la commissione ascoltare il progetto con interesse, fare domande e interrogarsi sul film che volevo fare, perciò non mi rivedo per nulla in quei racconti, spesso inquietanti, sulla burocrazia ministeriale. La commissione verrà cambiata nel 2017, perciò magari sarò costretto, spero di no, a rivedere questa considerazione…

La mia base è sempre stata Milano con gioie e dolori, e con il paradosso che non sono mai riuscito a farmi produrre un film in questa città. Non ho mai ricevuto finanziamenti dalla Lombardia Film Commission che negli ultimi dieci anni ha fatto partire un solo bando grazie a una Regione che non ha mai considerato il cinema una priorità. Anche i miei film successivi, che hanno girato importanti festival nazionali e internazionali, sono stati spesso ignorati dal circolo dei festival cittadini (tranne Capulcu che è stato proiettato al festival Sguardi Altrove. In generale devo dire che sono molto contento che i miei film vengano scelti da festival in città o nazioni diverse, trovo infatti abbastanza comico che i film di alcuni autori siano visti solamente nel festival casalinghi. Al di là del caso singolo credo che la situazione del cinema a Milano sia peggiorata rispetto a quando ho girato il mio primo film. Ho partecipato a un comitato cittadino che provava a salvare un cinema storico e ho avuto un’esperienza con un’associazione che provava a creare una sala per il cinema indipendente, sono state però due esperienze fallimentari che fanno molto pensare. Ci sono casi contrari e positivi, il Cinema Beltrade ad esempio, ma credo in buona sostanza che la città più ricca d’Italia sia disinteressata al tema: per farvi un esempio ci troviamo con un centro città dove praticamente non ci sono più sale e che ha decretato in gennaio la fine dell’Apollo, un cinema prettamente non commerciale che andava benissimo, per fare posto a uno sfavillante Apple store.

Certamente se guardiamo in provincia mi accorgo che noi milanesi siamo dei privilegiati, appena usciamo dalla città c’è il deserto dei tartari e le uniche possibilità per vedersi un film sono i multiplex ai bordi delle tangenziali. Oppure siamo portati a ricorrere alla tv o al web, il quale da qualche anno ha soppiantato per molti la visione cinematografica. Me ne accorgo soprattutto con i più giovani, ho avuto una breve esperienza in una scuola e il linguaggio visivo che hanno i ragazzi è evidentemente influenzato da quello che guardano. Ma non è neanche colpa loro, è quello che offre il mercato e ci vorrebbe un lavoro costante per insegnare, o almeno mostrare, un linguaggio diverso. Non tutto è negativo perché ad esempio la serialità tv in molti casi è un dato positivo.

Se passiamo alle scuole professionali del settore, ravviso un altro problema a mio parere enorme: dovrebbero far vedere molti più film e uscire dalla gabbia dei tecnicismi. Vedo spesso cortometraggi di giovani registi che abbondano di carrelli, dolly e altra roba inutile senza un’idea di cinema. Una cosa allucinante che ho scoperto poco tempo fa è che a Milano la Cineteca (e il suo Museo) e la Scuola di Cinema non hanno una vera convenzione per gli studenti. E sono nello stesso palazzo! Gli studenti di cinema, ma forse gli studenti tutti, dovrebbero andare gratis in Cineteca, guardarsi maree di film al giorno e così crearsi un immaginario.

Con questa situazione è spesso complicato arrivare a un vero pubblico per chi gira documentari, film indipendenti o per i film “difficili”, come vengono definiti anche nella riforma Franceschini. Leggendo qualche stralcio della legge mi sono interrogato su cosa vuol dire film difficile. L’intenzione credo sia quella di salvaguardare alcuni film che hanno un immaginario, uno sguardo diverso dalla tv e dal comun vedere. Ma perché rinchiuderli in un aggettivo negativo come difficile? È una scelta che proprio non riesco a comprendere. Sto pensando a quale aggettivo poteva essere usato: cinema libero non andava bene? O forse temerario è l’aggettivo giusto? E fare del cinema temerario è anche bello da dire… Ma ce n’erano altre mille di possibilità, ad esempio diverso/differente.

Tornando alla legge la cosa che salta più all’occhio è questo 82-85% di finanziamenti automatici all’industria contro il 15-18% ai contributi selettivi (che mi pare comprendano opere prime e seconde, giovani autori, start-up, piccole sale e ai contributi a favore dei festival e delle rassegne di qualità, Biennale di Venezia, Istituto Luce, Centro Sperimentale di Cinematografia, Museo del Cinema a Torino e Cineteca di Bologna). Anche se i 400 milioni annunciati dal Ministro (derivanti dal versamento delle imposte ai fini IRES e IVA) sono una cifra sostanzialmente superiore a quella precedente, mi pare abbastanza evidente lo squilibrio tra industria e indipendenti. Lo spazio al cinema d’autore, al documentario, a quello sperimentale e indipendente è sempre troppo poco, anche perché è questo il cinema che ne ha più bisogno. Ma era/è il governo Renzi, soldi a chi li ha e viva il mercato, mantenendo le posizioni prestabilite… Comunque c’è da attendere la formulazione dei decreti attuativi. È già complicata la legge, figuriamoci cosa può uscire dai decreti. Magari si riescono a chiarire e declinare meglio alcune cose, o almeno si spera.

In generale al cinema italiano manca il coraggio in tutte le fasi della lavorazione, dalla scelta di cosa produrre alla scelta di cosa proiettare in sala. Tutta la filiera è contaminata dall’omologazione e dalla mancanza di coraggio. Che senso ha un cinema in cui si replicano in continuazione i successi e non si rischia mai davvero? I cinepanettoni vengono replicati da decenni in modo sempre più indegno e occupano militarmente uno spazio clamoroso nell’esercizio a danno dei film più piccoli, la stessa cosa succede con le “commedie collettive”, che ora sembrano avere un nuovo boom, verranno anch’esse replicate fino alla consunzione?

Reputo che la nuova legge non parli molto dello sviluppo dei film, è una fase fondamentale spesso ignorata. Soprattutto nel documentario lo sviluppo ce lo paghiamo noi registi, un produttore (e posso anche capirlo in questo marasma del cinema italiano) non investe grossi budget senza delle certezze. Il ruolo delle Film Commission diventa perciò fondamentale in queste situazioni. Devono allontanarsi dalla promozione turistica, parlavo giusto pochi giorni fa con una dirigente di una Film Commission che sta lottando con la Regione per abbassare una % di promozione del territorio dal bando che sta per uscire. Il cinema non è il turismo, suvvia. E poi le Film Commission dovrebbero funzionare tutte allo stesso modo, mi pare assurdo che da anni ne funzionano bene cinque o sei e le altre siano il nulla. È folle che ogni film italiano deve avere il suo bel borgo pugliese o lo spettacolare paesaggio trentino. Anche basta, no? Le Film Commission dovrebbero in tutte le regioni dare un reale sostegno locale alle produzioni, soprattutto a quelle indipendenti. Perciò credo il Mibact per primo e poi le Film Commission dovrebbero sostenere la produzione dei film difficili/diversi/differenti che non hanno produttori importanti o attori famosi che li trainano.

Ma nel mondo ideale non dovrebbero fermarsi lì perché ovviamente l’altro problema enorme è la distribuzione dei film, il sistema attuale non permette a tutti i film di incontrare un pubblico. Lo vediamo da un po’ di tempo, il paradosso attuale è che cresce a dismisura il numero di film realizzati (col digitale è molto più “semplice”) ma allo stesso tempo scendono gli schermi per mostrarli al pubblico. Per di più i grandi occupano i cinema col risultato che marea di film nascono già senza un pubblico potenziale. Che senso ha? Se il Mibact finanzia un film deve prevedere anche un sostegno alla distribuzione, ma un sostegno vero al film, non al distributore che magari tiene il film nel cassetto o lo distribuisce senza spendere nulla in promozione. Non so quali possono essere i meccanismi ma si devono garantire a un film che si ritiene di interesse culturale/nazionale di avere un pubblico, e saranno poi gli spettatori che poi ne decreteranno o meno il successo e il conseguente ritorno commerciale. Che senso ha che un film come Spira Mirabilis (in concorso a Venezia e finanziato da Rai Cinema) a Milano, la città dei due registi, abbia come unica proiezione le 15.30 in un unico cinema? Chi è che va a vedere un film come questo di pomeriggio in mezzo alla settimana?

Il film deve entrare in relazione con il pubblico altrimenti non è niente.

Per queste ragioni il ruolo dei festival secondo me è molto importante perché per molti registi è diventato l’unico modo per far vedere il proprio film. A volte mi domando però a quali logiche rispondono i festival e se la concorrenza tra loro serve veramente ai film. Che senso ha che un documentario che fa ad esempio il Biografilm poi non può fare Torino sei mesi dopo o il festival dei Popoli? Che senso ha che un film faccia un festival italiano e poi in Italia non lo fa vedere più nessuno? I festival sono fondamentali, importantissimi, fanno crescere i film, gli danno uno spazio di pubblicità clamoroso che la sala non dà più, ma questa concorrenza proprio non la capisco. Anche perché i festival servono per conoscersi tra autori o aumentare la propria rete di conoscenze e conoscenza. Soprattutto in quelli più piccoli, a misura d’uomo, si riesce davvero a fare rete. Il mio ultimo film è nato così, conoscendo a un festival in modo casuale quella che poi è diventata la produttrice del film, ma non era un evento industry incasellato in un pitch o roba del genere, è stata una chiaccherata che poi è diventata una collaborazione vera e propria. Forse il cinema italiano, e il Ministero che lo finanzia, deve aiutare di più questo scambio. C’è molto bisogno di creare queste reti e connessioni tra autori, produttori, critici, distributori, esercenti, tutto questo può fare solo del bene al cinema e lo aiuterebbe a uscire dall’omologazione.

Le politiche culturali ed economiche del Mibact dovrebbero essere coordinate e ragionate anche sul prezzo del biglietto.

Ho seguito con interesse l’iniziativa Cinema2Day, e non credo sia quella che serve davvero al cinema. È un progetto-spot, senza una vera e propria organizzazione. Perciò è rifiutata da piccoli esercenti e capisco le loro ragioni, nonostante ciò io la ho utilizzata e vedere una sala piena anche alle cinque del pomeriggio per me è sempre emozionante. Servirebbe ragionare sul prezzo del biglietto in alcuni cinema che fanno film indipendenti, documentari, o in monosala che non hanno un pubblico commerciale. Quello che serve non è questa promozione da supermercato. Cinema2day va a vantaggio dei grandi esercenti esattamente come la grande distribuzione va a vantaggio delle grandi catene. Tornando a quel che dicevo prima il cinema deve entrare nelle scuole (o meglio: le scuole nei cinema) e gli studenti non devono avere accesso al cinema solo con gli sconti per i multiplex. Uno Stato dovrebbe abituare al cinema tutto, anche a quello più difficile/audace/coraggioso/diverso/libero fin dalle scuole. E qui apriamo un’altra parentesi fondamentale: nelle scuole la cosa negativissima è che il cinema viene usato sempre e solo come “contenuto” ed è una cosa abbastanza deprimente, Si va a vedere il film sull’olocausto, quello sul razzismo, quello sull’ambiente, senza pensare alla materia “cinema” e su questo mi pare che la legge non dica nulla. Non interessa. In Francia un film viene portato come testo d’esame alla maturità. Non stupiamoci delle differenze.

[Claudio Casazza è regista, montatore, operatore, critico cinematografico. Si è laureato in Scienze Politiche con una tesi su Robert Altman].

 

 

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