Grazie alle ultime proteste, molti osservatori hanno scoperto che in Iran esiste una classe di lavoratrici e lavoratori che si mobilita, che non è unicamente preoccupata dall’influenza della religione sulla politica e che, per stile e reddito, è diversa dalle ragazze con il trucco pesante e gli occhiali da sole che sono innalzate a simbolo di tutti i/le ribelli del paese.
Il ciclo di mobilitazioni è ora in fase discendente, sicuramente – ma non solo – a causa della repressione (almeno 25 persone morte, di cui almeno tre “suicidatesi” in carcere, e 1700 arrestate), tuttavia è importante ritornarvi per considerare alcuni elementi analitici più generali, a partire da tre spunti di riflessione.
Innanzitutto, le recenti mobilitazioni presentano caratteristiche diverse da quelle degli ultimi decenni. Non perché la classe media è assente dalla loro direzione, e nemmeno perché le proteste sono caratterizzate da richieste di giustizia sociale invece che da rivendicazioni di stampo liberale: i lavoratori e le lavoratici, infatti, si sono mobilitati ripetutamente negli ultimi due decenni, creando, in alcuni casi, organizzazioni sindacali più o meno formali capaci di sopravvivere alla repressione. Quindi, in cosa queste proteste sono diverse?
In secondo luogo, ragioneremo su come la composizione di classe sia stata fondamentale nel decretare il destino delle proteste. Non solo la diffusione delle mobilitazioni soffre di limiti strutturali a causa delle più generali politiche del lavoro, come vedremo, ma anche l’ostilità della classe media liberale e progressista, generalmente filo-governativa, ha giocato un ruolo importante. Qual è l’origine di tale antagonismo?
Infine, rifletteremo su come il governo stia affrontando le proteste, oltre che la repressione. Rappresentanti del fronte riformista filo-governativo hanno recentemente preso posizione in favore del “diritto di protestare” – non necessariamente sostenendo i manifestanti o le loro ragioni. Sebbene la difesa del diritto di protestare sia positiva, ci chiederemo se e come essa possa esere utilizzata per rafforzare il controllo e il governo del dissenso.
Il contesto: erosione sociale e trasformazione dell’attivismo
Le proteste iniziate il 28 dicembre in Iran non rappresentano una novità, se si considera la molteplicità delle mobilitazioni negli ultimi decenni nel settore dei trasporti, tra gli insegnanti, nel settore minerario, e se si considera l’esistenza di sindacati semi-legali nati dalle lotte e dalle occupazioni delle fabbriche, come quello dello stabilimento di zucchero Haft Tapeh.
Le proteste non sono una sorpresa nemmeno se si considerano le politiche del lavoro dagli anni Ottanta a oggi. In una intervista condotta con l’economista Mohammad Maljoo, si spiega come il mercato del lavoro sia stato fondamentale per raggiungere l’obiettivo di ridimensionare il settore pubblico. Ciò è avvenuto adottando misure di austerity che hanno costretto settori del pubblico impiego a sopravvivere senza fondi governativi, ricorrendo a privatizzazioni, blocchi delle assunzioni e riduzione del personale.
Parallelamente, le protezioni sindacali sono state ridotte attraverso leggi e sentenze del Tribunale del lavoro che hanno legalizzato l’esclusione di un numero sempre maggiore di lavoratori dalla copertura sindacale. Ciò non ha diminuito il numero o la frequenza delle proteste, ma le ha frammentate. A questo, vanno aggiunte le difficili condizioni economiche (inflazione alta, mancati benefici dopo la firma dell’Accordo sul nucleare nel luglio del 2015) in cui versa il paese.
L’erosione del sistema di riproduzione socio-economica che, dalla rivoluzione, ha garantito una rete di sicurezza sociale alla popolazione, ha causato anche una frammentazione politica, facendo emergere “nuove soggettività”. Le ricerche che conduco suggeriscono che tale frammentazione si riflette anche nel modo in cui le persone si organizzano e si mobilitano. Attivisti più anziani si lamentano del fatto che i più giovani, per lo più ventenni, preferiscano un “attivismo individuale” al far parte di un gruppo. L’età è quindi un fattore fondamentale nello spiegare perché le proteste sono caratterizzate dallo spontaneismo. Il quotidiano “Sharq” ha pubblicato una analisi rivelando la giovane età degli arrestati, in media inferiore ai 25 anni. Le proteste si sono quindi diffuse attirando soggettività diverse, al di là delle organizzazioni politiche preesistenti. Queste proteste sono per lo più spontanee e acefale, ed è questo l’elemento che le rende diverse, non essendoci un sindacato o un gruppo di sostegno/coordinamento che possa agire e “dirigerle”.
Classismo e governo del dissenso
La parte più impoverita della classe media ha partecipato alle proteste, ma in molti nel fronte riformista, rappresentanti di una classe media liberal-progressista filo-governativa, si sono espressi contro di esse. Ciò è motivato dalla paura dell’instabilità che ha, da sempre, caratterizzato il riformismo iraniano – oltre che dalla natura anti-governativa delle proteste.
Il noto sociologo riformista Hamidreza Jalaipour, per esempio, ha sottolineato che la partecipazione alle urne è il solo mezzo legittimo per creare un cambiamento politico e per evitare una “Siria in Iran”. Durante una conversazione privata, una conoscente ha commentato che “questa gente” non ha coscienza politica, ricorre alla violenza, è pericolosa perché provoca una reazione autoritaria di cui farà le spese tutta la società. Dopo averle chiesto chi fosse “questa gente”, la nostra conoscente ha risposto “i poveri delle città”.
Questa dichiarazione contiene elementi ideologici noti. Da metà degli anni 2000 infatti, i riformisti hanno sostenuto che la popolazione urbana meno abbiente fosse la base politica del governo di Ahmadinejad. Durante una intervista nel 2008, Mohammad Abtahi, noto riformista, ci ha spiegato come il populismo (populizm, che ha un’accezione negativa simile a quella contemporanea europea) proposto da Ahmadinejad fosse privo di pensiero, interamente “ideologico” (altra espressione negativa) e come attraesse gli ignoranti e i poveri. Questi possono essere “comprati” attraverso misure economiche a carattere, appunto, populista. La convinzione che “i poveri” siano la base del consenso politico al populismo conservatore ha fatto sì che classe media liberal-progressista fosse ostile alle mobilitazioni dei meno abbienti.
Alle reazioni negative sopra descritte, tuttavia, è seguito un parziale cambiamento di rotta: in più voci tra i riformisti hanno sostenuto che i manifestanti hanno il diritto di protestare. È interessante notare due elementi. Il primo è che tale diritto è discusso “in generale”, sganciandolo dalle mobilitazioni stesse. Il secondo è che le ragioni dei manifestanti sono ignorate. Viene anche puntualizzato come tale diritto decada in caso di violenza contro la pubblica proprietà, ovvero arredo urbano o banche.
Il 2 gennaio il politologo Sadegh Zibaqalam ha diffuso una lettera aperta criticando le denuncie dell’establishment circa la presenza di “ingerenze straniere” nelle proteste, ribadendo il diritto di protestare degli iraniani. Il 7 gennaio sedici intellettuali riformisti filo-governativi hanno fatto eco a Zibaqalam e, in una mossa senza precedenti, il Consiglio municipale di Teheran ha approvato un piano che permette l’assembramento di gruppi di persone con lo scopo di manifestare.
Questi elementi suggeriscono un tentativo di regolarizzare e regolamentare il diritto di manifestazione. Con quali conseguenze? In un certo senso, sostenere il diritto della popolazione a protestare è più semplice e conveniente che sostenere la necessità di una rottura con politiche che favoriscono le disuguaglianze sociali. L’asserzione del diritto alla protesta non rappresenta un elemento “di rottura” rispetto alla tradizione rivoluzionaria iraniana, ma anzi ne fa parte, come sostengo in questo contributo che sarà pubblicato la prossima estate. Inoltre, non basta una dichiarazione di principio a rendere concreto il diritto alla protesta. A farlo saranno le misure legali ed attuative che verranno implementate dalle autorità competenti (le restrizioni, le condizioni necessarie perché una protesta sia considerata legale quindi permissibile). In questo senso, le dichiarazioni dei due deputati riformisti Mahmoud Sadeghi, ovvero che molti degli arrestati per le proteste non stesse in realtà partecipandovi, e Farid Mousavi, ovvero che molti arresti fossero preventivi, suggeriscono che il governo del dissenso si potrebbe rafforzare e raffinare proprio grazie, paradossalmente, alla regolamentazione e al riconoscimento del diritto di protestare, riconoscimento che porterebbe con sé un arsenale di misure preventive che potrebbe “svuotare” di significato il diritto stesso.
In conclusione, riconoscere il diritto di protesta potrebbe essere un buon compromesso per il governo. L’Iran necessita di stabilità politica e le concessioni “discorsive”, più di quelle reali, a breve termine funzionano, sebbene abbiano l’effetto di preparare la prossima esplosione di malcontento. Esiste tuttavia una altra opzione: quella di vedere le mobilitazioni come una opportunità per rompere con decenni di “elitarismo” e avversione verso i lavoratori. Questo beneficerebbe i riformisti, accreditandoli come una forza capace di sostenere un vero cambiamento sociale invece che riforme di facciata, o di regime.