Restituzioni di umanità negli archivi del cambiamento climatico
Pubblichiamo oggi la seconda puntata di Intemperie*
Il 29 settembre Internazionale dedica la copertina al cambiamento climatico ‒ col titolo: “Se non fermiamo subito il cambiamento climatico, la Terra potrebbe diventare quasi inabitabile in meno di cent’anni” ‒ riportando il discusso articolo di Wallace-Wells sul New York Magazine. Partendo dal caso della Svalbard global seed vault, la banca di sementi progettata per garantire la nostra sopravvivenza che ha recentemente dovuto rafforzare il deposito a causa del riscaldamento globale, Wallace-Wells ha messo in luce le criticità della scena climatica globale, non senza criticare alcuni aspetti complessi e contraddittori del dibattito pubblico e scientifico, e la reticenza a dichiarare la gravità delle azioni umane.
Il ghiaccio è per lui protagonista della storia del clima: “in alcuni luoghi la roccia registra la storia del pianeta. Ere geologiche di milioni di anni sono contenute in strati di pochi centimetri. Il ghiaccio funziona nello stesso modo, come un libro mastro del clima, ma è anche storia congelata che potrebbe tornare in vita”.
Secondo l’autore, quindi, il ghiaccio sarebbe un archivio della storia del pianeta e conterrebbe, oltre alle tracce delle forme di vita che sono rimaste intrappolate, anche quelle biologiche e potenzialmente pericolose, come gli agenti patogeni che, a seguito dello scioglimento, potrebbero fuoriuscire e configurare un ennesimo e alternativo scenario di “epidemie climatiche”. È curioso (o forse coerente) che la stessa immagine, quella del ghiacciaio come archivio anche culturale del passato, sia al centro del documentario Cinquanta passi, diretto da Niccolò Aiazzi e realizzato su alcuni dei più importanti (e sofferenti) ghiacciai del pianeta: Cervino e Monte Rosa.
E i “cinquanta passi”, a cui il titolo fa riferimento, sono proprio la distanza che separa il livello del ghiaccio del 2018 da quello del 2019; un anno di vita del ghiacciaio del Gorner a Zermatt. Le prime immagini riportano parole potenti e attuali, che rimandano a temi complessi e profondamente intrecciati fra loro: “la montagna è un luogo sacro e i ghiacciai ne sono da sempre l’archivio. Un archivio che con il cambiamento climatico sta diventando sempre più un libro aperto. Un libro capace di restituire la memoria delle storie di chi è passato e di chi, purtroppo, ci è rimasto. In molte culture si crede che l’anima di un corpo non troverà mai pace finché lo stesso non sarà ritrovato e restituito ai suoi cari”.
Come diventa evidente solo dopo averlo visto, il documentario aggiunge qualcosa in più alla comprensione di questa metafora materiale e simbolica: ci mostra che il ghiaccio non contiene solo la nostra storia, intesa come storia della nostra civiltà, ma anche storie, plurali e individuali, che ugualmente potrebbero riemergere dai ghiacci, anzi, lo stanno già facendo aiutate dal riscaldamento globale e dall’arretramento dei fronti glaciali. Tracce, resti di umanità sono restituiti dalla montagna; memorie che ci vengono riconsegnate, metro dopo metro con la messa a nudo del pendio roccioso. Michele Cucchi, protagonista e voce narrante, insieme con il glaciologo Michele Freppaz e con l’antropologa Elisabetta Dall’Ò, tenta di recuperare, ricostruire e continuare a scrivere le storie di coloro che, purtroppo, hanno perso la vita sui ghiacciai e sulle montagne simbolo della storia dell’alpinismo.
Il ritiro dei ghiacci, quindi, diviene elemento primario da cui partire per questa indagine non solo glaciologica, ma anche antropologica e, per molti aspetti, interiore all’essere umano.
Perché è importante il contributo dell’antropologia? Principalmente perché il cambiamento climatico è anche un fatto squisitamente culturale e, in quanto tale, c’è bisogno di uno studio profondo e meno superficiale del ruolo umano nelle questioni ambientali sia per comprendere come e perché si è giunti fino a questo punto, sia per sviluppare strumenti utili all’elaborazione di strategie innovative anche a livello socio-culturale. C’è bisogno, insomma, di una rivoluzione culturale più che politica, che sia in grado di cambiare radicalmente il pensiero e l’atteggiamento delle persone, in particolare dei giovani ai quali si sta sottraendo il futuro (Aime, Favole e Remotti 2020).
L’antropologia dei cambiamenti climatici, in particolare, analizza gli adattamenti al clima, ma anche come le persone percepiscono, interagiscono, sperimentano e rispondono al mondo in cui vivono e che loro stesse contribuiscono costantemente a creare. Cinquanta passi non è solo il drammatico reportage di ciò che sta accadendo alla montagna ma evoca temi ancor più complessi che svelano le nostre interconnessioni con la Storia, il passato, la memoria, il rapporto culturale che intratteniamo con l’ambiente e che raramente trovano spazio nell’immaginario diffuso di una montagna intesa come luogo “naturale” (Dall’Ò 2019).
Altro tema straordinariamente interessante in Cinquanta Passi ‒ soprattutto per gli antropologi, che ritrovano qui un campo di studi nuovo e dall’enorme potenziale ‒ è quello del progetto del protagonista Michele Cucchi, illustrato nel documentario. Alpinista e guida alpina, si è sempre e totalmente dedicato alla montagna, ma nel tempo ha cambiato profondamente atteggiamento nei suoi confronti: se prima la frequentava per raggiungere traguardi e vittorie personali “prendendo qualcosa da lei”, ora ha capito che è giunto il momento di “restituirle” qualcosa. Discorso, questo, che evoca la logica della reciprocità (Mauss 2002), familiare agli antropologi e caratteristica di gran parte delle relazioni umane, e che in questo caso coinvolge anche la montagna in uno scambio reciproco e diffuso nel tempo, anche se di tempo, alla natura, non ne rimane ormai molto. Pensare di “restituire” qualcosa alla montagna è utopistico?
Cucchi dimostra che ognuno, nel proprio piccolo, può fare qualcosa per “cambiare il mondo”, o forse “solo” per renderlo un posto migliore: prima i progetti in Pakistan e Nepal, infine quello sul Cervino, sono chiare dimostrazioni di un sentimento di riconoscimento da parte di un uomo che, con umiltà, sa di essere in debito con le montagne. Secondo Bougleux (2017), “l’agency umana sembra trascendere completamente i limiti del soggetto” e c’è da chiedersi se quest’agency sia la stessa che genera conservazione e distruzione oppure se si tratti di una forza diversa. Come suggerisce la logica servo-padrone descritta da Haraway, che potrebbe essere facilmente estesa al rapporto con il non umano, l’umanità ha sempre sviluppato un rapporto gerarchico con l’“altro”, cercando di rafforzare il proprio potere.
Il ruolo dell’alpinista che “sfida la montagna” è complesso e implica una molteplicità di modi del vivere e del considerare la nostra relazione con la “natura”. Una lettura attenta della storia, anche da una prospettiva antropologica, dimostra che la montagna e la natura in generale sono luoghi e spazi culturali antropizzati e addomesticati ormai da lunghissimo tempo, ma in cui l’impatto dell’azione umana ‒ si pensi al clima e all’Antropocene ‒ è stato particolarmente forte. Bisognerebbe quindi ripensare il rapporto dell’umanità con la natura, forse nella consapevolezza di essere un tutt’uno con l’ambiente, di abitarlo e non possederlo.
Il documentario mostra da vicino il ghiacciaio come raramente capita di vederlo ‒ vive, soffre, si muove, dialoga ‒ mentre l’essere umano sembra fare fatica a misurare il valore di ciò che si sta perdendo. Il ghiacciaio dotato di agency o di una “volontà” distruttiva, tuttavia, fa parte degli immaginari mitico-religiosi alpini sin dal Cinquecento ed è al centro di narrazioni, leggende, preghiere, documenti ufficiali che riportano spesso il timore locale dell’avanzamento dei ghiacci, percepito come una “minaccia” e spiegato come una punizione divina. Successivamente, durante l’Ottocento, la scienza ha superato la visione religiosa e ha colto che “nella storia dei ghiacciai era dunque conservata la chiave per accedere ai segreti del clima” (Dall’Ò 2019).
Quei cinquanta passi a cui fa riferimento il documentario dovrebbero far riflettere non solo perché rimandano all’impatto dell’azione umana sull’ambiente ‒ storicamente priva di attenzione ‒ ma anche perché ci mostra come la distanza tra umano e non umano sia sempre meno ampia quando si prende in considerazione il campo alpino; si assottiglia nelle situazioni in cui vita e morte sembrano sfiorarsi, in cui i vivi sono costretti ad avere a che fare con i morti e con la morte. Tra “noi occidentali” la morte è argomento tabu, così come lo sono i resti e la loro trattazione che, infatti, è regolata da precise prassi e pratiche: cerimonie, funerali, commemorazioni, e così via spesso ritualizzate e specifiche a seconda delle società che se ne occupano.
D’altra parte, le commemorazioni non riguardano più soltanto l’umanità, ma anche la “natura”. In Islanda ad ogni ghiacciaio viene dato un nome e dal 2019 vengono salutati quelli che “muoiono” (dead ice) con un funerale. Così recita la placca commemorativa di Okjökull, un tempo ghiacciaio e oggi vulcano: “Ok è il primo ghiacciaio islandese a perdere il suo status di ghiacciaio. Si prevede che tutti i nostri ghiacciai seguiranno lo stesso percorso nei prossimi duecento anni. Questo monumento è qui per attestare che sappiamo cosa sta accadendo e cosa va fatto. Solo voi sapete se così è stato”. Proteggere, celebrare, commemorare i ghiacciai significa umanizzare il cambiamento climatico. Come suggerisce anche Andri Snær Magnason ne Il tempo e l’acqua (2020), il passato collettivo, i miti, la fantasia sono molto più efficaci per un’interiorizzazione dei significati e per una comunicazione dell’urgenza di azioni concrete, e anche nel passato delle Alpi leggende e miti sui ghiacciai erano molto diffusi.
La “restituzione materiale di un’umanità”, scomparsa e poi ritrovata, mostra la montagna attraverso una lente nuova che ne mette in luce il ruolo simbolico e fisico di “ponte” tra la vita e la morte. In questo senso, il documentario mostra almeno tre direzioni, tre dimensioni relazionali, entro cui avviene la restituzione: dall’umanità alla montagna, dalla montagna all’umanità, dall’umanità all’umanità. Nel primo caso, Michele (ma ci si potrebbe immedesimare) è impegnato in progetti che implicano una “pulizia” delle pendici del Pakistan, del Nepal e del Cervino, inquinate dai rifiuti dell’umanità; nel secondo, è la natura a “rendere”, facendo riemergere i resti e le storie dell’umanità che tratteneva e custodiva in sé; infine, a chiudere il cerchio, il lavoro di restituzione dell’umanità che coinvolge soccorritori, guide, polizia scientifica, e che riconnette, riannoda il filo delle vite spezzate con quello delle famiglie che non hanno mai smesso di aspettare il ritorno dei loro cari.
L’elemento della ritualità ‒ che ruota intorno alla morte e al rapporto vita-morte, di cui si può leggere una trattazione interessante nel testo di Favole (2003) e in particolare nella sua “vita sociale del corpo dopo la morte” ‒ non scompare ma, anzi, sembra qui riemergere nel progetto di Michele di scoprire e restituire la vita a “ciò che resta”, continuare la storia di quelle persone e in qualche modo renderle di nuovo parte della socialità, riammettendole anche nella cultura, nella storia, nel tempo, nel ciclo della vita.
Il documentario non lascia alcun dubbio sulla necessità di un cambiamento radicale e di azioni concrete: il cambiamento può e deve partire da ciascuno di noi. Se intendere questo “noi” come singoli individui oppure estenderlo all’intera umanità sta a voi, anzi a noi.
BIBLIOGRAFIA
Aime M., Favole A. e F. Remotti, 2020, Il mondo che avrete. Virus, antropocene, rivoluzione, Utet, Milano
Bougleux E., 2017, Incertezza e cambiamento climatico nell’era dell’Antropocene, in “EtnoAntropologia”, vol. 5.
Dall’Ò E., 2019, I draghi delle Alpi. Cambiamenti climatici, Antropocene e immaginari di ghiaccio, in Gugg G., Dall’Ò E. e D. Borriello (a cura di), Disasters in Popular Cultures, Il Sileno Edizioni, Rende.
Favole A., 2003, Resti di umanità: vita sociale del corpo dopo la morte, Laterza, Roma-Bari
Magnason A. S., 2020, Il tempo e l’acqua, Iperborea, Milano
Mauss M., 2002, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, edizione italiana, Einaudi, Torino
*Serie realizzata in collaborazione con studenti e studentesse del Laboratorio permanente di Antropologia dei Cambiamenti Climatici, coordinato dall’antropologa Elisabetta Dall’Ò, presso il Dipartimento CPS (Culture, Politiche e Società) dell’Università di Torino.