Le crepe di Craco e le crepe del Paese

Il cinema italiano e la Riforma Franceschini raccontati da Antonello Faretta.

Sono lucano, nato e cresciuto in periferia a Potenza, piccola provincia molto distante dai centri della produzione cinematografica. Questo contesto, questa città e la mia regione, la Basilicata, sono stati la mia palestra prima umana e poi cinematografica. Sono un figlio del terremoto, fondamentalmente. Faccio riferimento al grande sisma del 1980 che colpì tragicamente l’Irpinia e la Basilicata… Abitavo proprio accanto ad uno dei palazzi che crollò in città e per molti mesi ho vissuto con la mia famiglia – così come tantissimi miei conterranei – da sfollato. Questo trauma, assieme ad altre esperienze che la vita mi ha fatto vivere, sono stati fuochi vitali per me, la mia formazione culturale ed umana. Dunque, già da bambino, mi sono imbattuto in queste immagini di macerie, rovine, esodi, materie in disgregazione e tentativi di ricostruzione, di rinascita, di riformulazione identitaria che sono i temi che provo ad esplorare con il mio lavoro. Forse proprio a causa del terremoto vissuto in prima persona il mio desiderio da ragazzo era quello di costruire case e fare un percorso di studi che mi consentisse di fare questo. Mi iscrissi quindi alla facoltà di ingegneria ma, in seguito ad altre esperienze, ben presto preferii cambiare corso e studiare Scienze della Comunicazione all’Università La Sapienza di Roma.

È stato qui che ho avuto le mie prime e più compiute esperienze con il linguaggio delle immagini in movimento. Da subito presi a frequentare, più o meno stabilmente, il laboratorio audiovisivo della facoltà e a realizzare, assieme ad altri studenti, piccoli cortometraggi sperimentali. Alcuni di questi lavori vennero premiati in festival di settore e presto passai a collaborare con Saverio Costanzo in un programma televisivo dedicato al mondo universitario e trasmesso da una emittente privata romana. Successivamente, con lo stesso gruppo di lavoro, realizzammo alcuni lavori per quella che allora si chiamava RaiSat Arte. In seguito partecipai ad un concorso del Comune di Roma destinato a giovani cineasti, fotografi e scrittori, si chiamava Enzimi. Venni selezionato nella sezione cinema e iniziai a realizzare diversi cortometraggi come regista e vari come direttore della fotografia. Presi a collaborare con la produzione di Piergiorgio Bellocchio, ma ben presto iniziai ad avvertire l’esigenza di mettermi in proprio, acquistare le mie attrezzature e tornare nella mia regione, la Basilicata, per cercare una strada più autentica rispetto a quanto mi appariva a Roma superficiale, chiuso e omologante. Le dinamiche della produzione cinematografica a Roma le avvertivo come una prigionia, un disagio da cui mettermi al riparo.

Il coraggio di tornare indietro lo presi dopo aver conosciuto Abbas Kiarostami alla Scuola Holden di Torino dove partecipai alla sua masterclass organizzata dal Museo del Cinema. Incontrare la sua poesia, il suo cinema umanista e la sua libertà costituì per me una bella iniezione di fiducia e utopia.

Tornai presto in Basilicata e decisi di ripartire da zero in un luogo ai margini del cinema, anzi completamente fuori dalla geografia cinematografica. Presi un finanziamento a tasso agevolato da Sviluppo Italia e nel 2001 creai il mio piccolo studio cinematografico, la Noeltan, con cui da allora ho realizzato tutti i miei lavori auto-producendomi. A Potenza, in questo contesto di vitale isolamento culturale, mi sembrò necessario lavorare per far nascere una “comunità cinematografica” mettendo in relazione persone con la mia stessa passione. Creai così un festival internazionale del cinema in città, il Potenza Film Festival, che in poche edizioni divenne uno dei principali eventi culturali della regione e si guadagnò un’ottima reputazione anche fuori regione. Questo festival aveva una struttura particolare, teneva assieme le visioni, gli incontri con gli autori con esperienze di alfabetizzazione cinematografica tra le scuole della Basilicata e di alta formazione cinematografica. Ogni quattro mesi abbiamo organizzato qui workshop e masterclass internazionali con importanti autori del “neo-realismo” o, che dir si voglia, del “cinema del reale” che non confonderei con il documentario tout court. Questi workshop rappresentavano un cortocircuito tra “territorio”, “lingue” e “sguardi”. Invitavamo (invitiamo visto che ne facciamo ancora) nello stesso luogo, a Potenza o in piccoli paesi di montagna della regione (luoghi marginali, senza nemmeno un cinema) studenti provenienti dalle principali scuole di cinema al mondo e studenti italiani e lucani con l’obiettivo di far vivere un’esperienza didattico-produttiva di tipo intensivo. Queste esperienze sono poi diventate un Master di Alta Formazione Cinematografica in produzione e distribuzione cinematografica finanziato dalla Comunità Europea.

Ecco, il mio è stato per molto tempo un percorso all’inverso o se vogliamo fatto di digressioni: ho cercato di portare nella mia città il cinema che più mi interessa formandomi, come si dice in gergo, “on the job”, facendo. È stato un percorso da esploratore e, per certi versi, da pioniere. Credo di aver contribuito profondamente, al pari di altri colleghi sul territorio, alla crescita di una cultura cinematografica della mia regione.

Come cineasta, ho realizzato diversi cortometraggi, alcuni documentari e film sperimentali e, quest’anno è uscito nelle sale italiane – auto-distribuito dalla Noeltan – il mio primo lungometraggio, Montedoro, che ho girato nel paese abbandonato di Craco, in provincia di Matera (che nel 2019 sarà Capitale Europea della Cultura, paradigma di luogo ai margini per molti anni che oggi diviene “centro”). Ho vissuto per molto tempo tra le rovine di Craco – che è stata evacuata nel 1963 in seguito ad una grande frana – cercando di fare un film che cucisse assieme i pezzi frantumati del luogo e provasse a ricostruire l’identità comunitaria del posto, il genius loci, se vogliamo, di questo posto. Ho provato a guardare attraverso le crepe di Craco per guardare metaforicamente le crepe del nostro Belpaese.

Montedoro è stata, senza dubbio, l’esperienza più importante e sofferta fin qui per me. Un film girato in pellicola (super 16mm) in un luogo “pericolante”. Un film fuori dal tempo e i “vizi“ dell’industria cinematografica, un film “fuori norma” – come lo ha definito Adriano Aprà -, un film fuori da ogni logica industriale, un film libero e molto personale. Questo è il cinema che mi aspetto di trovare da spettatore: racconti impregnati di vita e distanti dal prodotto idealtipo americano.

Oltre ad averlo scritto e diretto, ho prodotto Montedoro con Adriana Bruno e la nostra società assieme ad un coproduttore italiano (Todos Contentos Y Yo Tambien), uno americano (Rattapallax) e uno brasiliano (Astrolabio). E’ un film dove – per diversi fattori – ogni spazio realizzativo e distributivo è stato conquistato con grande sforzo e ostinazione. Le cosiddette “opere prime” in Italia vengono sovente snobbate o, durante la stessa lavorazione del film, può accadere che il regista e la sua produzione venga ostracizzato dagli addetti delle industrie tecniche e dai potenziali finanziatori perché, nell’immaginario di alcuni, con il termine “opera prima” si sottintende spesso “inesperienza” senza invece tener conto che molti autori che arrivano al primo lungometraggio hanno alle spalle palestre importanti.

Dal punto di vista produttivo, abbiamo fatto domanda al Mibact che però non ci ha finanziato: il colloquio con la Commissione ministeriale e le criptiche modalità di valutazione – parliamo del 2013 – sono tra le esperienze più deludenti e mortificanti che ho fatto col film. Quel luogo e quei grigi funzionari della burocrazia ministeriale mi apparvero come un “ufficio di collocamento” piuttosto che un incubatore con al vertice professionisti esperti di cultura di impresa cinematografica. Un film è un’impresa, un cantiere e, a mio avviso, deve essere valutato e da produttori e registi di grande esperienza, non da persone completamente avulse dal complesso processo del “making cinematografico”. I giovani hanno bisogno del mentoring e dell’affiancamento dei grandi. Parliamo di cultura e cultura di impresa e se non c’è questo fondamentale passaggio di conoscenze e di “rete” non ci saranno mai una reale crescita e una reale “relazione”, quest’ultima fondamentale nella nostra industria culturale atomizzata. C’è bisogno di creare reti e scambi di pensiero e conoscenze, di generare interconnessioni tra autori, distributori e produttori nel nostro contesto culturale ancora troppo provinciale fatto di gelosie e “orticelli”. L’esclusione da parte del Mibact, tuttavia, ha alimentato in me e la produzione un vero e proprio sussulto di orgoglio e perseveranza che ha prodotto – se vogliamo e con il senno di poi – “innovazione”. Abbiamo quindi deciso di mettere in piedi il film in modo diverso, senza più inseguire logiche canoniche ma raccogliendo fondi privati tra i discendenti lucani che vivono in Nord America e nel mondo. Una sorta di “crowdfunding emozionale” che puntava a “raccontare” Craco quale vero e proprio “landmark” in cui una comunità di persone distante ma originaria del posto potesse riconoscersi.

Tutto questo ha ovviamente influenzato il nostro modus operandi: anche il piano di lavorazione infatti è stato contaminato da questa inconsapevolmente e sana intermittenza. Il cinema, come tutte le attività di creazione, ha bisogno del fare e della riflessione. Lo spazio tra questi due momenti è un’intercapedine di senso, rotta e identità fondamentale per quanto mi riguarda.

Molti problemi li abbiamo avuti anche nella post-produzione, dove oggi laboratori che facciano ancora film in pellicola sono davvero pochi, uno o due al massimo, e quei pochi che ci sono perdono quotidianamente smalto e competenze. Tutte riversate nel digitale, veicolato inizialmente come una rivoluzione linguistica ed estetica, produttiva e distributiva ma mai compiuta realmente, soprattutto per quanto riguarda la distribuzione. Infatti, entro il dicembre 2015, per legge ogni sala italiana avrebbe dovuto adeguarsi alle tecnologie di proiezione in digitale per favorire un abbattimento dei costi di distribuzione dei film (eliminare la stampa delle copie di proiezione dei film per trasmettere i film on demand con server digitali) e ampliare l’offerta delle sale moderne con altri contenuti, tipo concerti e sport. Oggi molte sale invece sono dotate della giusta tecnologia digitale ma i tecnici all’interno non le sanno usare fino in fondo. È necessario formare e fare formazione continua anche ad esercenti e proiezionisti.

Abbiamo presentato Montedoro in molti festival internazionali con pressoché nessuno spazio qui in Italia, né nei festival, né tantomeno nel circuito distributivo. Abbiamo così deciso di auto-distribuirlo con la nostra società in circa 25 città italiane. Avevamo voglia che il film entrasse anche in relazione con il pubblico italiano e completasse il suo percorso arrivando alla gente.

Ma scoprire il mondo della distribuzione italiana è stato un vero e proprio shock! La distribuzione cinematografica nel nostro Paese funziona grosso modo come lo spaccio della droga: ci sono agenti territoriali (veri e propri pusher di gusti e tendenze) che lavorano per i grandi circuiti monopolisti di distribuzione che impongono alle sale – sia grandi che piccole – lavorano loro scelta di film spacciando visioni omologate ed omologanti che rispettano la semplice perversa equazione della nostra industria culturale basata sulla cultura del successo commerciale, del nome di richiamo che, molto spesso, fa solo da specchietto per le allodole. Cultura, questa, esercitata appunto monopolizzando e statalizzando il doping per le masse, il narcotico di massa.

Dunque, per sfuggire ad una lotta senza scampo, abbiamo costruito un abito su misura per la nostra distribuzione a cui abbiamo dato il nome simbolico e rosselliniano di “Viaggio in Italia”. Abbiamo deciso di basare le uscite sulle due città principali, Roma e Milano, e di portare poi in giro in Italia delle proiezioni-evento di città in città appoggiandoci alle piccole sale dei centri storici e alle associazioni libere (non quelle di categoria) di cultura cinematografica che operano in questi territori.

Dovunque siamo andati abbiamo riempito le sale – e questo è un dato molto importante per un film indipendente e d’essai che la lingua del legislatore definisce “difficile” (quale film riesce a trovare finanziatori con questa etichetta di Stato? Personalmente non investirei un centesimo in un film definito così! È come dire film “sfigato”. La lingua è importante, soprattutto oggi che noi italiani siamo così frantumati, la precisione ed esattezza della lingua sono già un ottimo collante) – e incontrato fondamentalmente tutta la Penisola in un racconto ulteriore sul Paese.

Solo a distribuzione finita abbiamo conosciuto gli esiti dell’unica altra domanda di co-finanziamento pubblico fatta nel 2013 alla nostra neonata Lucana Film Commission. Siamo stati ammessi ai finanziamenti con un piccolissimo contributo rispetto al costo intero del film che abbiamo ricevuto appunto solo quest’anno. Anche sui territori, anzi soprattutto sui territori, bisogna lavorare tanto a snellire e velocizzare burocrazia e procedure e lavorare alla formazione continua delle competenze degli amministratori pubblici che spesso lascia molto a desiderare, soprattutto al Sud ahimè. Nei territori occorrono competenze e idee, connessioni e visione. Occorre fare sistema con tutte le energie cinematografiche presenti sui territori stessi e creare occasioni di sviluppo locale e non solo promozione del paesaggio. Le film commission devono trovare la strada per emanciparsi dalla promozione turistica a vantaggio della cultura di impresa. Occorre creare servizi e competenze, professioni. Vendere il prodotto turistico alle produzioni e poi non avere le fondamenta professionali sul territorio per rispondere alle esigenze delle produzioni stesse non giova a nessuno, né alle produzioni né ai territori.

Oggi sono tornato di base a Roma, dove sto preparando un nuovo film. Non ho mai perso il legame con la mia terra dove torno spesso e dove abbiamo ancora una sede del nostro studio.

L’occasione del ritorno a Roma è dovuta proprio a Montedoro visto che buona parte del montaggio e della post-produzione si sono svolte appunto qui. E devo constatare che questo andirivieni tra “centro” e “periferia” mi aiuta a leggere meglio e con distacco virtù e difetti dei due luoghi. Oggi mi interessa ragionare sulle periferie nei centri, sulle rovine nei centri. E Roma, con la sua decadenza, mi sembra a questo proposito luogo di osservazione privilegiato in questo momento. Le periferie sono quel vitale nervo scoperto della nostra società attraversate profondamente e indirettamente dal nostro tempo. Le periferie sono i luoghi più contemporanei proprio perché non coincidono perfettamente con il loro tempo e andare a rintracciare anche nei “centri” geografici queste periferie ci consente di muoverci tra le ombre e le frane del nostro tempo storico. Abbiamo bisogno di crepe e fratture per definire il tempo in cui viviamo non di superfici lisce e regolari, abbiamo bisogno di irregolarità, di leggere difetti ed imperfezioni, qui risiedono lo spazio e il tempo che abitiamo.

Sto riprendendo dunque la lunga trafila per mettere in piedi la produzione del mio nuovo film e mi imbatterò con l’entrata in vigore della nuova Legge Cinema, la quale dovrà dimostrare le sue eventuali virtù nella sua applicazione.

Mi sembra una Legge che tende a garantire e semplificare il lavoro dei produttori più grandi e potenti lasciando poco spazio al cinema d’autore, sperimentale e indipendente. Una legge che non prevede alcuna azione di formazione audiovisiva nelle scuole dell’obbligo, che non prevede alcun percorso di relazione e crescita con i territori (le Film Commission che oggi destinano i fondi strutturali europei principalmente verso racconti “turistici” del territorio, il vecchio compito delle APT, le Agenzie di Promozione Turistica, sta in questo modo passando nelle mani delle Film Commission; non è difficile immaginare un futuro in cui le produzioni cinematografiche verranno rimpiazzate dai tour operator); una Legge che usa una lingua offensiva e raccapricciante per definire i film indipendenti, “fuori norma” e d’autore etichettandoli appunto come “film difficili” (in Francia credo li chiamino “audaci”, “coraggiosi”… e noi in Italia un tempo patria della bellezza e della lingua inciampiamo proprio sulla lingua); una Legge poco attenta alla pluralità e diversità delle opere e delle visioni; una Legge che tenderà sempre più a soffocare sguardi liberi ed autentici appannaggio della cultura dell’omologazione e della serialità; una Legge che non pone un necessario distinguo tra TV e sala cinematografica (perché le persone qui da noi non vanno al cinema come negli altri Paesi? Perché non offriamo al cinema anche ciò che non possiamo trovare in TV?); una Legge che dovrà spiegarci come intenderà difendere e diffondere il prodotto nazionale, cosa che nessuno più fa in Italia, né i festival, né i distributori e gli esercenti sempre più assoggettati alla cultura dell’esterofilia e del potere economico; una Legge che non palesa adeguatamente i criteri meritocratici per accedere ai fondi pubblici, né tantomeno i criteri utili alla necessaria internazionalizzazione delle opere; una Legge che premia i risultati al botteghino e non la qualità (forse perché è venuto completamente a mancare l’apporto della critica cinematografica relegata sempre più al solo ruolo di raccontare sinossi e gossip di un film piuttosto che contribuire ad “educare” alla lettura delle immagini, ad una visione compenetrata).

Ripeto, mi sembra una Legge che indica la destinazione ma non indica il cammino. Una Legge che ricalca una tendenza inter-nazionale (specificatamente europea) dove si favoriscono le tante coproduzioni europee che lavorano a realizzare film potenzialmente tutti uguali. Anche il cinema paga lo scotto della deriva di senso che ha preso l’Unione Europea, che avrebbe dovuto abbattere le frontiere per far emergere lo scambio e la relazione tra Paesi e lingue diverse preservando le culture e le diversità autoctone. Le diversità sono sempre una ricchezza quando si palesano, non quando si fondono per diventare una materia unica e monolitica. Bisogna tornare a favorire la cultura della artigianalità, del prodotto unico, nuovo, originale, mettendo al bando questa cultura del prototipo, questo “taylorismo dell’immagine” con cui tutti dobbiamo fare i conti, sia gli autori, i produttori, i distributori e gli esercenti, sia gli spettatori.

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