Il cinema è a corto di donne?

La regista Marcella Piccinini descrive il percorso intrapreso per realizzare i suoi film e, nel farlo, racconta un frammento indispensabile di cosa vuole dire oggi realizzare un film indipendente in Italia, per di più essendo una donna.

Per buona parte della mia vita, fino ai vent’anni e anche oltre, non ho mai pensato di fare la regista. Ho seguito studi artistici. Più tardi, grazie a una borsa di studio, ho seguito a Vevey, in Svizzera, un corso di fotografia dal quale passavano (e nel quale insegnavano) alcuni dei più prestigiosi fotografi del mondo. Lì ho cominciato a pensare che quella fosse la mia strada. A un certo punto, però, ho iniziato a raccontare storie con le fotografie. Fotografie in sequenza: la storia dell’ombrello, la storia di Anna, del bambino a Cuba sotto la pioggia, delle porte indiane, la storia del nonno… Alcune mie fotografie hanno cominciato a essere esposte in mostre: in quella che ho più gradito e apprezzato avevo disposto fotografie di diversi formati in una struttura di cassetti in modo che la gente potesse toccarle, seguirne le storie. Ma soprattutto mi aveva affascinato come i soggetti fotografati diventassero indipendenti da me, fossero diventati autonomi.

Al cinema, dopo la morte di mio padre, non sono andata per diversi anni. Arriverei a dire che non avevo alcun interesse per il cinema. Oltretutto, essendo cresciuta in un piccolo paese senza cinema, non ne conoscevo neanche il linguaggio. Anche quando andai a vivere a Bologna, dove mi iscrissi all’Accademia di belle arti, pur sapendo che c’erano la Cineteca e il Lumière, non li frequentavo.

Tutto questo durò fino a quando, essendo in Inghilterra per imparare l’ inglese, sono andata a vedere un film uscito allora: No Man’s Land di Danis Tanovič (2001). Un altro film che successivamente ho amato moltissimo è stato Prima della pioggia, di Milcho Manchevski (1994). Sono uscita molto colpita da quanto quel film mi aveva regalato e quanto mi aveva aperto gli occhi sul mondo e soprattutto sulle potenzialità del cinema. Pensandoci ora, tutto questo mi sembra assurdo, ma è stato proprio così. Nel frattempo, le mie fotografie diventavano strisce interminabili e ho iniziato a scrivere sulle fotografie dei racconti illeggibili, volutamente illeggibili, perché mi vergognavo.

Non ricordo bene quando è stata la prima volta che ho preso in mano una telecamera. Ricordo però di quanto mi sentissi sempre in colpa per quello che facevo: l’arte che avevo studiato, e in cui credevo, mi sembrava qualcosa che non portasse da nessuna parte. La mia vita e il mio modo di viverla hanno cominciato a cambiare dopo un terribile incidente: essendo sopravvissuta ho capito la serietà della vita.

Il mio primo documentario è stato La luna di Kiev (2007). Stavo scrivendo una storia di una madre che fa la badante in Italia e ha lasciato il figlio in Ucraina. Per documentarmi sono salita su un autobus diretto a Kiev. Ho preso con me la telecamera per documentare la storia che stavo scrivendo, ma poi non sono più riuscita a non riprendere quello che vedevo e sentivo.

L’autobus era pieno di donne che ritornavano dalle loro famiglie per le vacanze di Natale. Quello che ho trascorso con loro è stato il Capodanno più bello della mia vita. Un po’ prima della mezzanotte l’autobus si è fermato nel nulla. Tutt’intorno c’era solo neve, e lì noi abbiamo mangiato i dolci artigianali delle signore ucraine. Al ritorno ho iniziato a montare, ma non sapendo bene cosa volesse dire quello che facevo, era più l’istinto a guidarmi. A film finito, le sue protagoniste sono venute a casa mia e alla fine mi hanno chiesto di farlo vedere il più possibile, e mi hanno detto che ero una di loro. È stata un’esperienza strana, toccante.

Nei mesi successivi mi sono ritrovata nelle sale a presentarlo e ho capito la responsabilità che si ha nel fare questo lavoro. La stessa lezione, sulla responsabilità e la serietà di questo lavoro, l’ho capita anche frequentando la scuola di Marco Bellocchio e poi collaborando con lui.

Successivamente ho deciso di frequentare un master di regia alla FAMU di Praga, per perfezionarmi. Non conosco bene le altre scuole, ma questa per me è stata importante perché mi ha fatto capire soprattutto come le storie semplici, quotidiane, senza giri di parole, siano le più genuine. A Praga mi hanno insegnato a raccontare le storie che ci appartengono, che sentiamo, che si presentano a noi con la forza di una necessità. Mi hanno insegnato il valore della scrittura e come con pochi mezzi si debba cercare di realizzare quello che si ha in mente; come non siano solo i mezzi a dare importanza al lavoro.

Il mio secondo documentario, La mia casa e i miei coinquilini, su Joyce Lussu, con un’intervista a Joyce di Marco Bellocchio, ha richiesto una lunga lavorazione, sia per trovare i soldi per realizzarlo, sia perché mi ha richiesto molte ricerche. Ho chiesto a molti produttori di aiutarmi a realizzarlo, ma con pochissimo successo. Io volevo girarlo in pellicola, integrando i materiali di archivio, la qual cosa mi avrebbe anche aiutato a dare allo spettatore il senso di un’epoca (l’ho poi fatto, anche con i pochi mezzi che avevo…); ma questo, a qualche produttore, doveva sembrare una pazzia. In più, quasi tutti mi dicevano che Joyce Lussu è poco conosciuta, che il film non avrebbe attirato l’ interesse di molti, che sarebbe stato apprezzato solo da un ristretto gruppo di donne femministe. Io, però, non mi sono arresa. Per mia natura non mi fermo a pensare troppo a lungo, agisco per passioni. All’inizio ho investito i miei soldi, e mia madre, che è più pazza di me, ci ha messo anche i suoi risparmi.

Con Paolo Marzoni abbiamo iniziato a montare il girato e a quel punto ho iniziato a far vedere quello che stavo facendo per trovare altri soldi. L’elaborazione del film è durata cinque anni perché ne ho seguito io la produzione, compresa la ricerca di finanziamenti, che non è ancora finita. Per ora sono riuscita a trovare i soldi per pagare gli archivi dei video storici in misura sufficiente a permettermi di proiettarlo ai festival ma non in proiezioni pubbliche nelle sale o in eventi. I diritti degli archivi sono costosissimi. E se fra otto mesi non avrò trovato questi soldi il film morirà, perché non potrà neanche più andare ai festival. Insomma una catastrofe per noi che ci abbiamo creduto, e siamo in tanti, e per chi lo vuole vedere.

Il film ha girato per molti festival in Italia e ha avuto molti riconoscimenti, questo mi fa ben sperare. Ho fatto bellissime esperienze andando a presentare il mio film in festival molto interessanti e seri come quelli di Trieste film festival, Visioni Italiane a Bologna, Bellaria film festival, il Sardinia Film festival, il Carbonia Film festival, Sole Luna film festival, Premio Libero Bizzarri, Festival del cinema italiano a Madrid, Premio Marcellino De Baggis, solo per citarne alcuni… Io ho l’ impressione che in alcuni festival non si rendano ben conto di cosa comporta per noi registi realizzare quello che loro faranno vedere. Ho l’impressione che non capiscano l’enorme mole di lavoro che c’è dietro e la serietà che c’è nel crederci e nel lottare per poter realizzare quello che si ha in mente.

Nessuno si chiede come noi ci manteniamo, ad esempio. Ho sentito discorsi incredibili, che ad esempio non si sentono se vai dal fruttivendolo a comprare le arance. Le arance le paghi, nell’ambito della cultura sembra che si debba fare tutto gratis perché ci credi. E invece, proprio perché ci credi dovresti essere valorizzato in modo da poter continuare a fare questo lavoro.

Non si farebbe mai un discorso al fruttivendolo dicendo di non avere i soldi per comprare le arance, però ti piacciono e quindi le vorresti gratis. Nel campo della cultura sono pochi a capire che le arance le mangiamo anche noi. In altri Paesi (per esempio in Francia, nella Repubblica Ceca), ho avvertito un ben diverso rispetto per le forme d’ arte, e per chi le fa. Ma anche in Italia ci sono associazioni molto serie come la Der (documentaristi in Emilia Romagna) che portano i documentari nelle scuole, nelle carceri, e aiutano nella diffusione nelle sale). O come Doc in Tour.

Per quanto riguarda i finanziamenti statali, credo che sia una vera tristezza.

Se non trovi il produttore che vuole produrti il film, fai per forza come me: anche se il film è d’interesse collettivo perché parla della nostra storia, devi escogitare delle continue strategie per poterlo realizzare. Certo non guadagni nulla, quindi ti chiedi fino a quando è possibile fare questo mestiere, visto che i film costano moltissimo. La domanda che mi sorge spontanea (e lo fa spesso) è se avrò sempre così tanta tenacia e coraggio per poterci credere. Tra i problemi che il vostro questionario pone c’è anche quello sulle diversità di genere nel cinema. A me sembra evidente  che per le donne sia più difficile: basta guardare ai festival quante donne ci sono e quanti uomini e chiedersi come mai. Senza contare che questo lavoro impone alle donne una serie di rinunce importanti e spesso dolorose. Ci sono iniziative importanti che aiutano le donne come a Napoli, dove c’è un festival al quale selezionano solo corti di donne, “A corto di donne”. Fra l’altro ho visto lavori molto interessanti di registe straniere. Io sono contro tutto ciò che divide , ma quando vedo che in alcuni festival sono l’unica donna o siamo in due, credo che sia importante che il problema emerga. Anche se ora ci sono varie iniziative. Troppo poche ancora per aiutare la produzione di film al femminile. Nell’anno accademico passato ho insegnato scenografia all’Accademia di Belle arti Santa Giulia. La scenografa l’ho fatta in diversi film e corti in passato. Per me è stata un’esperienza molto positiva, è stato uno scambio che mi ha arricchito molto anche umanamente.

Ora sto lavorando a un documentario nuovo che è la storia di mia madre. Sono stata sempre contraria a raccontare storie personali. Tuttavia, ci sono storie personali (e questo è il caso di mia madre, sul quale non mi soffermerò qui) che presentano caratteri peculiari, originali, tali da poter non solo trasmettere sentimenti ed emozioni allo spettatore, ma anche svolgere opera di convinzione civile su problemi particolari e spesso molto importanti. Sarebbe un peccato perdere per strada questo tipo di storie.

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