Falafel e conflitto

Cibo e identità fra Israele e Palestina.

Ogni identità culturale è complessa e sfaccettata. L’identità nazionale, che racchiude spesso milioni di individui, ancora di più. Da Trento a Catania, non è facile individuare quale siano gli elementi essenziali dell’italianità, specie nel nostro tempo in cui le identità sembrano solidificarsi e diventare respingenti. La cucina non fa eccezione: motivo di scontro nei nostri condomini sempre più multiculturali sono gli odori, per qualcuno insoliti, di olio di cocco fritto, spezie, curry, esattamente come l’aglio soffritto e i pomodori a seccare erano motivo di scontro per gli italiani negli Stati Uniti, qualche secolo fa.

Il cibo, in altre parole, è uno dei sentieri attraverso i quali si forma e si rappresenta un’identità culturale e nazionale. La spaghettata degli italiani all’estero, ma anche i maccheroni cheese degli italo-americani, sono modi di declinare un’appartenenza, di dire: io sono (e quindi mangio) italiano.

Immaginate, quindi, cosa voglia dire preparare dei falafel in una zona di conflitto e occupazione come quella di Israele e dei Territori Palestinesi occupati. L’Israele moderno non aveva, alla sua fondazione, una “cucina tipica”. Come avrebbe potuto? Ebrei ashkenaziti (polacchi, tedeschi, ucraini) e sefarditi (iraniani, marocchini, yemeniti, siriani), provenienti da ogni parte del mondo, immigrati in più ondate a distanza di decenni, portavano ognuno una cucina diversa da tutte le altre. Un legame fra la terra di Israele e i suoi abitanti doveva essere ricreato (o re-immaginato1) e il cibo è stato uno dei vari artefatti culturali utilizzati dal movimento nazionalista israeliano in questo senso.

Il falafel è uno dei cibi più semplici e diffusi in Medio Oriente. La versione preparata nella Palestina ottomana era, ed è tutt’oggi, a base di ceci essiccati che vengono reidratati, frullati con delle spezie, stesi in piccole polpette e fritti. Già i primi immigrati ebrei lo consumavano, e, se negli anni ’20 del secolo scorso era ancora uno snack per giovani, negli anni ’50 era già percepito e rappresentato come cibo israeliano a tutti gli effetti. Negli anni ’70, ogni libro di cucina israeliana aveva una ricetta per i falafel2.

Anche per i palestinesi i falafel sono simbolo di appartenenza e identità. Rappresentano la loro lunga connessione con il territorio della regione. Sebbene sembri originario dei cristiani copti egiziani, il falafel è stato parte della cultura palestinese per secoli e rappresenta oggi uno dei tentativi di resistenza all’egemonia (in questo caso culinaria) israeliana3.

Il concetto di appropriazione culturale è controverso e da usarsi con cautela (tutta la storia culturale è, in effetti, storia di appropriazioni fra popoli e culture differenti). Quando però due popoli condividono uno stesso territorio, ma le relazioni di potere fra di loro sono diseguali e ostili, allora non solo si può parlare di appropriazione culturale, ma di conflitto culturale e di resistenza culturale. E il cibo, in quanto aspetto della cultura, è coinvolto in pieno. La storia della cucina di un popolo è la storia del popolo stesso.

Cartolina in vendita in Israele – sul retro, la ricetta del falafel – che ricalca il testo di una t-shirt popolare negli anni ’70. Foto di Nisim Lev.

Israele “adotta” il falafel consciamente, cercando di forgiare un’identità per l’uomo nuovo che doveva abitare Israele: meno borghese, più dinamico, attivo, vicino alla terra che torna a coltivare. Era l’Israele dei kibbutz e i falafel – economici, semplici da realizzare – sono perfetti per segnalare l’inizio di un nuovo corso. Le origini palestinesi del falafel, per fare un esempio, sono state marginalizzate nel discorso culturale israeliano e reinterpretate fino a fare del falafel il cibo “tradizionale” dei primi coloni sionisti a cavallo del ’900: propriamente israeliano, quindi4. Da allora ci sono stati 70 anni di occupazione e scontri, prima con i vicini stati arabi e poi con i palestinesi delle diverse intifade e l’influenza araba e palestinese sulla cucina israeliana è sempre stata negata o fortemente ridimensionata.

Una parabola simile è toccata all’insalata israeliana (un’insalata di pomodori e cetrioli tagliati a dadi) che, chiunque abbia viaggiato per i territori dell’ex impero ottomano dall’Albania all’Egitto ha incontrato, e che per gli italiani è riconoscibile come una variante dell’insalata greca. Negli ultimi anni, però, c’è stato un cambiamento. Sempre più chef israeliani ammettono tranquillamente che l’insalata israeliana è, in realtà, un’insalata araba. Allo stesso modo, l’hummus e altri cibi arabo-palestinesi vengono apertamente riconosciuti come tali, dopo decenni di negazione5.

Perché? Cosa è cambiato?

Certamente, molte cose, ma la principale è che gli “arabi” non spaventano più. La società israeliana si sente ormai sicura del suo dominio politico, sociale e culturale sugli arabi-palestinesi e quindi in grado di appropriarsi di quello che desidera dalla loro cultura: la cucina arabo-palestinese può essere così accettata e, anzi, celebrata ora che sta perdendo il carattere di simbolo pericoloso di resistenza culturale per trasformarsi in innocuo esotismo, uno dei tanti possibili in una società moderna e cosmopolita come quella di Israele.

Fra il 2008 e il 2010 Israele e il Libano si impegnarono nel mantenere il record mondiale del più grande piatto di hummus (una salsa a base di pasta di ceci, di sesamo e cumino) al mondo. Il paese dei cedri accusò Israele di aver violato il proprio “copyright culinario”, essendosi appropriato dell’hummus e minacciò ritorsioni commerciali (del resto una corte europea ha riservato al solo formaggio prodotto in Grecia di chiamarsi feta). A difendere l’onore di Israele pensò un cittadino arabo-israeliano che riempì una parabola satellitare di hummus6. Sebbene l’operazione fosse declinata in termini locali (del villaggio di Abu Gosh, villaggio arabo in Israele), l’episodio denota un’egemonia culturale che ingloba in un noi sempre più difficile da evitare.

Il cibo nasce da continue ibridazioni (la tempura giapponese sarebbe impossibile senza i peixinhos da horta portoghesi; la pasta chi sardi siciliana è di chiara origine araba), ma come ogni altra cosa, si muove, si trasforma e cambia con i cambiamenti, più o meno pacifici, della società in cui viene creato e consumato. Mai come in questi ultimi anni, segnati da una destra israeliana aggressiva, la pace o meglio la giustizia per i palestinesi appare lontana. E la cucina arabo-palestinese diviene terreno di resistenza.

Che cos’è quindi una “cucina tipica”? Uno strumento per costruire nuove frontiere, per dividere il noi dal loro? Un aspetto aggiuntivo del nazionalismo? Certo, anche questo: i libri di ricette, ad esempio, sono stati fondamentali nella creazione di un’identità nazionale. Ma lo sono stati anche nel reclamare un’identità locale contro il colonialismo, ad esempio nell’India britannica dove la classe media locale si riappropria della “cucina indiana”. Quale cibo sia da considerarsi “tipico”, locale, è il risultato di un lungo processo di mediazione e scontro simbolico (o non così simbolico), il cui risultato cambia con il dipanarsi della storia di un popolo, della topografia che abita, degli sforzi per promuovere (o combattere) una certa cultura da parte del potere e delle élites. E, in definitiva, come per tutto, da chi esce vincitore dalla Storia. Fortunatamente, forme di lotta sono sempre all’opera. La Storia non finisce.

Silvia De Marco, nel suo Ricette di confine, ci racconta il cibo palestinese e gli uomini e le donne che, giorno dopo giorno, vivono, ossia lottano per la sopravvivenza (loro e dei loro piatti). Testimoniare la vita e la cucina palestinese, non in quanto cibo esotico da scoprire, ma come patrimonio culturale di un popolo, è atto di resistenza. Silvia De Marco contestualizza, infatti, la cucina arabo-palestinese nelle storie di quotidiana resistenza, culturale e politica, campo per campo, ulivo per ulivo, dei palestinesi dei territori occupati. Ogni ricetta è un punto di vista su un mondo – fatto di luoghi, persone e cultura – che lotta per non sparire.

Non sappiamo, ovviamente, cosa il futuro abbia in serbo per i palestinesi, né come (e quando) sarà possibile per loro vivere in pace e uguaglianza con i loro vicini. Ma dà speranza vedere come tante uomini e donne, in mezzo a difficoltà e violenza, continuano a salmodiare la lingua delle proprie radici e dei propri gusti. Anche solo sopravvivere, al momento, sia per la cucina palestinese, sia per il popolo palestinese, sono obiettivi non scontati.

Fra le tante ricette che Silvia De Marco riporta, non c’è quella del falafel. C’è, però, la voglia di raccontare la cultura che questa si tira dietro, con la tranquilla rabbia di chi riconosce l’ingiustizia e se ne fa testimone. Cucinare un kofta kebab o un ful è quindi, oggi più che mai, resistere. Buon appetito.

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Note

  1. Benedict Anderson, Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, Verso, New York, 2006
  2. Yael Raviv, Falafel: A National Icon, in Gastronomica, Vol. 3 no. 3 (estate 2003), pp. 20-25
  3. Brittany Power, Falafel and Hummus as symbols of national identity for Palestinians and Israelis, paper presentato alla conferenza 2017 Annual Meeting American Anthropological Association, Washington D.C.
  4. Ronald Ranta, Yonatan Mendel, Consuming Palestine: Palestine and Palestinians in Israeli Food Culture, in Ethnicities, Vol 14 (3), 2014, pp. 412-435
  5. Ronald Ranta, Re-arabizing Israeli food culture, in «Food Culture and Society», dicembre 2015, vol 18(4), pp. 611-627
  6. Nir Avieli, Rafi Grosglik, Food and Power in the Middle East and the Mediterranean, in «Food Culture and Society», 16:2, pp. 181-195, 2013
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