Tra centralizzazione, shock economy e progetti dal basso.
Le nomine di Vasco Errani come Commissario straordinario per la ricostruzione e di Giovanni Azzone come Project manager del piano di ricostruzione, a una settimana dal terremoto dell’Appenino Piceno-Laziale, e la volontà delle popolazioni colpite di accelerare il processo di ricostruzione, pongono interrogativi sulla gestione politica di un cosiddetto disastro, che possono essere affrontati analizzando altri casi studio. A 6 anni dalla prima scossa, vi proponiamo uno sguardo sulla gestione della ricostruzione di Christchurch (Nuova Zelanda), fra dinamiche di speculazione e progetti di rigenerazione urbana.
Le conseguenze sociali, economiche e politiche dei disastri, in Italia come altrove, mettono a nudo i problemi di gestione di quella fase complessa -e di lunghezza variabile da pochi anni a molti decenni- che è la ricostruzione post-disastro (Guidoboni e Valensise, 2011). La ricostruzione post-disastro dà spesso adito a conflitti. Gli interessi della politica e dei cittadini spesso collidono; i centri di potere (politico, economico, finanziario) tentano di monopolizzare il controllo delle operazioni (sistemazione degli sfollati, gestione di materiali e logistica, appalti) e dei flussi economici, mentre alcuni individui e collettivi cercano di contrastare tali meccanismi o portare avanti proprie iniziative. A partire da questa dicotomia proverò pertanto, in maniera molto breve ma spero chiara, a descrivere alcuni di questi meccanismi nella ricostruzione di Christchurch, Nuova Zelanda, duramente colpita tra il 2010 e il 2011 da una lunga serie di scosse. Due sono state le scosse che hanno causato i danni più ingenti: quella del 3 Settembre 2010, che ha causato solo pochi feriti, e quella del 22 Febbraio 2011, che ha invece provocato le 185 morti totali e migliaia di feriti, compromettendo almeno il 50% del centro città (il CBD) e molte aree suburbane. Data l’entità dei danni e il tempo ormai trascorso dall’evento, fare il punto sullo stato attuale della ricostruzione può rivelarsi esercizio fruttuoso per analizzare il ruolo che istituzioni e cittadini hanno nella ricostruzione, plasmata e fortemente condizionata dalle istanze individuali e collettive che emergono dopo un disastro. Descriverò sinteticamente alcuni tentativi di centralizzazione, speculazione e spinte dal basso, in un certo senso correlati e dipendenti gli uni dagli altri.
Centralizzazione
La ricostruzione di Christchurch si è rivelata stata abbastanza tortuosa. Dopo il sisma di settembre 2010 l’ente deputato da prassi alla gestione dell’emergenza, il Christchurch Civil Defence Emergency Management (CDEM), ha preso il comando delle operazioni. Pochissimi giorni dopo, il Primo Ministro ha annunciato l’istituzione del Minister for Canterbury Earthquake (Ministero CER) e di un Cabinet Committee on Canterbury Earthquake Recovery, creati ad hoc.
Oltre a provvedere alla gestione dell’emergenza, tale operazione ha modificato alcune procedure legislative inerenti i permessi di costruzione, derubricati come provvedimenti urgenti e “alleggeriti” pertanto di alcuni vincoli burocratici, di controllo e di consultazione (Mamula-Seadon e McLean, 2015). Dopo la scossa del 2011, il governo centrale e il CER hanno proposto un ulteriore cambio di legislazione con la creazione di un Dipartimento per la ricostruzione, il Canterbury Earthquake Recovery Authority (CERA). Sebbene nato con presupposti collaborativi con le autorità locali e regionali, il settore produttivo e le comunità locali, il CERA ha pian piano eroso l’autorità del governo locale e ha marginalizzato/escluso la popolazione (iniziative spontanee, associazioni, gruppi Māori) dal processo decisionale (Mamula-Seadon e McLean, 2015). A tale riguardo, i cittadini hanno mostrato un malcontento diffuso sottolineando anche come la centralizzazione del processo decisionale abbia consentito al governo di accelerare, tramite la ricostruzione, il raggiungimento di obiettivi speculativi -altrimenti difficilmente realizzabili se non con tempistiche più lunghe- insinuandosi negli interstizi politici e sociali che un disastro contribuisce a creare (Cretney, 2016). È la shock economy descritta da Naomi Klein (2007)[1], quel meccanismo che ha ad esempio consentito la penetrazione incontrollata del settore assicurativo in Louisiana dopo l’uragano Katrina, le speculazioni da parte di varie organizzazioni non-governative ad Haiti o, per portare un esempio nostrano, il progetto CASE e gli appalti gestiti in maniera poco trasparente all’Aquila. Il CERA sembra aver agito pertanto come longa manus del governo centrale, rappresentando un’operazione istituzionale senza precedenti per i processi democratici neozelandesi e pertanto bersaglio principale delle critiche dei cittadini (Cretney, 2016).
Tentativi di speculazione
Pochi mesi dopo il sisma del 2011, il CERA ha provveduto all’identificazione di una Red Zone, che insiste sia su parte del CBD che su molte aree ad esso esterne e formate essenzialmente da piccoli lotti residenziali occupati precedentemente da villette unifamiliari con giardino. Questi terreni sono stati considerati danneggiati o vulnerabili a tal punto che il loro ripristino è stato valutato come sconvenientemente lungo e costoso. La soluzione al problema del recupero di tali terreni è stata un cambio definitivo di destinazione d’uso per circa 8000 proprietà e i proprietari si sono praticamente trovati di fronte ad un aut aut: accettare un’offerta governativa per l’acquisizione dei terreni oppure vendere la proprietà esclusivamente alla Corona del Commonwealth (The Crown). Molti hanno considerato conveniente accettare una delle offerte; qualcuno le ha invece rifiutate, col risultato di contenziosi ancora in atto. Dal 2011, pertanto, il governo ha speso 1,5 miliardi di dollari per l’acquisizione di buona parte della Red Zone, puntando al raggiungimento di obiettivi dichiarati di sviluppo economico, benessere sociale e culturale. Soprattutto, si è puntato al non provocare perdite economiche alla Corona del Commonwealth (Blundell, 2016), per cui i terreni acquisiti saranno venduti come futuri investimenti per nuove aree residenziali, piccole attività agricole, commerciali e turistiche (Stylianou, 2015), nonostante comitati locali e università promuovano varie alternative, ad esempio la creazione di un grande parco fluviale urbano che preservi la qualità dell’ambiente e delle acque.
Dinamica speculativa simile a quella descritta sembra avvenire nella gestione del patrimonio storico-architettonico, in gran parte localizzato all’interno del CBD. Fin dall’immediato post-sisma Ian James Lochhead, precedentemente Associate Professor di Storia dell’Arte alla University of Canterbury, si sta battendo con il suo piccolo comitato per evitare l’abbattimento della centralissima Cattedrale di Christchurch, simbolo della città ed edificio anglicano di elevato valore storico-architettonico. La cattedrale è stata danneggiata dal sisma e messa in sicurezza, mentre l’abside è crollato in seguito. Verifiche strutturali hanno comunque confermato come buona parte della struttura sia integra e renda possibile e auspicabile un intervento di recupero. Ciononostante, sia le istituzioni nazionali che quelle ecclesiastiche ne hanno paventato l’abbattimento a colpi di battaglie legali non ancora terminate. L’interesse di Lochhead per la cattedrale si inserisce comunque all’interno di un quadro più ampio di presidio del patrimonio storico-architettonico danneggiato e sotto l’attacco di mire speculative. Secondo Lockhead, la pressione sulla necessità di preservare la cattedrale dall’abbattimento serve anche a contrastare speculazioni e investimenti privati su altre strutture danneggiate il cui abbattimento sarebbe ingiustificato.
Progetti dal basso
Il sito di The Commons all’interno del CBD: a sinistra, panchine e giochi colorati per bambini; a destra, the Arcades Project, arcate faidate per l’abbellimento dell’area (foto di Giuseppe Forino)
Se il comitato di Lochhead è certamente ascrivibile tra quei gruppi di persone che provano a resistere agli attacchi speculativi, piccole iniziative dal basso sono sorte con l’obiettivo di riappropriarsi della fruizione pubblica degli spazi o di una parvenza di quotidianità e socialità. In questo senso è certamente da menzionare Gap Filler, un’iniziativa di rigenerazione urbana che prova a colmare i vuoti urbani (filling the gap, appunto) sociali e spaziali tramite piccoli progetti ed eventi per i cittadini di Christchurch. Nel CBD, in un’area in cui precedentemente sorgeva un hotel danneggiato e demolito nel 2012, Gap Filler ha creato The Commons, uno spazio pubblico che ospita associazioni locali sorte dopo il sisma per la promozione di iniziative sociali come verde urbano, rassegne musicali, punti vendita di cibo e bevande, giochi per bambini, o come la creazione di un palco per musica e danza, da affittare a ore a prezzi bassissimi, itinerante per la città.
Exchange è, infine, una realtà creativa nata con il riutilizzo di un edificio colpito dal sisma e trasformato in bar, spazio espositivo e sede di coworking per professionisti che necessitano di spazi lavorativi (e spartani) a prezzi accessibili. La creazione di reti di prossimità è un valore aggiunto che ha inoltre consentito ai fruitori di elaborare progetti comuni.
Questo breve excursus su Christchurch dimostra, ancora una volta, come una città in cui accade un disastro assuma sempre una molteplicità di volti. Da un lato i centri di potere provano a centralizzare il processo decisionale, perseguendo mire clientelari e personalistiche e divergendo da obiettivi collettivi. Dall’altro, ci si organizza dal basso con forme di resistenza a tale potere o si portano avanti iniziative che provano a riplasmare il vivere quotidiano urbano. L’uso politico e speculativo del disastro, i conflitti su uso del suolo e dello spazio, la creazione e ri-creazione di reti e trame relazionali, il desiderio di rimettersi in gioco da parte delle popolazioni colpite a Christchurch sono meccanismi che non differiscono da quanto solitamente accade nella ricostruzione post-disastro a ogni scala e latitudine. Comprenderle si rivela dunque necessario anche per controllare l’azione istituzionale e aumentare il coinvolgimento di chi, colpito dal lutto o dalla distruzione, vuole riprendere in mano la propria vita.
Bibliografia
- Sally Blundell, Christchurch’s game of zones, 2016.
Raven Marie Cretney, Christchurch five years on: have politicians helped or hindered the earthquake recovery?, 2016. - Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni. Bononia University Press, 2011.
- Naomi Klein, Shock economy, Rizzoli, 2007.
- L. Mamula-Seadon e I. McLean, “Response and early recovery following 4 September 2010 and 22 February 2011 Canterbury earthquakes: Societal resilience and the role of governance”, in International Journal of Disaster Risk Reduction, 14, 82-95, 2015.
- Georgina Stylianou, Govt eyes red zone options to recoup money, 2015.
Note
[1] In “La riproduzione di uno spazio subalterno. Abitazione, classi marginali e resistenza in una città del Sud”, Rassegna Italiana di Sociologia 3, 423-448, Farinella e Saitta (2013) affermano comunque come la shock economy non sia fenomeno recente ma abbia trovato spazio ad esempio già nella ricostruzione post-terremoto di Messina (1908), dalla quale risultarono modelli economici fondati su rendita e speculazione, consumo di suolo per fini edilizi e sfruttamento di forza lavoro dequalificata, ancora oggi impattanti sulla vita della città. Inoltre, l’economista Ada Becchi Collidà (1988) aveva parlato di “economia della catastrofe” per il terremoto in Campania e Basilicata (1980) in “Catastrofi, sviluppo e politiche del territorio: alcune riflessioni sull’esperienza italiana”, Archivio di studi urbani e regionali, 31.