Eisenstein in Messico di Peter Greenway
Chi era Ejzenštejn? È la domanda alla quale il film di Peter Greenaway vuole dare risposta, cercandola in una delle pagine più significative della biografia ejzenštejniana. L’autore de La corazzata Potëmkin, si potrebbe rispondere, ma sarebbe davvero troppo poco. Lo capisce sin da subito lo spettatore di Eisenstein in Messico di Greenaway.
Articolando la replica, si potrebbe dire allora che Ejzenštejn fu uno di quei registi che, all’inizio degli anni Venti del Novecento, intuirono pionieristicamente le enormi potenzialità del montaggio cinematografico, non soltanto in quanto strumento atto alla costruzione di un racconto, ma anche, forse soprattutto, alla produzione di un pensiero che trova espressione grazie all’accostamento di due immagini, legate fra loro non più soltanto (come accadeva nel montaggio parallelo di Griffith) da un semplice principio di contiguità logica e narrativa.
Al nome di Ejzenštejn si lega l’idea di un cinema rivoluzionario non soltanto perché egli ebbe la pretesa, così come fecero in molti, di raccontare i dieci giorni che sconvolsero il mondo, la presa del Palazzo d’Inverno, l’Ottobre rosso.
Più radicalmente, il cinema di Ejzenštejn fece proprio il principio stesso della rivoluzione, trasformandolo nel principio cinematografico del montaggio, inteso come la possibilità di interrompere o addirittura invertire il corso lineare di una storia, agita o raccontata che sia.
Il film di Peter Greenaway diviene, attraverso il racconto del viaggio di Ejzenštejn in Messico, il racconto della fedeltà a questo principio insieme politico, estetico e di vita, se è vero, come è vero, che è con la vita che il cinema non può fare a meno, in ogni caso, di confrontarsi. Il racconto di un uomo e delle sue passioni.
Di più: la ragione per cui l’operazione di Greenaway convince è che essa fa proprio, reiterandolo, lo stesso principio di cui stiamo parlando. Su un piano strettamente visivo, infatti, quel principio suggerisce che ogni immagine, anche quella apparentemente elementare di un volto, altro non è che il risultato dell’accostamento di due immagini.
Perché un volto – era l’insegnamento di un altro padre della scuola sovietica del montaggio, Lev Kulešov – assume valori espressivi diversi al mutare delle immagini che lo accompagnano. È sulla scorta dell’assunzione di questo principio che è possibile interpretare, allora, al di là di ogni possibile accusa di formalismo o volontà di vuota estetizzazione, la scelta di Greenaway di suddividere lo schermo in due o addirittura tre parti: rendere esplicito – e dunque, poiché è di cinema che stiamo parlano, visibile – il principio operativo del montaggio. Un montaggio che fa precedere la funzione del racconto da quella ben più complicata della significazione.
Se accuse di formalismo si può pensare di rivolgere a Greenaway e alla sua messa in scena dell’epopea messicana di Ejzenštejn, queste non possono far a meno di rievocare il tenore dei rimproveri che proprio a proprio a Ejzenštejn furono indirizzati, almeno dalla realizzazione di Ottobre in poi. In simili accuse, il grande regista russo trovò però l’occasione per valutare i limiti di quella idea di montaggio che aveva definito “intellettuale” e per tornare a riflettere, dai primi anni Trenta in avanti, su di essa e sulla possibilità di una sua ridefinizione.
Se è vero, infatti, che il montaggio è, tanto nella pratica, quanto nella teoria ejzenštejniana, il nome di un principio vitale, oltre che estetico, il pericolo che si nascondeva dietro l’eccesso di formalismo che il montaggio “intellettuale” portava con sé (e che fu lo stesso Ejzenštejn autocriticamente a riconoscere) consisteva proprio in una progressiva incapacità di presa su quella materia caotica e disordinata che è la vita. Cosa che, fra l’altro, avrebbe segnato, di lì a qualche anno, il definitivo tradimento delle istanze, politiche e non solo, della rivoluzione, nella direzione della costruzione di un canone (che porta il nome di realismo socialista) a cui affidare valori ed esigenze espressive di un ordine ormai ristabilito.
Il tutto per ritornare a raccontare storie il più possibile vicine a quelle di eroi comuni, come accede per esempio nel caso di Čapaev, protagonista dell’omonimo film dei fratelli Vasiliev (1934), manifesto indiscusso di una nuova cinematografia, nata attorno alla metà degli anni Trenta e ormai lontana dalla forza innovatrice delle avanguardie artistiche del decennio precedente.
Il viaggio in Messico offre a Ejzenštejn – come è egli stesso a sostenere in un paragrafo della sua ultima, incompiuta opera teorica, Metod – l’occasione per uscire da una crisi insieme personale e professionale. L’uscita da quella crisi ribadisce in Ejzenštejn la necessità dell’adesione a un principio rivoluzionario, nascosto dietro il nome più volte invocato di Lenin, che finisce per corrispondere alla volontà di dar risposta agli impulsi vitali meno elaborati, quelli in cui si mescolano emozioni e corporeità.
Rimanere fedele alle istanze della Rivoluzione, significa per Ejzenštejn (questa la tesi di Greenway) compiere la propria rivoluzione personale, quella che lo conduce alla scoperta dell’omosessualità (mi fa piacere ricordare che il film ha aperto, in anteprima nazionale, l’edizione 2015 del Sicilia Queer Festival, tenutosi a Palermo dal 24 al 31 maggio scorso), dell’erotismo e della forza creativa dei corpi. I disegni messicani di Ejzenštejn, presenti in versione animata nel film di Greenaway, sono forse la conferma più evidente e pregnante di tutto ciò.
Ma, come si diceva, vita e arte non sono mai realmente distinguibili nella biografia di Ejzenštejn (meno che mai nella pagina messicana), non tanto o non solo nel senso di un’esistenza dedicata alla produzione artistica (vale la pena notare che Stanislavkij aveva intitolato la propria biografia La mia vita nell’arte), quanto nella direzione della messa in evidenza di una profonda appartenenza dell’arte stessa alla magmaticità e irruenza della vita (La mia arte nella vita, è il sottotitolo che significativamente Ejzenštejn utilizza a presentazione delle proprie Memorie).
Così, sta già nella potenza espressiva di due corpi intrecciati – quelli del regista e del suo amante messicano nel film di Greenaway, quelli delle figure di molti disegni ejzenštejniani dello stesso periodo – il nucleo essenziale di una nuova idea di montaggio attorno a cui Ejzenštejn comincia a lavorare, proprio quando gira il suo film sul Messico, Que viva Mequico!.
Esperienza che si rivela tanto più significativa e drammatica, se si considera che il regista non riuscì mai, per ragioni prima di tutto economiche e politiche, a montare il film a cui avrebbe affidato simbolicamente il testimone della sua personale rivoluzione.
Secondo un riconoscibile schema chiasmatico, l’opera d’arte che fonda sul montaggio la propria efficacia (si legga qui con efficacia la capacità dell’opera stessa di far presa sul proprio spettatore) deve saper attivare, nello stesso momento, un doppio movimento, verso gli strati più bassi e nascosti della coscienza – quel pensiero che, sulla scorta soprattutto dello studio dell’antropologia di Levy-Bruhl, Ejzenštejn definisce sensuoso, un pensiero incarnato, si potrebbe dire altrimenti – e verso gli strati più alti, quelli della logica e della ragione. Una radicale, rivoluzionaria, inversione di tendenza rispetto alla prima idea di montaggio intellettuale, al quale Ejzenštejn, solo qualche anno prima del suo viaggio in Messico, aveva associato la possibilità di creazione di un pensiero ancora tutto dentro la forma del concetto.
Se il cinema rimane ostinatamente, nell’opera di Ejzenštejn, fonte di produzione e creazione di pensiero, esso cambia senz’altro di segno in seguito ad un viaggio (che ha nella biografica del regista il valore di una vera e propria rivoluzione) e alla conoscenza delle culture primitive, di cui il Messico anni Trenta mostrava ancora riconoscibilissime le fattezze, impresse nei volti e nei gesti degli indigeni di cui l’artista letteralmente non può che innamorarsi.
Un pensiero che trova espressione attraverso il linguaggio di corpi che diventano la materia del cinema ejzenštejniano, la garanzia di un ritorno, forse addirittura di una prima scoperta, a quel disordine che corrisponde alla vita e a cui il montaggio può tentare di dare solo provvisoriamente una forma. Il carattere di organicità, che Ejzenštejn attribuisce all’opera d’arte nella fase più matura della sua produzione, non è che il nome di questa vitalità che significa crescita, modificazione, riformulazione o, il che è lo stesso, rivoluzione “permanente”.
Chiunque voglia rispondere alla domanda da cui siamo partiti deve sapere che tale ripensamento in termini vitalistici dei principi rivoluzionari (che è poi la dimostrazione più evidente di una fedeltà immutata alle istanze dell’Ottobre) prende avvio in Messico, là dove Ejzenštejn può rovesciare l’immagine di sé e quella del proprio cinema. Il film di Peter Greenaway lo dice con forza e persuasività. Solo mostrando due corpi che si scoprono, si incrociano, si amano.[I disegni che accompagnano il post sono stati realizzati da Ejzenštejn durante il suo viaggio in Messico e appartengono alla serie Duncan’s death]