#Basaglia180X40: Che cos’è la psichiatria?

Pubblichiamo un estratto dal testo “Che cos’è la psichiatria?” a cura di Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia, riedito in questi giorni da Baldini+Castoldi.

La prima edizione del testo del ’67, ad opera dell’amministrazione provinciale di Parma, portava in copertina l’autoritratto di Hugo Pratt con addosso una camicia di forza. Il testo verrà poi pubblicato da Einaudi nel ’73. Tra le altre, una delle note rilevanti di Che cos’è la psichiatria è la pubblicazione, in anteprima sull’uscita italiana completa, di un capitolo di Asylum di Goffman con commento di Franca Ongaro Basaglia. Sarà la stessa Ongaro Basaglia a tradurre l’intero testo pubblicato da Einaudi nel ’68.

Che cos’è la psichiatria?” è un testo che, a fronte dell’impatto doloroso con l’abominevole realtà manicomiale, nasce dalla necessità di porsi una domanda per mettere in discussione un sistema di certezze che fino ad ora erano state date per scontate: quello dell’esistenza di un’istituzione totale, legittimata da un pensiero scientifico che aveva fondato la sua certezza sull’abuso del potere. Punto di partenza dunque per il percorso di smantellamento che costituirà l’impresa di una vita. La forma del testo è già traduzione della forma dell’esperienza: partecipata, a più voci, attraversata da più soggettività: degenti, infermieri, psichiatri. Gorizia è un’esperienza indedita anche perché cerca alleati fuori dall’ambito disciplinare. È una prima riflessione sul potere mentre si sgretolano linguaggio, mura, protocolli, mentre si liberano, dolorosamente, i corpi. 

Questo contributo rientra nel progetto di approfondimento #Basaglia180X40 realizzato in occasione dei 40 anni della Legge180 e che proseguirà fino alla metà di giugno attraverso la pubblicazione di estratti, riflessioni e segnalazioni.

Estratto dal Cap. “Commento a E. Goffman – La Carriera del malato mentale”

L’analisi della «carriera morale» del malato mentale è infatti l’analisi del graduale processo di esclusione di cui è oggetto dal momento nel quale viene individuato come malato. Un tale processo si muove a più livelli, costantemente interagenti fra di loro, causa e nello stesso tempo effetto l’uno dell’altro: l’esclusione che il malato fa del reale e l’esclusione che il reale fa ai danni del malato. Il retrocedere del reale agli occhi del paziente psichiatrico è, infatti, confermato dal restringimento dello spazio vitale che gli viene concesso, tanto che alla fine di un simile processo – di fronte al malato istituzionalizzato dei ricoveri psichiatrici – non si è in grado di riconoscere fino a qual punto abbia agito la malattia o la realtà dell’internamento. Che il malato mentale sia soprattutto un escluso è del resto confermato dalla motivazione originaria alla sua reclusione: «Pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo». Così viene definito al momento del suo ingresso in ospedale, non tenendo evidentemente conto del suo essere un soggetto che soffre di una particolare malattia, ma solo del fatto di essere la personalizzazione oggettuale di ciò di cui la società ha paura. Un giudizio tanto relativo che, implicitamente, riconosce l’impotenza dello psichiatra di fronte alla malattia mentale nel suo definirla «incomprensibile» e quindi «pericolosa», ha tuttavia portato a conclusioni tanto assolute come quelle che, dalla definizione di «pericolosità» del malato, sono venute a determinare la natura dello spazio in cui doveva essere circoscritto. Ciò perché l’incertezza dello psichiatra veniva a coincidere con il bisogno della società di accantonare in qualche modo il problema che non era in grado di aff rontare direttamente.

«Di fronte alle sue paure e alla necessità di assumersi le proprie responsabilità, l’uomo tende ad oggettivare nell’altro la parte di sé che non sa dominare: ad escludere l’altro che ha in sé come sua contingenza. È un modo di negarla in sé, negando l’altro; di allontanarla, escludendo i gruppi in cui è stata aggettivata… è la scelta di un mondo manicheo dove la parte del male è sempre recitata dall’altro, appunto dall’escluso; dove solo in questo escludere aff ermo la mia forza e mi diff erenzio» (F. Basaglia e F. Ongaro Basaglia, Un problema di psichiatria istituzionale, in «Riv. sper. di fren.», vol. XC, fasc. 6, 1966).

Questo concetto dell’esclusione come proiezione ed oggettivazione nell’altro di ciò che si rifiuta in sé, è fondamentale nella comprensione della carriera del malato mentale. L’istituzione è stata creata, infatti, essenzialmente a tutela dei sani, quindi con l’evidente finalità di accogliere – in una dimensione costruita per loro – gli esclusi dalla società che, nel momento in cui isola in uno spazio concreto le proprie contraddizioni, può continuare ad illudersi di essere al sicuro. Ciò però le richiede di erigere contro i suoi stessi membri e quindi nel suo stesso seno, barriere che siano in grado di proteggerla da quella realtà che continua a negare, altrimenti essa potrà minare la solidità del sistema su cui poggia. La storia della psichiatria ne fa, del resto, testimonianza come, in altro campo, sono testimonianza di questo stesso tipo di esclusione gli esempi più recenti e clamorosi dei campi di eliminazione nazisti o la condizione dei colonizzati. L’analisi di Goffman del ricoverato negli ospedali psichiatrici o quella di Franz Fanon sulla condizione del negro, o quella ancora, di Primo Levi sul prigioniero dei campi di eliminazione nazisti, parlano tutte lo stesso linguaggio perché si riferiscono tutte allo stesso fenomeno.

Quando Goffman dice: «La carriera del predegente può essere ritenuta un modello di esclusione: egli si presenta come un uomo dotato di diritti e di legami con il mondo, di cui, già all’inizio del suo soggiorno in ospedale, non rivela quasi più traccia». Primo Levi risponde: «Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente a chi ha perso tutto di perdere se stesso» (Se questo è un uomo, De Silva, Torino 1947). Franz Fanon incalza: «È il colono ad aver fatto e a continuare a fare il colonizzato… fin dalla nascita è chiaro per lui che quel mondo ristretto, cosparso di divieti, non può essere ripreso in esame se non attraverso la violenza assoluta… il mondo coloniale è un mondo a scomparti… l’indigeno è un essere chiuso in un recinto, l’apartheid non è che una modalità della divisione in scomparti del mondo coloniale» (I dannati della terra, trad. di Cignetti, Einaudi, Torino 1962). Prescindendo dalla malattia in sé, è evidente che si tratta qui del medesimo fenomeno di esclusione; il che significa che quando si parla della condizione asilare del malato mentale, la malattia si trova ad avere un valore puramente accessorio nel processo di ciò che Primo Levi chiama la «demolizione» dell’uomo e D. Vail (Dehumanization and the Institutional Career, Charles e Thomas Publishers, Springfi eld [Ill.] 1966) la «disumanizzazione» cui si assiste.

In questo senso la presa di coscienza, da parte dell’escluso, del suo essere stato rifiutato da una società che ha visto nei sintomi di cui soffriva (o nel colore della pelle) solo la pericolosità per sé, può risultare il punto di partenza per la comprensione da parte del malato (così come del colonizzato e del prigioniero) del suo ruolo reale, che gli appare per la prima volta libero da ogni signifi cato di malattia (o di inferiorità). Questa presa di coscienza del reale, del proprio ruolo di escluso, può essere l’avvio ad una presa di coscienza da parte del malato nei confronti della malattia stessa, dato che in questa sua opposizione o contestazione all’esclusione, egli va acquistando un graduale rafforzamento dell’io la cui demolizione era stata attuata dal processo di istituzionalizzazione.

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