«Io, per ora, distillo»

Breve recensione del “Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile”, opera incompleta di Alice Ceresa uscita postuma per Nottetempo (2007), a cura di Tatiana Crivelli e con una postfazione di Jaqueline Risset.

Ad Alice Ceresa, nata in Svizzera nel 1923, la famiglia patriarcale stava molto stretta. Talmente stretta che decise di abbandonarla all’età di sedici anni. Ma di quell’istituzione, e delle implicazioni che essa aveva sul ruolo della donna nella società, non smise di scrivere per tutta la vita, pur pubblicando pochissimo. Trasferitasi a Roma nel 1950, Alice Ceresa divenne giornalista, traduttrice e collaboratrice di Longanesi, ed entrò a far parte del Gruppo ’63. Per avere un quadro della sua storia di donna e intellettuale, senza conoscere la quale è difficile capire l’idea alla base del suo progetto di dizionario, è molto utile e preziosa la voce a lei dedicata sull’Enciclopedia delle donne, ad opera di Patrizia Zappa Mulas.

Il piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile è il risultato della raccolta e della sistemazione di un corpus custodito dall’Archivio Svizzero di Letteratura di Berna al quale l’autrice aveva cominciato a lavorare fin dai primi anni Settanta, ma che non considerò mai pronto per la pubblicazione.  Del resto Alice Ceresa sosteneva che la scrittura lineare, in particolare il romanzo, risultasse per lei particolarmente problematica in quanto inadeguata alla modalità di espressione femminile, che si adatta a fatica a una scrittura «organizzata banalmente come la banale vita che ci hanno fatta»: per questo lei preferiva «distillare». Il suo progetto, considerato una necessità più che un’ambizione, era quello di scandagliare nella sua interezza l’«albero della disuguaglianza» – culturale – tra maschile e femminile a partire dalle foglie, le più visibili, con l’obiettivo  di arrivare fino alle radici attraverso un’analisi sempre più profonda delle implicazioni e dei rimandi interni delle singole voci. Solo così il suo contributo intellettuale alla lotta femminista poteva trovare un’utilità, non solo teorica.

Adesso ti spiego come la vedo io: per me l'”inuguaglianza femminile” non è fatta dei temi delle rivendicazioni, ma è ancorata nella intera visione del mondo; ergo, se io faccio un dizionario (che comprende le parole dello scibile), devo fare il giro anzitutto delle radici di quest’albero dell’inuguaglianza. Anzi, ti dirò che la mancanza di questo giro d’orizzonte è la maggiore debolezza delle femministe anche se capisco che chi si batte (fortunatamente per noi tutte) nelle strade non può avere di queste preoccupazioni. Io però le posso avere, anzi, direi che debbo (Lettera a Michèle Causse, 8 maggio 1976, p. 13)

Malgrado il proposito enciclopedico iniziale, Ceresa non riuscirà mai a concludere il suo progetto, e forse per farlo non sarebbe bastata una vita intera. Il continuo lavoro di cesellatura cui sottoponeva i suoi scritti, tanto maggiore per quest’opera, e la reticenza a considerare degno di pubblicazione il suo materiale ci consegnano una quarantina di lemmi che vanno da Anima a Vita, passando per Coscienza, Lavoro, Letteratura, Pornografia, Religione. Il piacere non può certo derivare, dunque, dalla sensazione di avere finalmente una tassonomia completa e organica della disuguaglianza femminile, sensazione che è anzi continuamente frustrata nell’attraversamento di questo glossario lacunoso, disorganico. Esso proviene semmai dalla lingua della Ceresa, che lei stessa definisce «difficile»: tagliente, mai prolissa, sostenuta da un dubbio e da uno spirito critico radicali, a partire dalla messa in discussione delle stesse categorie di “maschile” e “femminile”, resa vivida dalle allegorie (la Biologia, la Letteratura), efficace, ironica. Efficace proprio perché ironica, parodia di un linguaggio giuridico che ne mette in risalto l’assurdità, che è poi l’assurdità della norma in quanto tale. Come nella definizione della Chiesa cattolica, «l’amministratrice del peccato originale, e ciò ne spiega sia la pretesa di universalità che la misoginia di fatto, dato che tale peccato è universalmente diffuso e che alloggia nella donna» (p. 30);  della Donna «non è quindi una femmina ma un prodotto culturale. Nessuno sa come e che cosa sarebbe la femmina umana se non avesse dovuto già in tempi lontani abbandonare la naturale identificazione biologica per la naturale assunzione di un vuoto involucro concettuale quale è appunto il temine di donna» (p. 39), o della Moda femminile, secondo la quale «le donne sono sempre state dotate di una non comune resistenza fisica, indifferenti alle temperature esterne, ai maltrattamenti e alle torture, così rivelando tempre e costituzioni eccezionali di contro alle gracilità e fragilità maschili» (p. 68).

Nell’appendice al testo compaiono cinque delle sette voci che l’autrice aveva contrassegnato con la dicitura «eliminabili». La scelta di pubblicarle comunque, motivata dalla curatrice, è una scelta felice: qui si trovano alcune delle righe più brillanti del vocabolario, oltre che definizioni imprescindibili data la materia affrontata: Aborto, Adamo, Amore, Religione, Uomo. 

Aborto: […] Come ogni regolamentazione esulante dalle leggi della natura, anche quella della riproduttività umana riveste necessariamente un carattere amministrativo in quanto affidata alla legiferazione sociale. Appare logicamente corretto che, trovandoci nella fattispecie di fronte a una produzione, l’amministratività si sia esercitata sul fornitore effettivo del prodotto, vale a dire sull’organismo biologico femminile, nei riguardi del quale si è per semplicità risaliti anche a monte ponendo limitazioni alla permissività della copulazione femminile perlomeno nella prassi, nonché discesi a valle per quanto riguarda l’aborto […] (p- 104).

Adamo: […] Sembra generalmente indiscusso che Adamo fosse stato creato da Dio per godere del mondo, e dalla sua venticinquesima costola lo stesso Dio trasse Eva. Poiché il corpo umano dispone di 24 costole (toltane Eva), si deve ragionevolmente supporre che dal corpo di Adamo sarebbe stato possibile trarre 24 Eva. A questo modello si devono attribuire i vari sviluppi nel campo monogamico e poligamico che il modello ha assunto, senza tuttavia che tali sviluppi mai contrastino con il modello, limitandosi così sempre a varianti contenute nel modello stesso. Il più fedele alla lettera divina tuttavia può essere considerato il modello cristiano che rende monogamo l’uomo potenzialmente poligamo, e le varie istituzionalizzazioni del modello, di cui le più importanti sono il matrimonio monogamico (una costola istituzionalizzata) e la disponibilità di altre costole (prostituzione, gallismo, dongiovannismo, ecc.) (pp. 105-106)

Amore: trattasi contemporaneamente di un sentimento e di un istinto. […] Un’antica credenza faceva risiedere tale sentimento nel cuore, l’istinto invece negli organi genitali. Da quando però è stato dimostrato che il cuore è semplicemente una pompa e che gli organi genitali possono essere usati senza servire alla riproduzione, gli scienziati stanno cercando una nuova sede a tale trasporto dell’anima e dei sensi. […] Voci attendibili propendono per la scelta del fegato (pp. 107-108).

Il femminile descritto dalla Ceresa è sempre frutto di una presa di distanza: definito per difetto, prodotto residuale di tutto ciò che non è maschile, si presenta ovunque come scarto, marginalità, differenziazione, deviazione dalla norma, disuguaglianza. Ed è proprio questo aspetto che l’autrice vuole mettere in luce: l’infinita serie di paradossi cui dà luogo lo sconfinamento delle leggi artificiali nelle leggi naturali, e come le prime ergano a regola una serie di apparati discorsivi assolutamente maschili che pretendono di fondarsi sulle seconde.

Non vorrei che la somma tutto sommato finita delle “rivendicazioni femminili” finisca con un’altra fregatura che sarebbe molto peggiore della prima. Conclusione: il piccolo dizionario io non lo scrivo per le donne; lo scrivo perché va scritto. E siccome io scrivo difficile, ebbene, sarà difficile; non mi risulta che le cose (e neanche quelle da capire) siano facili. Se poi non mi vogliono leggere, ne fanno a meno. Di chi devo avere pietà? E in nome di che cosa, della stupidità? Abbasso la stupidità. Tanto, vedrai come andrà a finire: che ci permetteranno di “ottenere” certe cosette (che fanno comodo anche a loro); ma guai a chi tocca alle sante istituzioni (di cui fanno parte anche la biologia e la morale). Vedrai se non è così! E allora vorrà dire che ho ragione io. Non ti pare? (Lettera a Michèle Causse, 8 maggio 1976, p. 14)

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