La memoria dei disastri attraverso il popolare.
Il testo seguente è la versione italiana inedita della prima parte dell’introduzione — edita in inglese — del volume collettaneo Disasters in popular cultures. Il libro, curato da Giovanni Gugg, Elisabetta Dall’Ò, e Domenica Borriello, è stato pubblicato nel 2019 dalla casa editrice Il Sileno Edizioni, all’interno della collana Geographies of the Anthropocene (vol. 2, n. 1) ed è scaricabile gratuitamente in formato ebook. La seconda parte verrà pubblicata il 18 Ottobre, sempre su queste pagine.
Il variegato, multiforme e sterminato patrimonio letterario popolare, scritto e orale, è il mezzo attraverso il quale la parola mette in scena i desideri e le passioni umane (Valière 2006). Nonostante ciò, dice Italo Calvino, le fiabe e le leggende sono tutte «vere», perché «sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna» (Calvino 1956, XI).
Lungi dall’essere invenzioni scollegate dalla realtà, pertanto, le opere della letteratura popolare rappresentano il caleidoscopio di un certo modo di stare al mondo, di guardare al territorio, di relazionarsi alla natura, di affrontare la vita e la morte. In questo senso non sono “storie del passato”, bensì specifiche modalità con cui la memoria collettiva seleziona e tramanda ciò che vale la pena essere ricordato.
In questo modo diviene possibile raccontare, rendere visibili gli aspetti più inquietanti ed inafferrabili della realtà [perché] il mito, le leggende, le favole non dicono qualcosa ma parlano attraverso qualcosa: sono racconti che hanno una funzione pedagogica e di interpretazione dei luoghi, come nel caso delle “sirene”, identificate con determinati scogli, che indicano la pericolosità di certi fondali o di specifiche correnti marine; una “carpa gigante” che ricorda ai giapponesi la sismicità del loro arcipelago, e un “drago” che per secoli ha rappresentato sulle Alpi la minaccia dell’avanzata glaciale; o ancora il “pifferaio” che, invece, funge da allegoria della possibile drammatica epidemia (o frana) ad Hamelin. ( Niola 1990)
Nella loro gran varietà tra favole, novelle, storielle, leggende, racconti e proverbi, questi tipi di produzioni culturali sono estremamente compositi, poiché comprendono argomenti religiosi, miti di fondazione, tratti del carattere degli animali, spiegazioni dello spazio, origini di determinati luoghi, specie quelli sacri e di culto, fino a narrazioni di personaggi storici o di diavoli e di altre figure del meraviglioso, tesori nascosti e leggende metropolitane, con le loro ulteriori innumerevoli varianti. Fin dagli albori degli studi etnografici su questi temi, sono state compiute laboriose classificazioni suddivise per tipi e generi, e articolate su diverse scale: locali, regionali, nazionali e internazionali (Thompson 1955-58; Aarne & Thompson 1964), così come molteplici sono gli aspetti indagati relativi al “senso” e alle modalità di trasmissione dei racconti orali e delle loro varianti collegate alle forme della comunicazione collettiva.
Col passare delle generazioni, precisa a riguardo Walter J. Ong, diviene importante, nel processo di trasmissione orale, l’esperienza vissuta del presente affinché il racconto orale possa conservare un “senso” e non svanire. La mentalità orale infatti fa sì che nella trasmissione generazionale sia conservata una struttura di base del racconto ma rimodellata, ossia adeguata alle esigenze del presente a scapito di altri aspetti della narrazione dimenticati perché ormai privi di un valore attuale (Ong 1986). Le differenti modalità di trasmissione del patrimonio orale tradizionale – e non – fanno riflettere anche sul valore documentario che tale patrimonio può assumere nei processi di comunicazione e di divulgazione dei saperi, soprattutto se esso viene integrato da altre fonti documentarie come quelle iconografiche in stretta relazione con i “saperi” della letteratura popolare (Borriello 2006).
Il libro Disasters in popular cultures raccoglie contributi che, indagando la letteratura popolare nel suo senso più ampio (ecco il perché del plurale di “popular cultures”), si focalizzano sulle narrazioni riconducibili al rischio e ai disastri (“naturali”, “tecnologici”, “sanitari”, “ecologici”), così come declinati nell’immaginario collettivo, dalle epoche più remote all’attualità più stringente. Il volume rappresenta un tassello nella ricostruzione delle risorse culturali che, a livello internazionale, hanno permesso di far fronte e gestire i problemi e le inquietudini materiali e spirituali derivanti dalle catastrofi.
Considerando l’eterogeneità delle fonti, dei casi, delle provenienze, delle epoche e delle modalità narrative, il volume è da considerarsi un lavoro interdisciplinare che, attraverso dei case-studies altamente significativi, analizza i modi di rappresentazione del disastro in un vasto corpus di testi “popolari”, raccolti in archivio o etnograficamente, ma tutti ricollegabili a delle calamità naturali, delle epidemie e degli eventi disastrosi connessi a guerre, invasioni e rivolgimenti politici. In questo senso, la dimensione emotiva e privata della catastrofe, le superstizioni e le figure fantastiche che sovente popolano fiabe e leggende assumono una veste inedita e sorprendentemente “razionale”. Pur riconoscendo l’importanza dello studio sistematico e formale del vasto e variegato settore della letteratura popolare, scritta e orale, è altrettanto importante evidenziare la grande fluidità dei suoi caratteri, dacché questo libro poggia su una consapevole e ricercata con-fusione dei generi narrativi, al fine di mostrare che dietro la molteplicità può essere individuata una strategia comune (Della Bernardina 1997).
Le tradizioni orali mutano nei secoli e, anzi, la tradizione orale e quella scritta sono fuse da sempre in un unico modo di comunicazione (Schenda 1986). Mettendo dunque in discussione la gerarchia di valori tra i generi – si tratti di una favola, di un indovinello o di una barzelletta – il volume forza le barriere tipologiche che separano tra loro mito e leggenda, saga ed epopea, modo di dire e cospirazione, al fine di riportare l’insieme di tali narrazioni ad una funzione antropologica generale, attraversata da un ampio panorama delle scienze sociali.
La struttura di ogni narrazione è alquanto stabile, tuttavia è anche sufficientemente duttile da adattarsi a declinazioni plurime. Ogni racconto accoglie in sé almeno tre nozioni: da un lato la storia narrata (il cosa), dall’altro l’enunciazione della stessa storia (il come), quindi la narrazione, intesa come atto narrativo, dunque come situazione reale – o fittizia – in cui si colloca (il quando) (Ferraiuolo 1997: 33). Gli usi del racconto possono essere innumerevoli: può talvolta apparire come un avatar potenziale di elementi di controcultura, altre come una celebrazione della marginalità, altre ancora come una rappresentazione della condizione infantile, o di quella della povertà e, infine, come un modo per narrare la dipendenza degli schiavi, o la diffidenza verso gli stranieri, o ancora la subalternità della donna o di una minoranza. Sempre, comunque, si tratta di una forma di legame intergenerazionale (Valière 2006: 127-129). Nel caso di una catastrofe, quel che viene tramandato di generazione in generazione è una specifica selezione della memoria di ciò che è accaduto, cioè della “salvezza” nonostante le distruzioni, e della continuità della comunità nonostante la frattura apportata dalla calamità. In questo senso, la letteratura orale/popolare funge da “memoria dell’esperienza vissuta”, ossia trasmette un racconto del presente che si misura giorno dopo giorno con forme di precarietà esistenziale, in una visione del rischio – personale e collettivo – che è concepito ormai come uno stato perenne in cui riversa la società (Gugg 2017).
Eloquente, a questo proposito, è il caso analizzato da Paolo Apolito all’indomani del terremoto che colpì la Campania e la Basilicata il 23 novembre 1980. Dopo un paio di mesi dal disastro, a metà del gennaio del 1981, per tutte le aree interessate dal sisma andò rapidamente diffondendosi “il racconto della Vecchia”:
Questo era piuttosto scarno, con alcune varianti marginali, interamente orientato al pathos della profezia: una Vecchia (raro un Vecchio) fermava un’auto per strada, chiedeva un passaggio e l’otteneva. Nel viaggio invitava a non lamentarsi e piangere per il 23 novembre perché era ben poco quello che era successo. Vi sarebbe stato un prossimo cataclisma ben più distruttivo. Subito dopo chiedeva di scendere e andava via (Apolito 1983: 123).
In effetti, per quanto riguarda le scosse di assestamento, il 14 febbraio se ne verificò una più forte, ma molto breve e quindi non distruttiva, tuttavia sufficiente per dare nuova linfa alla narrazione che, così, si diffuse a grande velocità. Con le settimane le oscillazioni del suolo andarono scemando e, parimenti, si sentì sempre meno parlare anche della Vecchia. A distanza di alcuni mesi, però, verso la fine di ottobre e l’inizio di novembre, con l’avvicinarsi del primo anniversario del sisma, i mass-media ripresero a parlare delle zone colpite dal terremoto, in un crescendo dell’emozione che, scrive Apolito,«ripeteva in un certo senso un meccanismo rituale arcaico, che per esempio nella lamentazione funebre funzionava perfettamente per distanziare e dividere le epoche del dolore in modo da concentrarlo per sostenerlo meglio» (Apolito 1983: 124).
La rinascita del discorso sul terremoto, intorno all’anniversario, rilanciava le ansie sopite per un anno o poco meno e, proprio come nella lamentazione funebre, richiedeva un nuovo lavoro di rassicurazione. A quel punto si diffuse – a velocità ancora maggiore – un nuovo racconto, che stavolta riguardava un Bambino, nato in un paese dell’area, che «parlava immediatamente prevedendo la data di una scossa catastrofica, invitava a non piangere per la sua morte e subito dopo moriva» (Apolito 1983: 124).
Sebbene possa sembrare paradossale, in queste profezie che annunciano l’avvento di un terremoto ancor più rovinoso è possibile scorgere una forma di “rassicurazione” poiché si è realizzato il recupero della capacità autoctona di previsione, in opposizione alle previsioni scientifiche diffuse dai media nelle prime settimane del dopo-terremoto e in occasione del primo anniversario. Apolito osserva che
la profezia era una conferma dell’esserci, dell’essere presenti ad una cultura, contro le spinte disgregatrici delle prime settimane, che, come in tutti i momenti di sconvolgimenti tragici, avevano fatto dubitare della stessa possibilità di rimanere […]. La profezia della prossima data della forte scossa spostava nel tempo l’irruzione della natura e dunque la culturalizzava, la domava nei termini delle difese culturali (Apolito 1983: 125, 126).
In altre parole, lo spostamento della paura in una data fissa offriva, da un lato, la possibilità di superare i timori quotidiani e, dall’altro, di attendere l’evento collettivamente e non di viverlo/subirlo individualmente. In maniera simile, la paura – condizione essenziale delle storie del soprannaturale che irrompe nell’ordinario – è l’anello di congiunzione con la realtà, ciò che rende verosimili certe narrazioni, rendendoci accettabile l’evidenza o, per dirlo in modo diverso, permettendoci di integrare il principio di realtà (Carlier 1998: 79). Queste storie vengono prodotte “a cadenza” (Lavinio 1997: 27), cioè in occasioni in cui è opportuno commentare, spiegare, elaborare una determinata situazione venutasi a creare nel contesto, intrecciando scopi educativi o documentari ed informativi. Si tratta di un’esigenza di rassicurazione che è dunque affidata anche alle narrazioni, le quali, svolgendo una funzione di mediazione tra un presente incerto e un passato selezionato ed edulcorato, ma comunque “noto”, si pongono come modalità convenzionali e formalizzate in cui esprimere delle emozioni specifiche di comunicazione e sollievo, di protezione e continuità.
Bibliografia
Aarne, A. & Thompson S. (1964). The types of the folktale: a classification and bibliography. Helsinki. Academia Scientiarum Fennica.
Apolito, P. (1983). La Vecchia e il Bambino del terremoto. In Cultura popolare e cultura di massa, a cura di A. Signorelli, numero monografico di “La ricerca folklorica”, n. 7, Grafo edizioni, pp. 123-127.
Borriello, D. (2006). Leggende di fondazione di area campana, preziosi “documenti” della comunicazione orale e visiva. In “Archivio di Etnografia”, n. 2, pp.27-62.
Calvino, I. (1956). Fiabe italiane. Torino. Einaudi.
Carlier C. (1998). La clef des contes. Parigi. Ellipses.
Della Bernardina, S. (1997). L’effetto delega. Leggenda, ideologia, morale. In Leggende. Riflessioni sull’immaginario, a cura di D. Perco, numero monografico di “La ricerca folklorica”, n. 36, Grafo edizioni, pp. 3-12.
Ferraiuolo, A. (1997). I racconti meravigliosi. In Leggende. Riflessioni sull’immaginario, a cura di D. Perco, numero monografico di “La ricerca folklorica”, n. 36, Grafo edizioni, pp. 33-47.
Gugg, G. (2017). Al di là dello sviluppo, oltre l’emergenza: il caso del rischio Vesuvio. In Territori vulnerabili. Verso una nuova sociologia dei disastri italiana, a cura di A. Mela, S. Mugnano & D. Olori. Milano. Franco Angeli, pp. 87-101.
Lavinio, C. (1997). Le forme della leggenda. In Leggende. Riflessioni sull’immaginario, a cura di D. Perco, numero monografico di “La ricerca folklorica”, n. 36, Grafo edizioni, pp. 25-32.
Niola, M. (1990). Il Capotopo e altre storie. Leggende urbane metropolitane. Cercola. Grafitalia.
Ong, W. J. (1986). Oralità e scrittura. Bologna. Il Mulino.
Schenda, R. (1986). Folklore e letteratura popolare. Italia, Germania, Francia. Roma. Istituto della enciclopedia italiana.
Thompson, S. (1955-58). Motif-index of Folk-Literature: a classification of narrative elements in folktales, ballades, myths, fables, mediaeval romances, exempla, fabliaux, jest-books and local legends. Copenhagen. Rosenkilde and Bagger.
Valière, M. (2006). Le conte populaire. Approche socio-anthropologique. Parigi. Armand Colin.