Celestini e la parola totale

di Pamela Pifferi

Ascanio Celestini

Ascanio Celestini è uno dei protagonisti dell’ottava edizione di Voci di Fonte con lo spettacolo Fabbrica, andato in scena giovedì 23 giugno, e col film La pecora nera, il 24 nell’Aula Meeting del Collegio Santa Chiara. La ricerca artistica e tematica di Celestini è in linea coll’intento degli organizzatori del festival, che con gli eventi in cartellone hanno voluto portare all’attenzione del pubblico le questioni di creolizzazione culturale ed artistica, di lavoro e precariato intellettuale. Non solo teatro, ma anche fotografia, cinema e musica.

Da un lato dunque Fabbrica, che, come in Creole Performance Cycle, affronta il problema dell’alienazione del lavoro ed è costruito sulla base dei racconti degli operai: esperienze diverse tradotte e riproposte dall’attore sul palco. Dall’altro La pecora nera, film uscito nel 2010 e che si collega al discorso iniziato da Voci di Fonte il 19 di giugno con lo spettacolo Silenzio della Compagnia dei Girasoli, performance realizzata da operatori dei servizi psichiatrici.

L’attore romano fa parte della cosiddetta seconda generazione del teatro di narrazione italiano, ovvero di quel gruppo di artisti che, sulla scia di Dario Fo e Carmelo Bene, si affida al monologo e al racconto, liberando lo spettacolo da scenografie, costumi ed altri attori. Al palcoscenico è sottratta la quarta parete, l’attore guarda negli occhi il pubblico e si rivolge a lui mettendo in causa la contemporaneità politica, sociale e intellettuale.

Il primo spettacolo che Celestini mise in scena, insieme a Gaetano Ventriglia nel 1998, fu Cicoria. In fondo al Mondo, Pasolini, un testo che da subito svelava la tendenza del “narrattore” a raccontare le vite dei “poveri cristi” attraverso le storie nella Storia: le vicende personali e familiari degli individui che ricordano, amano, si raccontano. La stessa struttura narrativa si ritrova così in tutti i suoi spettacoli: da Scemo di guerra, tratto dai racconti che suo nonno gli faceva quando era ragazzino sulla Seconda Guerra Mondiale, a Fila Indiana, ultimo decoupage di racconti sul lavoro e il razzismo, i cui contenuti si arricchiscono ad ogni rappresentazione.

Si delinea così la specificità di Celestini affabulatore: la sua è una costante ricerca sul campo, i suoi lavori si costruiscono a partire da interviste e testimonianze, il suo teatro dà letteralmente voce alla gente. La parola è allora il tramite tra il pubblico ed i protagonisti, il suo è un linguaggio semplice, fatto di digressioni ed inserti, sempre ironico e sempre in dialetto romanesco.

La ricerca dell’attore-antropologo dunque non è mai dichiaratamente formale, ma sempre rivolta all’attualità contenutistica di temi come il precariato, il lavoro, l’integrazione, in un teatro che si fa civile e popolare. Questa attualità è messa in forma dall’attore attraverso l’utilizzo della memoria, che viene rielaborata e resa presente dal suo lavoro.

Ricerca sul campo e memoria messa al presente, costituiscono il fondamento del suo racconto, la specificità scenica di Ascanio Celestini narratore.

Questo cardine della poetica celestiniana, è probabilmente il motivo per cui l’attore riesce ad utilizzare con successo tutti i media, nei quali la voce monologante rimane sempre il centro dello spettacolo. Celestini ha lavorato infatti anche in televisione e in radio, ha pubblicato nove libri ed un cd, ha diretto due documentari e un film.

La pecora nera è il film del 2010 di cui Celestini è protagonista, regista e sceneggiatore, tratto dal suo omonimo libro e prima ancora dallo spettacolo del 2005 La pecora nera. Elogio funebre del manicomio elettrico.

Il progetto, partito nel 2003 in collaborazione col Teatro Stabile dell’Umbria, si fonda ancora una volta sulla raccolta delle memorie e sul lavoro a contatto con le persone. Una drammaturgia che mira a riattualizzare i ricordi dei diversi individui, nel presente della collettività.

Così il film, proprio come lo spettacolo teatrale, è la storia di Nicola, un ragazzo che si è fatto 35 anni di manicomio elettrico. È cresciuto in un istituto psichiatrico, il condominio dei santi, il suo unico spazio di “libertà” è un supermercato nel quale va a fare la spesa. Il film allora è diviso in due parti: l’infanzia dei nei favolosi anni sessanta, e l’età adulta fuori dalla realtà sociale.
Nel passaggio dal palco allo schermo, sembra che Celestini non sia stato sopraffatto dalla “preoccupazione di fare cinema” che André Bazin trovava in tanto cinema a lui contemporaneo. Secondo il fondatore dei “Cahiers du Cinéma”, nelle trasposizioni cinematografiche di opere teatrali spesso avviene che il linguaggio cinematografico sia esasperato nelle sue potenzialità, in una sorta di riscatto dell’immaginazione che a teatro si concentra solo sullo spazio centripeto del palcoscenico.

Celestini è riuscito invece a portare la sua poetica personale anche al cinema, evitando di far parlare l’immagine, ma continuando a tenere al centro del discorso le memorie individuali. La vicenda è accompagnata dalla sua voce che si sovrappone all’azione creando una rete di aneddoti ed affetti tanto cara alle sue tecniche affabulatorie.

Il film allora è una traduzione dello spettacolo teatrale ed ha secondo noi il merito, di essere riuscito a mettere sullo schermo non tanto l’elemento drammatico dell’opera, la storia, quanto piuttosto la teatralità del dramma, la specificità scenica propria dell’artista, in un racconto ancora quasi del tutto orale.

Quello che sembrerebbe un limite del Celestini fuori dal palco, acquista in questo senso un valore narrativo, una costante nei suoi lavori che non si limita ad essere cifra stilistica, ma dimostra la sua necessità di narrare e di dar voce alla gente, secondo l’arte drammatica più antica: il racconto orale.

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