SanPa: le catene della colpa

Serialità crime, immaginario nazionale e vita in comune

Le catene della colpa SanPa
Il celebre scatto che mostra l’uso di strumenti di contenzione dentro San Patrignano, fotogramma tratto dalla serie “SanPa: Luci e tenebre di San Patrignano” (2020) prodotta da Netflix

“… Muccioli Vincenzo, del reato di cui gli articoli 112 n.1 e 605/81 del Codice penale, per avere, in concorso materiale e morale, privato della libertà personale, incatenandoli con catene e lucchetti, o rinchiudendoli in luoghi malsani, e ricatturandoli anche con violenza quando riuscivano a scappare, provocando a tutti perturbamenti psichici mediante incatenamento, segregazione in canili o piccionaie, e mortificazione continua della loro personalità”. È il 1983 quando queste parole danno avvio al primo processo a Vincenzo Muccioli e alla sua idea di comunità come recupero, quella San Patrignano dolcemente adagiata sulle colline romagnole, un occhio a Rimini, un altro a San Marino. Rinchiuderlo forzatamente perché forzatamente ha rinchiuso, la carcerazione come contrappasso alla contenzione: nel gioco sbilenco tra l’ottusità della legge e la violenza come pharmakon si svolge l’intera parabola taumaturgica del padre-guaritore dei tossicodipendenti italiani.

Muccioli, “un po’ Guareschi e un po’ Fellini”, personaggio che ha segnato gli anni ’80 italiani già segnati a loro volta da tantissime altre cose e figure che a poco a poco stanno riaffiorando sulla superficie della storia: un personaggio impresso indelebilmente nella memoria di almeno due generazioni, così come repentinamente scomparso dall’immaginario nazionale dopo la sua morte nel 1995. San Patrignano, la sua creatura, un’Utopia in miniatura forgiata a sua immagine e somiglianza (paradossalmente, lui che invece della sua mole smisurata ha fatto forse l’arma più potente e persuasiva della strategia di recupero), inclusa – come noto – in quell’unica, grande chiesa che “parte da Che Guevara e arriva sino a Madre Teresa”.

È tutto questo SanPa: Luci e tenebre di San Patrignano, la docuserie Netflix in cinque episodi scritta da Gianluca Neri, Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli e diretta da Cosima Spender, biografia intrecciata di Vincenzo Muccioli e San Patrignano senza che i confini tra i due siano mai percepibili distintamente. Uscita alla fine del 2020, la serie ne mette in scena i misteri (gli omicidi, i soldi), gli avversari, i sostenitori (Red Ronnie, la famiglia Moratti), nonché i tratti figurativi che più di tutti hanno definito quell’esperienza, dai baffi del fondatore alle catene e le sbarre degli ospiti.

SanPa è diventata immediatamente un oggetto capace di attraversare a ritmo serrato i discorsi social(i), di risvegliare nostalgie canaglie o tragici ricordi, di aggiungere un altro tassello al vivace percorso di ricostruzione del decennio più controverso della storia recente, amato, avversato, odiato, rimpianto, oggi forse rivalutato, di sicuro ancora irrisolto e non pacificato. Costruita attraverso il montaggio di spezzoni d’archivio e interviste al presente, utensili imprescindibili del documentarista contemporaneo, SanPa resuscita e piano piano ravviva un immaginario sbiadito, restituisce colore alla memoria di un’epoca, quella della linea viola della pubblicità progresso sull’AIDS e delle tute di acetato, delle camicie scozzesi a maniche corte in prima serata televisiva e delle immagini in 4:3 che sembrano ormai monche.

Le catene della colpa SanPa
Vincenzo Muccioli insieme ai ragazzi di San Patrignano in una foto d’archivio. ANSA/UFFICIO STAMPA SAN PATRIGNANO

Soprattutto, in quelle immagini d’archivio, sfilano i volti di un passato che ci appare lontano e che tuttavia è ancora presente: le facce di quelle ragazze e di quei ragazzi, familiari eppure distanti, giovani e consapevoli nella grana televisiva dell’epoca, adulti e gravi nelle interviste realizzate nel presente. Forse perché le loro fattezze e i loro modi sono diversi da quelli che ci aspetteremmo se assecondassimo i nostri pregiudizi, o perché il loro linguaggio suona ricco e composto ieri come oggi. Quel mondo che la dipendenza dall’eroina ha ormai ristretto a un buco, nelle parole curate e precise ritrova un’apertura inattesa, una complessità inaspettata. Le loro storie, tutte le storie, anche quelle di cui la serie non dà conto, sono potenzialmente straordinarie: SanPa non è solo Muccioli anche se, come sempre quando l’elemento biografico viene convocato, è Muccioli che rimane.

Se quel passato non è ancora passato, non è solo perché l’eroina non è sparita dalla nostra quotidianità, anche se fatica a raggiungere il primo piano della ribalta a meno che non c’entri un delitto efferato. Ma anche perché quella congiuntura storica, che smargina dal decennio per approdare sino agli albori della Seconda Repubblica, è ancora un oggetto bifronte: ultimo atto del Secolo Breve e primo vagito del Nuovo Millennio, momento di punta della riflessione teorica dei dorati precedenti decenni e inizio tangibile dello svuotamento del pensiero critico, passaggio decisivo della rivoluzione tecno-estetica e crepuscolo irrimediabile di un’arte trasformata in spettacolo. Bifronte come il conflitto ricordato all’inizio, bifronte come il protagonista di questa vicenda, bifronte come la principale istituzione italiana, quella famiglia che San Patrignano prometteva di ridare a chi si accampava di fronte alla sbarra all’ingresso sperando che un posto si liberasse.

Man mano che gli episodi procedono – e la cupezza prende il sopravvento – la famiglia acquista in effetti un ruolo decisivo nella logica narrativa. Famiglia come unità definita e specifica (la famiglia Muccioli, o la famiglia di San Patrignano), ma anche famiglia come concetto, tanto fine (la necessità di ridarne una agli ospiti) quanto mezzo (prototipo ideale di organizzazione comunitaria). Ma proprio nel confronto tra diversi modelli famigliari, quella rappresentazione di una comunità coesa contro le ingerenze esterne vacilla, trascinando con sé anche l’idea di famiglia, sulla cui mancata problematizzazione si sono giocate buona parte delle retoriche di San Patrignano. E non a caso il “duello” finale – quello fra Muccioli e Delogu – ruota proprio attorno all’idea stessa di famiglia, alla sua estensione e alle tattiche di protezione che spettano al capofamiglia. Rimedio e veleno (il pharmakon greco), la famiglia diventa un nucleo di potere invisibile e imperscrutabile retto da un’auto-nomia radicale attraverso la quale si può giustificare, ad esempio, l’occultamento di un omicidio.

Come la famiglia, così per estensione la “cura San Patrignano” assume alla fine compiutamente questo carattere ancipite. Oltre le ricostruzioni storiche, i ricordi fallaci e le posizioni ideologiche, questa ambivalenza è in realtà inscritta dentro la forma governamentale stessa della comunità. Anzi, quello che chiaramente emerge dalla serie è un tragitto foucaultiano nella vita della comunità che dalla disciplina iniziale (la contenzione, le violenze individuali) passa al controllo (la capillarità e la reversibilità delle azioni di sorveglianza) per approdare al pastorato, forma di governo che tiene insieme tanto la lama tagliente della sovranità (il diritto di vita e di morte) quanto le strategie soggettivanti e seduttive del biopotere. “Il mio ruolo in una comunità è quello di un medico che visita un paziente, di un prete che confessa un fedele”, dice Muccioli come estremo tentativo per scongiurare una condanna che, per naturale estensione, sarebbe stata la condanna di San Patrignano. Tentativo che va a buon fine: se si può essere propensi a vedere San Patrignano come laboratorio sociale per le politiche a venire, è nella certificazione dell’efficacia di questa giustificazione di matrice pastorale che probabilmente va ricercato il nucleo decisivo. Da San Patrignano a San Vincenzo: la struttura teologica innerva di senso i gesti e le parole che attorno a questa storia si rincorrono, a partire da quelli del fondatore.

Le catene della colpa SanPa
Vincenzo Muccioli, fotogramma tratto dalla serie “SanPa: Luci e tenebre di San Patrignano” (2020) prodotta da Netflix

Al di là dei pregi e dei difetti della serie e dei risvolti sulla nostra considerazione di quell’esperienza o del nostro passato, vale la pena di vedere SanPa perché ci dice almeno due cose sulla serialità contemporanea. La prima è che il genere crime sta diventando la forma più utilizzata per mettere in scena episodi della storia che fino a poco tempo fa sarebbero stati ricostruiti senza una struttura narrativa così definita. Anticipazioni del delitto, duelli, colpi di scena, climax: SanPa si appoggia su un ampio ventaglio di strategie in questa direzione. Se nella produzione statunitense questo è particolarmente evidente, basti pensare a oggetti come Wormwood (2017), Wild Wild Country (2018) o Tiger King (2020), la televisione italiana è stata però un luogo di sperimentazione che ha ampiamente anticipato questa tendenza: classici come La notte della Repubblica (1989-1990) di Sergio Zavoli o il successivo Blu notte (1998-2012) di Carlo Lucarelli mostrano già come il crime sia una potente cornice ermeneutica per la storia. Se questo è stato possibile, probabilmente è perché le vicende italiane sono costitutivamente sotto il segno del mistero (parola che compare del resto nel sottotitolo di Blu notte), e dunque la loro riproposizione non può che fare i conti con la parzialità che le contraddistingue: il crime come forma del racconto interviene proprio per provare a riempire di senso quei buchi neri che impediscono di avere un’immagine coerente, unitaria e continua del passato della nazione.

La seconda, invece, è che l’indagine che la serialità compie sul reale – passato o presente che sia – si esercita con maggiore profitto quando si può mettere al centro della scena una qualche idea di comunità, e gli esempi prima citati ce lo confermano. Serialità e comunità sono dunque due concetti che traggono forza l’uno dall’altro: anzi, il desiderio di costruzione di comunità utopistiche è forse il vero motore della serialità complessa, quella forma del racconto che – come sostenuto persuasivamente da Jason Mittell – definisce l’orizzonte più tipico dell’audiovisivo del nuovo millennio e di cui Lost (2005-2010), da questo punto di vista, ne è forse il progenitore più illustre. Ma anche questo non deve stupire: la serialità è infatti uno dei momenti estetici che più di altri nel presente riesce a configurare la nostra – di noi spettatori – idea di vita in comune.

Le serie evolvono con noi, ci accompagnano per porzioni più o meno lunghe di esistenza e con noi crescono, raccontando il contemporaneo in presa diretta o riesumando un passato che sempre in qualche modo ci riguarda con una forza immaginifica difficilmente riscontrabile altrove. I prossimi cambiamenti alle forme della comunità e dello stare insieme dovranno moltissimo a questo medium. Anzi, spesso le serie giocano deliberatamente col futuro, provando a intercettarlo e immaginarlo dentro schemi condivisibili, insomma pre-mediandolo. A volte con esiti sconcertanti, anche se magari fortuiti: chi mai avrebbe pensato, ad esempio, di ritrovare il nome di Letizia Moratti al centro delle cronache politiche di questo nuovo anno?

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Vincenzo Muccioli con i ragazzi di San Patrignano, fotogramma tratto dalla serie “SanPa: Luci e tenebre di San Patrignano” (2020) prodotta da Netflix
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