Mondi (in)immaginabili

Come la catastrofe climatica ci impedisce di immaginare il futuro.

catastrofe ambientale futuro
Foto di Nacho Yuchark – lavaca.org

Le comunità umane hanno sempre dato una lettura della loro storia fondata sul concetto di progresso, l’idea di essere dal lato giusto della storia e sul cammino di un futuro più prospero e sicuro, un mondo in cui i figli vivranno meglio dei genitori. Si tratta di una “finzione”, uno dei miti usati per spiegare l’evoluzione umana come lo definisce lo storico Yuval Noah Harari, necessaria per tenere assieme la società e per porre un obiettivo, anche se utopico, comune. Interi progetti politici che hanno caratterizzato e cambiato il mondo nel corso del Novecento si sono basati sulla creazione di un futuro diverso, più prospero del presente: immaginare l’avvenire è da sempre una della attività politiche più impegnative ma anche fertili, la maggior parte delle rivoluzioni sono state guidate da modelli anche solo immaginari di società future più giuste e libere.

Ma cosa succede quando il futuro diventa insicuro e pericoloso? La catastrofe climatica ci pone davanti alla condizione inedita, almeno in tempi recenti, di non riuscire a immaginare un domani migliore e più prospero rispetto al presente.

Questo nuovo modello impone interrogativi cruciali riguardanti il modo in cui siamo capaci di creare comunità con progettualità politica e lascia spazio a una domanda a cui bisogna provare a dare una risposta: è possibile un pensiero della catastrofe, ovvero un futuro senza progresso?

David Wallace-Wells nel suo testo The Uninhabitable Earth riflette, tra le altre cose, sugli scenari inediti che il cambiamento climatico avrà sulla percezione dello scorrere del tempo dell’umanità. Secondo l’autore non sarà necessario aspettare gli scenari più drastici perché cominci a crollare la certezza in un futuro prospero: nel momento in cui cominceranno a muoversi flussi di migranti ancora maggiori rispetto a quelli che vediamo oggi e arriveranno le prime notizie di intere città o piccole nazioni sommerse dalle maree il modello progressivo della storia uscirà definitivamente dall’immaginario collettivo.

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Foto di Nacho Yuchark – lavaca.org

L’incognita riguarda, ancora una volta, ciò che andrà a sostituirlo: infatti non siamo in grado di risalire alla percezione temporale delle piccole società preistoriche antecedenti l’invenzione dell’agricoltura (limite temporale che corrisponde per molti alla nascita del dominio dell’uomo sul mondo naturale e alla sua capacità di costruire e modellare il mondo a suo piacimento). Altri modelli di interpretazione temporale che invece conosciamo perché presenti in altre culture o altre epoche, per esempio la ciclicità della storia, non potrebbero sostituire in toto il modello lineare e progressivo dal momento che l’umanità si confronterà con uno scenario ambientale completamene inedito e ignoto.

Secondo l’autore ci troveremo in una condizione simile a quella degli europei dopo la caduta dell’impero romano o degli egizi dopo l’invasione dei Popoli del Mare: completamente destabilizzati e senza la ben che minima capacità di immaginare un futuro possibile a lungo termine.

Quello a cui si andrà incontro sarà dunque un’incarcerazione del progresso: per la prima volta dopo decenni di crescita e fiducia le azioni compiute nel passato saranno la gabbia in cui sarà rinchiuso il futuro. In altre parole, le politiche industriali che hanno caratterizzato il capitalismo industriale degli ultimi cinquant’anni, e sulle quali si fondano le ricchezze e le comodità della società occidentale, nel futuro impediranno la realizzazione di quel progresso che hanno promesso per tanto tempo. Inoltre, alcune delle decisioni più deleterie prese negli ultimi decenni, e tutt’ora implementate, proiettano questa gabbia da cui non riusciremo a uscire in tempi e spazi che difficilmente comprendiamo oggi con le nostre conoscenze.

Tutto questo è impressionante e sconcertante. La catastrofe climatica ha cancellato e cancellerà il concetto di fiducia nel futuro e invertirà la direzione della percezione del tempoovviamente dal punto di vista della marcia assordante del progresso, permettendoci solamente di constatare che il presente potrà lasciare spazio a una condizione peggiore e sempre più grave.

La stessa permanenza della nostra specie sul pianeta verrà messa in dubbio, e questa consapevolezza si farà sempre più effettiva, conquistando un posto preponderante nell’immaginario collettivoquando inizieranno a scomparire in un periodo di tempo relativamente breve sia costruzioni e città edificate con l’intenzione di durare secoli (si pensi a metropoli come Amsterdam) sia ambienti naturali che si sono formati in un tempo umano enorme come i Poli o le foreste pluviali.

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Foto di Nacho Yuchark – lavaca.org

In questi ultimi anni tuttavia sono state avanzate diverse proposte nel tentativo di contrapporsi a questo “nulla che avanza” e di poter quindi cominciare a immaginare un mondo che non ruoti intorno al concetto di progresso. Una delle autrici più peculiari è sicuramente Anna Tsing. Nel suo testo The Mushroom at the End of the World il progresso viene descritto come un elemento fondante dell’identità umana: ci viene insegnato che l’uomo è l’unico animale in grado di guardare avanti e avere progettualità, ovvero di dare una forma definita e duratura al mondo che lo circonda. Tuttavia la catastrofe climatica e altre fonti di insicurezza con cui stiamo facendo i conti ormai da anni, come le crisi economiche, il precariato o per esempio l’attuale pandemia, stanno sostituendo al concetto di progresso una percezione di incertezza diffusa.

L’autrice propone dunque di abbandonare il ritmo del progresso, che consiste in una marcia forzata che induce tutti i ritmi e tempi della terra ad adeguarsi al proprio, e di aprirsi ad altri tempi, altri progetti, altre specie viventi. In questo modo si noterà quella che viene definita una polifonia di progetti, umani e non umani, che creano ambienti ed ecosistemi collaborando in stretta relazione. Si rifiuta dunque l’idea del progresso, una prospettiva solo umana e costruttivista del mondo, per immaginare un futuro fondato sulla collaborazione interspecie che si adegua e si fonda sui diversi ritmi e tempi delle molteplici soggettività terrestri.

Un’altra proposta per immaginare un futuro libero dal progresso e profondamente cambiato nei suoi rapporti di potere è quello di Donna Haraway. L’autrice esprime alcune riflessioni al riguardo nel suo recente testo Cthulucene, in cui afferma che nonostante la nostra specie sia particolarmente arrogante e non lo riconosca, essa sia obbligata a interagire con altre forme di vita non umane per trasformare e abitare il pianeta in una commistione di rapporti, poteri e forze. Haraway chiama questo insieme di forze Chthulucene, un concetto che, come afferma lei stessa, non ha nulla a che vedere con il mostro diabolico di Lovecraft. Si tratta invece di un termine con cui l’autrice vuole definire la serie di forze e rapporti tentacolari sul nostro pianeta che possono e devono agire all’unisono per rendere l’Antropocene il più insignificante possibile nel nostro futuro. Sono vere e proprie tempospettive, ovvero una moltitudine di temporalità e spazialità diverse, reali e possibili, che hanno il compito di ricreare rifugia, nuovi assemblaggi multispecie in cui soggettività umane e non potranno scampare alla catastrofe e sopravvivere ricreando nuovi modelli ed equilibri. I rifugia già esistenti sono stati invece distrutti dall’Antropocene, o meglio, dal Capitolocene.

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Foto di Nacho Yuchark – lavaca.org

Per ricreare questi veri e propri rifugi ci si deve muovere in due direzioni; la prima è quella dell’accettazione del lutto e della catastrofe. In un mondo di rifugiati, umani ma anche animali, la morte e l’estinzione di milioni di individui non potrà essere evitata e per questo motivo bisogna imparare a riconoscerla come effettiva e ineluttabile, convivendoci e cercando di renderla meno estesa possibile. Il secondo comportamento fondamentale per poter immaginare di nuovo un futuro reale è imparare a generare parentele, slegare questo concetto dalla generazione fisica di altri esseri umani e intenderlo come una generazione di legami e alleanze multispecie, un prendersi cura dell’altro anche quando l’altro non è umano. In altre parole l’autrice torna sulla non centralità umana, in un futuro dove la sopravvivenza potrà basarsi solamente sulla cooperazione e non sulla competizione tra le diverse forme di vita.

Per quanto entrambe le proposte di Tsing e Haraway sembrino astratte, in realtà le due autrici intendono proporre realmente degli strumenti concettuali per la sopravvivenza in un mondo che vivrà l’apocalisse della catastrofe climatica. Risulta quindi fondamentale capire come ormai provare a immaginare un futuro che non passi attraverso la devastazione ecologica del nostro pianeta sia fuori tempo massimo, come dimostrano gli studi sui limiti della green economy se applicati al modello produttivo capitalista.

Il nostro prossimo avvenire sarà dunque segnato dall’essere profughi, dalle nostre città e dai nostri stili di vita e, in un senso più inclusivo verso le soggettività non umane, dai nostri ecosistemi. Ma la nostra condizione non si limiterà solo a questo, visto che saremo “profughi” anche dalla nostra idea di futuro. Per poter sperare di avere un domani, bisogna innanzitutto tornare a immaginare mondi futuri possibili e reali, in contrapposizione a un presente destinato alla catastrofe.

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