Attorno all’esperienza “sistema caserme” di Roma e al tentativo di riqualificazione delle aree militari dismesse.
In ogni città italiana ci sono casi esemplari di patrimonio pubblico avvolti da una coltre scura che li rende inaccessibili alla cittadinanza. Si tratta di spazi pubblici che hanno superato indenni le esigenze della pianificazione urbanistica e che non hanno mai conosciuto la fruizione sociale propria dei beni comuni. Sono, a guardarli con attenzione, i luoghi-simbolo della città antica, ben difesa e circondata da mura, ma la loro operosità parla al cuore della città moderna. Sono le aree militari, le carceri e gli ospedali psichiatrici giudiziari, quel business disumano che continua nonostante siano trascorsi più di trent’anni dall’introduzione della legge Basaglia.
Nella storia delle città, i distretti militari e le caserme – edificate soprattutto nell’Ottocento e prima della Seconda Guerra Mondiale – hanno ricoperto un ruolo strategico nello scacchiere della difesa, del controllo e della riproduzione del potere costituito.
Con l’abolizione della leva obbligatoria, garitte e poligoni di tiro sono ettari rimasti orfani e in tutta Italia hanno davanti due futuri possibili: trasformarsi in affare per le lobby immobiliari e le amministrazioni compiacenti oppure rinascere con nuovi usi, per partecipare alla vita materiale della città e finalmente liberarsi dalla cappa che li allontanava dal tran tran dei quartieri.
Il “sistema caserme”, elaborato dal Comitato cittadino per l’uso pubblico delle caserme di Roma attraverso un percorso partecipato individua sul territorio dei bisogni sistemici, prevede in ogni caserma spazi e funzioni considerate strategiche sul territorio metropolitano, che se moltiplicate in diverse strutture potrebbero migliorare considerevolmente la qualità della vita delle cittadine e dei cittadini.
Le tre funzioni sistemiche individuate sono: 1. Spazi di libera cittadinanza (biblioteche, edilizia popolare, mercati eccetera) in cui trovano accoglienza le necessità del quartiere e che vengono stabilite nelle assemblee di zona; 2. Spazi di promozione di altre forme di economia (commercio equo e solidale, prodotti a chilometro zero e filiera corta, agricoltura biologica, orti urbani…) con mercati, spacci e altre iniziative ad hoc che vengono discusse in assemblee di carattere cittadino; 3. Spazi di coworking per i giovani, per gli artigiani, per le piccole imprese e il terzo settore, da definire attraverso percorsi assembleari di carattere cittadino.
Nei mesi scorsi, ha suscitato l’interesse della cittadinanza soprattutto l’uso delle grandi aree militari romane per la promozione del lavoro. Il nostro progetto prevede la costituzione di una rete di spazi di coworking e di laboratori artigianali da sviluppare all’interno di ogni caserma. Ogni quartiere avrebbe uno spazio coworking autonomo dagli altri e diverso in base alla luce del territorio sul quale insiste, mentre gli indirizzi generali e il collegamento tra le varie sedi sarebbero garantite da una struttura assembleare aperta e cittadina. Questi luoghi produttivi, fondati sulla solidarietà intergenerazionale e inter-professionale, servirebbero a promuovere lavoro autonomo e mutualismo. Sarebbero spazi di lavoro e produzione che resistono al lavoro nero, alla speculazione, allo sfruttamento capitalistico e alla cooptazione e che ricoprirebbero anche le funzioni delle antiche camere del lavoro. Ogni snodo avrebbe la sua autonomia, la sua fisionomia e un suo polo in cui riconnettere il lavoro al tessuto sociale e anche alle questioni urbane nel senso più ampio.
Mai come in questi anni di recessione economica, in cui esclusione sociale, emergenza abitativa, negazione del diritto allo studio, disoccupazione e precarietà sono in rapida ascesa, in cui crescono i sentimenti di isolamento e paura tra le persone, i grandi spazi recuperati possono essere attivatori di cittadinanza, di nuovo welfare, di sviluppo locale e di una socialità libera dagli scambi monetari. Ma c’è una politica che non ha alcun interesse che questi processi si realizzino, ecco perché dagli anni Novanta il processo di dismissioni immobiliari va avanti tanto con il centrodestra che con il centrosinistra, pur non portando ad alcun vantaggio economico per il Paese.
Da un lato, un immobile pubblico abbandonato rappresenta un grande spreco di risorse per una città; dall’altro la svendita di beni che appartengono a tutt* – a vantaggio di pochi – è il segnale che contraddistingue la politica prona agli immobiliaristi, disposta a sacrificare gli interessi pubblici per favorire il partito – trasversale – della speculazione. I comuni italiani sembrano inclini a compiere entrambi questi errori. Alienano svendendo beni di grande pregio attraverso operazioni a procedura privata, prive di trasparenza e senza garanzie sul futuro utilizzo degli immobili. Alienano anche se le amministrazioni pubbliche hanno carenze di spazi e spendono cospicue somme di denaro per l’affitto di uffici che invece potrebbero trovare sede nelle strutture in dismissione. Alienano anche se per le casse comunali questo significa una entrata una tantum piuttosto che un flusso costante di entrate, grazie a locazioni a lunga scadenza e all’affidamento gratuito in cambio di servizi per la cittadinanza.
Il Comitato cittadino per l’uso pubblico delle caserme di Roma nasce quattro anni fa in questo scenario e si forma come punto di coordinamento tra vari gruppi di cittadine e cittadini attivi nei quartieri. Nasce in risposta alla delibera dell’ex sindaco Alemanno (8/2010), che in accordo con il Ministero della Difesa metteva in vendita quindici immobili tra caserme e forti militari. La nostra proposta sono progetti di riuso che prevedono una bonifica a carico dell’Amministrazione e una temporanea concessione della custodia e dell’uso gratuito dell’area a comitati e associazioni che svolgano attività di auto-recupero, apertura e valorizzazione del bene – a costo zero per il Comune.
Le assemblee e il coinvolgimento della cittadinanza, la collaborazione delle facoltà di architettura, urbanistica e ingegneria degli atenei capitolini e i tanti studenti, che hanno svolto tesi di laurea, hanno portato alla costruzione di progetti per ogni caserma in dismissione a Roma, all’interno di quello che abbiamo definito il “sistema-caserme”.
Nel 2013, usando la Manifestazione d’interesse promossa dall’Agenzia del demanio, il nuovo sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha richiesto allo Stato la concessione di un lungo elenco di beni, per un’operazione che l’Amministrazione ha definito «priva di interessi finanziari e speculativi». Da mesi il Comitato ha chiesto all’assessore competente di partire con una fase di sperimentazione per la gestione partecipata con la cittadinanza del parco e della pertinenza esterna della caserma Ruffo sulla Tiburtina, che non necessita di investimenti e ristrutturazioni. Un quartiere soffocato dal cemento e invaso da sale Slot e dove c’è estremo bisogno di aree comuni e verdi. Ma è una richiesta che non ha avuto ascolto e per questo abbiamo manifestato sabato 7 febbraio, davanti alla Caserma Ruffo, a Roma, per evitare la vendita a privati e richiedere il suo riutilizzo per scopi sociali. Entro pochi mesi Roma Capitale dovrà presentare un progetto di rigenerazione per questa e altre caserme, altrimenti torneranno al demanio militare. Sarebbe l’ennesima occasione persa per la città.