Da qualche settimana è uscito il nuovo numero della rivista “Carte Semiotiche”, curato da Valentina Manchia.
Questo nuovo numero di una delle riviste “storiche” della semiotica indaga i limiti della visualità, lì dove le immagini richiedono speciali istruzioni di lettura e rinunciano a ogni effetto di senso ipoiconico (somiglianza percettiva immediata con l’oggetto raffigurato). I diagrammi, immagini tecniche e scientifiche, ma che possono avere anche funzione estetica o ludica, sono l’occasione per affinare la riflessione semiotica sui modi di vedere.
Il volume si apre con un’ottima introduzione della curatrice Valentina Manchia, informata e sintetica, che ripercorre le strade attuali e i punti di riferimento della ricerca visuale sui diagrammi e non solo. Chiunque voglia cominciare dei lavori sul visivo troverà in queste pagine riferimenti utili e importanti, esposti con ordine, e una motivazione ragionata allo studio delle immagini diagrammatiche.
I contributi formano una riflessione collettiva di ampio respiro. Si va da testi teorici di studiosi di fama (Guattari, Fabbri, Manovich), che hanno il ruolo di inquadrare le prospettive analitiche del volume, a contributi applicati, informati da metodologie varie e internazionali.
Il primo testo, di Félix Guattari, è una riflessione teorica molto generale da comprendere all’interno del contesto psicanalitico e filosofico dell’autore, che tratta la diagrammaticità come categoria del pensiero più che d’analisi del visivo. Guattari parte dall’opposizione segno/simbolo di origine saussuriana per proporre una terza modalità di senso che è quella dei diagrammi, da considerare come “semiotiche a-significanti”, slegate quindi da ogni significazione (arbitraria) o simbolismo (motivato). La loro definizione ci sembra però vaga (“non producono ridondanze significative bensì ridondanze macchiniche”) e insufficiente a rimettere in questione le categorie semiotiche evocate dall’autore.
Paolo Fabbri sceglie il difficile compito di analizzare i celebri “diagrammi filosofici” prodotti a più riprese da Gilles Deleuze. Il semiologo analizza dunque immagini prodotte dal filosofo per parlare di altri filosofi: passarle in rassegna invita a un esercizio di interpretazione estrema, lì dove il “diagramma” più che chiarire domanda chiarimenti (ben oltre le classiche mille parole), finta-macchina disegnata realizzata da una finta-macchina umana. Occasione per Fabbri di ribadire il valore della filosofia purché consonante con la semiotica greimasiana (Ricoeur, Deleuze).
Lev Manovich si propone di dare una definizione generale di cosa si intende per “information visualization” – infovis – citando sia esempi classici come i grafici di William Playfair che esperimenti recenti. Più ipotesi di definizione vengono passate in rassegna: è importante l’uso di informazioni non numeriche (testi e relazioni)? Di una grammatica condivisa di primitivi grafici? Della capacità di sintesi del diagramma? Manovich difende l’idea secondo cui quel che più conta nella infovis è la composizione spaziale (“spatial arrangement”): «Infovis uses arbitrary spatial arrangements of elements to represent the relationships between data objects». Soprattutto, Manovich approfondisce l’analisi di tre progetti di visualizzazione diretta (definita come “visualisation without reduction”). Sono questi esperimenti, dipendenti dalle capacità di calcolo degli odierni elaboratori, a mettere in crisi certi assunti finora condivisi sulla visualizzazione dell’informazione.
Vincenzo Idone Cassone lavora su una famiglia di immagini che forniscono informazioni: le interfacce grafiche visibili nei videogiochi, o HUD. La prima ragione organizzativa degli HUD è il giocatore: è rispetto alle sue azioni che le informazioni acquistano pertinenza. Cassone mostra in particolare che gli HUD utilizzano delle logiche di rappresentazione miste, figurative e astratte, ad esempio scegliendo di rappresentare la “vita” dell’avatar (concetto in sé molto astratto ma con un alto valore pragmatico, nei suoi effetti) attraverso una quantificazione di cuoricini. Interessante anche l’applicazione delle categorie della spazialità in pittura, elaborate da Omar Calabrese, a queste interfacce (su questo tema si può utilmente fare riferimento anche ai lavori di Agata Meneghelli).
Le riflessioni di Enzo D’Armenio e Giulia Nardelli nascono da una somiglianza (diagrammatica?) tra il concetto ormai onnipresente di mapping e le definizioni peirciane. Il mapping viene considerato una forma espressiva autonoma, applicabile in campi e a oggetti diversi. Per gli autori si tratta di una proiezione sempre manipolabile, interattiva. Questa manipolabilità situa attivamente la proiezione nell’esperienza dei fruitori, creando uno spazio immagine che è, secondo Paolo Rosa, una «configurazione esperienziale del filmico». Due esempi vengono analizzati in dettaglio: l’istallazione Il Segno della Memoria di Studio Azzurro e il lungometraggio Holy Motors (2012) di Leos Carax.
Affascinante anche la ricostruzione storico-critica realizzata da Floriana Giallombardo a proposito del testo La vana speculazione disingannata dal senso di Agostino Scilla, descrizione della collezione paleontologica dell’autore. Giallombardo identifica nella presenza di tavole (più che nelle ipotesi non-evoluzionistiche di Scilla) l’importanza storica del testo. Disperso in traduzione il contenuto linguistico, è stato soltanto l’accompagnamento iconografico a permettere di accedere alla collezione. Quella prima e ulteriori rappresentazioni visive della collezione permettono oggi “di ricostruire, in filigrana, i mutamenti delle epistemologie visive di chi ne era portatore”.
Camila Maroja ci parla di un diagramma creato da Alfred Barr, al contempo mappa del materiale esibito al MOMA di New York, di cui era direttore, e “the visual assertion of a theory”. Visualizzando le relazioni tra le scuole di arte moderna, l’immagine ha contribuito a costituire l’autorità del museo stesso. Maroja compara questo diagramma con un secondo, creato da Paulo Herkenhoff con simili intenti per la 24esima Biennale di San Paolo. Si può arrivare a parlare di “cannibalizzazione” della struttura del primo da parte del secondo, e l’autrice del contributo mostra perché questo atto abbia avuto degli effetti imprevisti, indebolendo il messaggio non-eurocentico dell’esposizione brasiliana.
Altri due lavori, sul ruolo e le logiche dei diagrammi tecnici nelle pratiche ingegneristiche durante la Guerra Fredda e sull’uso di strumenti informatici come Google Maps come strumento per realizzare “discorsi cartografici critici” sulla questione palestinese, concludono una serie coesa di contributi scientifici originali, che fanno di questo numero di Carte Semiotiche uno strumento utile per chiunque lavori sulle immagini al di là del solo livello figurativo.