Una riflessione attraverso due libri.
Contro la performance
Carmelo Bene: cinema, arti visive, happening, teatro (Postmedia book, 2019) è un libro scritto da Cosetta Saba, interessante tanto per i punti di forza quanto per quelli che si potrebbero reputare i passaggi meno riusciti.
La ricognizione si muove, come il sottotitolo indica, su quattro assi ben precisi, legati al periodo della fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, quelli tra la fine del suo primo teatro e l’avventura cinematografica. Nell’analisi, c’è un lodevole tentativo di contestualizzazione storico-culturale del lavoro dell’artista salentino nel periodo in questione, valorizzando possibili nessi con altre esperienze coeve, italiane e straniere. In questo sforzo, c’è tutta la qualità e – se si vuole – il limite del discorso, dal momento che quello che Saba compie è un qualcosa che in merito agli studi sull’opera di Bene va fatto ma, nello stesso tempo, senza rischiare l’appiattimento su accostamenti problematici. Esempi si possono trovare nei capitoli “Happening / Arti visive” e “Corpo / performatività / cinema”. In entrambi si parte da giusti e condivisibili punti di partenza (le testimonianze dello scenografo Salvatore Vendittelli, collaboratore di Bene nei suoi primi lavori teatrali, che equipara alla forma-happening; la centralità dell’atto performativo nel cinema sperimentale italiano di quegli anni). Tuttavia, gli sviluppi inducono poi a qualche considerazione di tono diverso.
Un caso su tutti può essere l’uso di un termine come performance, per il quale l’autrice si rifà all’idea di performativo in Derrida, premettendo questa affermazione: «Della performance, non in quanto ambito disciplinare specifico, ma quale campo teorico e come atto […] Bene indaga il dispositivo, ossia i modi di manifestazione della “performatività” (behavior, condotta, habitus) e ne osserva i meccanismi intersoggettivi tanto nell’ “arte” quanto nella “vita”» (p. 83). Al di là di possibili critiche sull’efficacia interpretativa dell’affermazione, i dubbi vengono in merito alla scelta linguistica impiegata, dal momento che poggiare una lettura dell’essere attore-autore di Bene su un termine come performance, con il conseguente campo semantico che ne deriva, significherebbe associare il salentino a tutto un filone del teatro da lui apertamente contestato, cioè quello del cosiddetto “teatro antropologico”. In merito basterebbe rileggersi un testo come Il Performer di Grotowski.
Inoltre, identificare la performance come atto sarebbe deleterio per la comprensione di cosa è, in Carmelo Bene, l’idea o – anzi – la non-idea di atto. In tutto questo poi, poco o nulla sulla centralità della voce come strumento, fin dall’inizio fattore capitale del suo lavoro.
Ma al di là dei pro e contro, sempre opinabili, grazie alla sua articolazione, il lavoro di Saba permette di focalizzare l’attenzione su un aspetto su cui molti studi beniani spesso sorvolano, qualcosa che si potrebbe banalmente sintetizzare come la natura dell’immagine secondo il nostro. Da questo punto di vista, il capitolo finale “Forme / Immagini di altre immagini” è eloquente. Qui, fra le tante cose, la studiosa si addentra dentro possibili filiazioni derivanti da certa arte avanguardistica nella versione filmica di Nostra Signora dei Turchi (1968). Senza questionare filologia e approccio, quanto scrive Saba ci suggerisce una verità fondamentale che riguarda l’opera beniana in senso lato, ovvero la relazione tra corpo e visibilità. L’autrice ci indica la distonia tra questi poli; tuttavia, non sembra andare più in là. Val la pena allora leggere questo lavoro come una premessa a ripensare l’idea di corpo e la funzione di ciò che chiamiamo immagine in Bene al di là della loro esposizione “pubblica”, cioè soggetta alla possibilità di interpretazioni infinite – anche contradditorie tra loro – di carattere normativo. Nel primo caso, insistendo magari su certe caratteristiche più legate alla fisica dei corpi e meno alla messa in quadro della figura. Nel secondo caso, approfondendo la questione dell’amplificazione visuale.
Biografia senza ritratto
Il libro di Luisa Viglietti, Cominciò che era finita (Asino edizioni, 2020), racconta la vita di Carmelo Bene nei suoi ultimi anni, dal loro incontro alla morte, con excursus sul prima e il dopo quel periodo. Luisa è stata compagna di lavoro e di vita del genio salentino; la sua testimonianza è preziosa, copre tutto uno spettro di interessi che non possono non dare curiosità a chi di dovere.
Ora, in quarta di copertina si legge: “L’ultima vita di Carmelo Bene”. Per coloro che non avessero domestichezza con l’opera beniana, l’assunto potrebbe suonare un po’ iperbolico, ma in realtà ha una sua misura e coerenza. A guardare la pubblicistica in materia ci si accorge infatti che altre voci hanno coperto altri periodi, e fra queste anche quella dello stesso Bene, con la conversazione con Giancarlo Dotto, pubblicata da Bompiani nel 1998. Ciò detto, il lavoro di Viglietti offre – fra i suoi pregi – una occasione più interessante rispetto agli altri libri per riprendere e rileggere l’uso che faceva l’artista della parola privato. Ovvero, non la vita fuori dall’ambito sociale (lavoro ecc.), né tantomeno quella del cosiddetto “personaggio pubblico” al riparo da stampa e telecamere, ma – diciamo – qualcosa di definibile come la rimozione di qualsiasi possibilità di individuazione di una verità ultima della persona (“privato del privato”, secondo la definizione del salentino).
Nel libro Viglietti racconta di Bene e del rapporto che aveva con l’artista attraverso un discorso in cui la mediazione della memoria restituisce momenti diversi di una vita dell’uomo come fossero gli effetti di una luce che passano attraverso un prisma. E quindi: dettagli, osservazioni, episodi (ciò che chiameremmo genericamente “immagini”) il cui montaggio tende qualche volta all’ingrandimento, all’amplificazione; altre volte – invece – allo scarto, alla diffrazione. Per esempio, si possono trovare ampie digressioni aneddotiche che dicono qualcosa di poco noto ai più sul nostro, tipo la sua idea di cucina:
Per fare il sugo per due persone, metteva tre filetti di carne macinati, che faceva cuocere con sette-otto spicchi d’aglio e olio abbondante, una volta che la carne era rosolata la toglieva e la buttava, lasciando solo il condimento, a cui aggiungeva i pomodori pelati. Quando il pomodoro era quasi cotto, ci metteva un altro paio di filetti di carne macinata e basilico, faceva cuocere il tutto ancora per un’ora, calava almeno mezzo chilo di pasta, infine ci cospargeva sopra tonnellate di parmigiano (pp. 65-6).
Allo stesso tempo, non mancano brani in cui Viglietti si fa voce propria, cioè qualcosa di diverso dalla funzione che in genere si conferisce al biografo, ovvero una focalizzazione continua sul soggetto di cui si scrive. Sono brani come quello in cui l’autrice ci racconta di un libro, a lei sconosciuto, che forse è stato importante per la ricerca critica di Bene su Pinocchio: Collodi narratore di Renato Bertacchini, edito da Nistri-Lischi e uscito nel 1961. Oppure si può pensare alle pagine finali del volume, dove troviamo un trasporto emotivo più diretto, quasi palpabile, nella forma esplicita di lettera e in un tono generale che rasenta la confessione.
Nel suo complesso, si potrebbe dire che Cominciò che era finita è una biografia che non produce un ritratto. A posto di avere una rappresentazione al centro del discorso si ha, per così dire, un rovesciamento. Cioè la dispersione nel discorso di quella stessa presenza. Se si vuole, proprio come nel finale del film Don Giovanni (1970): il volto beniano riflesso in uno specchio infranto. Attraverso questa specie di lacunosità la voce di Viglietti viene fuori alla maniera di un’azione che, indirettamente, ci suggerisce come sia proprio la facoltà dell’ascolto – e non la visione – la migliore via d’accesso per percepire quanto sia indescrivibile per ciascuno, ma comune a tutti, quel che Bene intendeva per privato del privato.