Care sante e puttane, dobbiamo ripensare i corpi, i ruoli, i desideri

“Se non ora quando”, Obliot, CC BY 2.0.

 

Puttanamente – Manifesto per un godimento polimorfico costituente è il titolo di una delle tante riflessioni prodotte a ridosso della manifestazione del 13 febbraio sull’utilizzo del corpo femminile in maniera strumentale alla (dis)informazione e al gossip politico di stampo più o meno moraleggiante, quando non alla stessa critica al sistema, come nel caso dell’appello Se non ora quando?.

La mobilitazione delle donne, nata a margine del non troppo condivisibile appello, produsse, già nelle giornate a ridosso della manifestazione del 13, riflessioni e discussioni riguardo l’opinabile distinzione tra donne perbene e donne permale che trovava ampio spazio nella chiamata alla mobilitazione contro il Rubygate e contro l’immagine delle donne veicolata dai media. Le cattive ragazze e le santerelle, le mamme, le mogli e le puttane hanno poi manifestato fianco a fianco, ciascuna con i propri contenuti e le proprie specificità, con le proprie pratiche e i proprie modi di stare in piazza.

Non è mia intenzione veicolare qui un’immagine buonista della manifestazione del 13, sostenendo quanto siamo brave a stare tra donne e rievocando una modalità di relazione altra rispetto a quella imposta dal sistema eterosessista dominante. Piuttosto mi interessa ragionare su una serie di questioni legate all’approccio di genere, alla centralità che esso assume nell’analisi delle relazioni di potere, non solo tra l’una e l’altra metà del cielo, ma anche tra pseudo-lobby che quell’altra metà del cielo pretendono di rappresentare, tra l’altro, spesso, malamente.

Scelgo di partire dal 13 febbraio perché quest’espediente mi permette di prendere in considerazione una serie di questioni altrimenti difficilmente collocabili sullo stesso piano.

Innanzitutto il sex work, terminologia non esclusivamente politically correct con cui da circa un decennio è stato rinominato lo scambio sessuo-economico, che è stato al centro dell’indignazione da un lato e dell’orgoglio dall’altro e che ha portato le donne a scendere in piazza lo scorso febbraio. Indignazione di fronte ad un mondo che usa la donna come strumento del mercato, orgoglio di essere puttane, indecorose e libere, soggetti desideranti e agenti di scelta. È evidente che non mi riferisco qui a quella dimensione di sfruttamento in cui lo scambio sessuo-economico è imposizione, minaccia, violenza. Credo tuttavia che ripartire dal desiderio e dalla scelta permetta di mettere a fuoco alcuni nodi cruciali che, a mio avviso, abitano nella possibilità di autodeterminarsi in quanto soggetti, libere/i di posizionarsi all’interno della iper-identitarietà delle tassonomie imposte dall’oggi: il desiderio, che muove pratiche e struttura rappresentazioni, e la scelta, che palesa la dinamica egemonia/subalternità nelle relazioni tra generi.

Il desiderio maschile, desiderio di un corpo femminile divenuto oggetto estetico, ma anche desiderio femminile, maniacalmente ricalcato su quello stereotipo. E, ancora, il desiderio come punto di partenza, centro pulsante del processo di soggettivazione dell’identità femminile che ha dato vita alle lotte di un’intera generazione, perdendo senso ed agentività in quella successiva. Desiderio di scoprire una sessualità polimorfica, eterodossa, di sperimentare ed inventare le pratiche del godimento a prescindere dai ruoli, divenuto oggi oggetto di mercato, strumento pubblicitario, funzionale alla vendita dell’automobile come del dopobarba, della biancheria intima come degli oggetti di arredamento. Le donne-soggetti-desideranti sono automaticamente escluse da questa logica dominante, sono soggetti marginali, corpi da colonizzare e omologare alla norma, sussumendone pratiche, disposizioni, rappresentazioni e traiettorie.

La dimensione della scelta: scelta della prostituzione o, all’opposto, della maternità che ancora oggi divide, separa, distingue le donne per bene dal loro presunto alter ego, le sex workers. Una cospicua e densa letteratura socio-antropologica si è impegnata in questi anni nell’indagine sullo scambio sessuo-economico come scelta consapevole e se pure le donne del nostro bel paese, come afferma Concita De Gregorio nel suo appello su “L’Unità”, non sono in fila per il bunga bunga, tante, troppe ancora oggi non vivono la propria sessualità come strumento di liberazione e autodeterminazione. Tante, troppe ancora oggi non possono vivere la scelta della maternità e, nelle imprescindibili condizioni di precarietà materiale e strutturale, sono costrette alla scelta della non maternità in nome della sopravvivenza, della sostenibilità dell’esistenza, della scelta tra casa e carriera.

In questo contesto, invece di demandare ad altri, magari attraverso forme più o meno subdole di sfruttamento istituzionalizzato o regolarizzato, l’accudimento di quei pochi figli che si riescono a mettere al mondo, bisognerebbe rivendicare la scelta riproduttiva, slegata dall’imposizione eteronormativa, come gesto rivoluzionario, come scelta slegata dalla funzione prettamente femminile della cura, in direzione, invece, di una condivisione responsabile e programmatica, proprio come per il sex work.

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