Torna il carcere

Pubblichiamo un’introduzione di Valeria Verdolini, responsabile Antigone Lombardia, al XIII Rapporto sulle condizioni di detenzione a cura dell’Associazione Antigone.

(per leggere il rapporto, cliccare sull’immagine)

Nel mese di Aprile siamo stati con l’osservatorio Antigone nel carcere di Monza. Delle molte informazioni raccolte nel corso della visita, una è rimasta particolarmente impressa. È tornato il terzo letto. La brandina pieghevole, riposta sotto al letto a castello che abbiamo incontrato in due interi reparti, rappresenta il segno tangibile di quel sovraffollamento che aveva portato l’Italia ad essere condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo l’8 Gennaio 2013. La sentenza di condanna del nostro paese, nota come Torreggiani et al., imponeva allo Stato di adottare tutte le misure possibili per modificare le condizioni detentive che violavano l’art.3.. In altre parole, la corte sosteneva che il livello di sovraffollamento raggiunto, con il picco dei 68000 detenuti superato, fosse definibile come trattamento inumano e degradante. La condanna aveva costretto l’Italia a modificare la politica detentiva e aveva aperto ad una serie di riflessioni importanti.

Nei due anni seguenti, per evitare la multa severissima della Corte, sono stati introdotti una serie di provvedimenti noti come “svuotacarceri” che, sul breve periodo, avevano agevolato l’accesso alle misure alternative alla detenzione; sono stati aperti nuovi reparti con condizioni strutturali meno fatiscenti e docce e bagni dignitosi; sono cambiate le abitudini connesse con la vita quotidiana nel penitenziario, con il nuovo regime di “celle aperte” e di sorveglianza dinamica. È stata creata la figura del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale.

Infine, il ministero aveva costituito un tavolo di dialogo tra detenuti e società civile che si era tradotto negli “Stati generali dell’amministrazione penitenziaria”, la prima grande riflessione collettiva dai tempi delle riforme del 1986. Se la durezza del penitenziario non veniva modificata fino in fondo, tuttavia, questa attenzione tra le mura aveva portato a dei cambiamenti impensabili e poteva essere il volano necessario alla tanto attesa riforma del diritto penitenziario. I numeri si erano ridotti di quasi 16000 unità. Ritrovare quella terza brandina, quei numeri, fa riflettere. Cosa ci racconta del carcere di oggi il rapporto Antigone uscito il 25 Maggio 2017?

L’antico adagio di Dostoevskji per cui il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni suona come cupo presagio guardando questa fotografia della detenzione in Italia e come anticipatore delle direzioni che la nostra democrazia sta prendendo. Perché in carcere, nel 2016 si è stati peggio. Perché a fronte di un numero di reati in costante decrescita, il numero dei ristretti cresce. Il numero di presenze è cresciuto di 4792 unità in diciotto mesi, 1524 solo negli ultimi sei mesi. Questo rapporto ci racconta che appena i riflettori della sentenza si sono spenti, appena il rischio della multa è stato scampato, quel meccanismo di incarcerazione è ritornato. Nel carcere del 2017 ci sono soprattutto nuovi detenuti per pene tendenzialmente brevi (inferiori a 3 anni), incarcerati per reati contro la proprietà, stranieri, spesso irregolari, spesso con problemi di tossicodipendenza o con una diagnosi che denota una fragilità psichica.

Ci racconta quella sofferenza metropolitana che si vuole allontanare dallo sguardo, ci racconta il fallimento delle politiche di welfare che non riescono a ridurre davvero le diseguaglianze sociali. Ci racconta delle pochissime chances di inclusione offerte a queste persone a fine pena. Ci racconta delle nuove paure, e del fenomeno tutto da analizzare della radicalizzazione in carcere. Ci rivela tutto ciò che non funziona e non sta funzionando fuori dalle celle e dalle mura di cinta. Questo incremento di ristretti ci restituisce quindi una fotografia di quel meccanismo di espulsione delle marginalità (e della povertà tout court) che si ritrova nelle narrazioni e nelle pratiche del populismo penale. Non a caso quest’ultimo anno è stato accompagnato da un ritorno delle retoriche securitarie, dall’introduzione di un nuovo “pacchetto sicurezza” ritenuto necessario e urgente, e da una sempre maggiore intolleranza per le fragilità metropolitane.

Il carcere è quindi una membrana che filtra il rimosso del sociale, e solo entrando, raccontandolo e studiandolo potremo capire come migliorare ciò che sta fuori. Quei numeri, quelle istantanee etnografiche sono necessarie, perché lo sguardo sia completo. Come scriveva con grande capacità anticipatoria Massimo Pavarini nel 2004:

Un prevedibile aumento di produttività del sistema repressivo si orienterà prevalentemente nella maggior repressione della criminalità predatoria ed opportunista, quella appunto che si ritiene, a torto o a ragione in questo caso poco rileva, alla base del diffondersi del panico securitario. Nei confronti della minaccia alla sicurezza cittadina costituita dalla criminalità predatoria e di massa (furti, scippi e rapine etc.) prevalentemente agita – o nell’immaginario collettivo sempre più agita- da minoranze marginalizzate ed estranee al tessuto sociale, nella crisi […] della cultura inclusiva del Welfare, è difficile intendere quale altra risposta di potrà offrire che non sia quella dell’ulteriore diffondersi di pratiche di esclusione, sul modello appunto delle politiche penali di neutralizzazione e incapacitazione”.1

In altre parole, guardare al carcere ci permette di capire che quella marginalità che stiamo cercando di contenere con le politiche repressive, non solo non verrà trasformata dall’esperienza penitenziaria, ma ne uscirà ancora più marginalizzata, rendendo la misura totalmente inefficace e disattendendo le previsioni rieducative che avevano giustificato l’adozione dell’istituzione totale. Il nostro tasso di civilizzazione, passa da lì. Buona lettura.

Print Friendly, PDF & Email

Note

  1. Massimo Pavarini, Bruno Guazzaloca, Corso di diritto penitenziario, Edizioni Martina, p. 118.
Close