Una lettura e un’analisi a partire da due saggi contemporanei.
Uno spettro si aggira nel dibattito culturale: l’accelerazionismo. Da metà anni ’90 questa strana, perturbante filosofia, percorre le menti e il discorso pubblico. Nata nella CCRU (acronimo per Cybernetic Culture Research Unit), un gruppo di studio formatosi agli albori dell’era Internet nell’università di Warwick, in Inghilterra, e capeggiato dai filosofi Nick Land e Sadie Plant, l’accelerazionismo nel corso degli anni ha raggiunto il dibattito mainstream.
A più di vent’anni dalla sua prima formulazione, c’è chi ha voluto tentare anche in Italia un riassunto di questa corrente e di tutte le sue implicazioni. Sto parlando di Tiziano Cancelli e del suo How to accelerate. Introduzione all’accelerazionismo (Tlon, 2019).
Da buon compendio, questo libro ha il pregio di usare un linguaggio tutto sommato semplice per trasmettere dei concetti oscuri, a volte poco chiari anche agli stessi formulanti. Infatti l’accelerazionismo ha per sua stessa costituzione una natura ondivaga, non sistematizzata. Possiede la stessa struttura del pensiero post-strutturalista francese degli anni ’70, di cui Cancelli mette in evidenza l’influsso, mostrando come gran parte del discorso sviluppato da Land e compagni sia derivato da intuizioni di autori come Deleuze e Guattari, con il loro Anti-Edipo, e Lyotard con il suo Economia Libidinale. Questi pensatori avevano già individuato l’irreversibilità del processo storico di accelerazione insito nella modernità capitalistica e avevano compreso come The only way out is the way through: non si può cambiare il mondo tornando ad un idilliaco paradiso pre-industriale, occorre “non ritirarsi dal processo, ma andare più lontano, accelerare il processo” (Deleuze e Guattari, Anti-Edipo, 1972).
Questo è il nucleo fondante dell’accelerazionismo, qualunque sia la declinazione che si sceglie di osservare. Cancelli ne considera tre: l’accelerazionismo di destra (R/Acc), di sinistra (L/Acc) e quello incondizionato (U/Acc). Nell’esporre le differenze tra le incarnazioni, l’oggettività di Cancelli vacilla verso sinistra, spendendo parole più appassionate e ottimiste verso il L/Acc, incarnato dagli scritti di Mark Fisher, Nick Srnicek e Alex Williams, rispetto ad un riassunto disincantato e con punte di sarcasmo per il R/Acc, inventato da un redivivo Nick Land insieme a Curtis Yarvin AKA Moldbug, capo del movimento Neo-Rivoluzionario americano.
I tre movimenti hanno una base comune, il lavoro della CCRU negli anni ’90, ma le loro ideologie guardano a strade diverse.
Il L/Acc vede nel Capitale una forza oltreumana in grado di modellare la realtà, ma non in chiave positiva, bensì bloccando ostinatamente le forze che potrebbero portare ad un futuro migliore. Esemplare di questa visione è il concetto di “Realismo capitalista”, portato alla ribalta da Mark Fisher con l’omonimo libro (Nero, 2018), cioè quella credenza per cui “non c’è alternativa” ed “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”. Allievi di Fisher sono Srnicek e Williams, che estendono il concetto con il loro Inventare il futuro (Not, 2018) in cui sostengono la legittimità di criticare il capitalismo in quanto sistema improduttivo e la necessità per la sinistra di adottare una visione d’insieme per progettare un nuovo futuro.
Il R/Acc, invece, riporta al centro la figura di Land e l’idea dei mercati come unica forza di trasformazione, ma lega le istanze pro-capitale alle pulsioni anti-democratiche, proclamando una libertà di autogestione che renda sempre più autonomi i singoli rispetti allo stato. Libertà da realizzarsi anche e soprattutto grazie alle nuove tecnologie. In questa visione il nemico è la Cattedrale, concetto creato da Moldbug, cioè l’insieme di tutte le ideologie progressiste e multiculturali. Ad esso i neo-conservatori oppongono la frammentazione, la libertà di “uscita” dal sistema democratico e i modelli delle città-stato asiatiche come futuro per l’umanità.
L’U/Acc, corrente relativamente giovane e a cui il libro dedica poche pagine, si pone come una terza via rispetto alle due precedenti. In esso l’accelerazione è depurata da ogni tentativo umano di “condizionare” il processo, per ricondurre il concetto alla sua primitiva alterità, non ad un paradigma antropocentrico. La sua proposta è un’“anti-prassi”: non l’inazione, ma il rifiuto per un’azione collettiva che cerchi di orientare le forze della modernità e la disposizione invece a “vivere nel mezzo del caos […] lasciarsi contaminare da quell’Altrove senza pretenderne il comando, ma partecipando attivamente al suo dispiegamento”.
A prescindere dalla corrente di cui si parla, Cancelli è comunque teso a mantenere una profondità di analisi e a riconoscere i pregi e difetti dell’accelerazionismo, considerandolo per quello che rappresenta davvero: “Non è una via d’uscita dal capitalismo, né un’alternativa valida in cui sperare, ma è soprattutto una nuova e radicale modalità di vivere il presente e le sue infinite contraddizioni”.
L’assenza di indicazioni pratiche sembra essere quindi il limite principale del pensiero accelerazionista. D’altra parte, nel nostro tempo è difficile trovare certezze e ogni azione si muove pur sempre all’interno di una cornice ideologica.
È il caso ad esempio di Fatti non foste a viver come robot. Crescita, lavoro, sostenibilità: sopravvivere alla rivoluzione tecnologica (Utet, 2020), un libro dell’economista Marco Magnani, studioso che vive tra Italia e Stati Uniti, membro di università in entrambi i paesi (Luiss e Harvard Kennedy School of Government) ma anche di consigli di amministrazione di banche e aziende in tutto il mondo. A dispetto del titolo evocativo, che combina la Divina Commedia e la modernità tecnologica, di umanistico in questo volume non c’è molto. Perciò vorrei provare a implementarlo e darne una lettura più trasversale. Senza pronunciarmi sul merito delle proposte avanzate da Magnani – non sono un’economista – penso che sia interessante rilevare il punto da cui l’autore porta avanti il suo discorso.
Intanto, questo libro si situa nell’ambito del Realismo Capitalista precedentemente citato: l’economista infatti dichiara più volta di credere nella crescita come dogma per il miglioramento dell’economia, crescita finanziata a sua volta dall’innovazione, in questo caso quella tecnologica.
Ma cosa costituisce il grande cambiamento tecnologico che minaccia la stabilità economica? Magnani raggruppa le innovazioni in una dozzina di categorie, dalla robotica avanzata ai bit-coin passando per bio-ingegneria, stampa 3-D e veicoli a guida autonoma. Di ognuna espone opportunità e pericoli, nominando mestieri che andranno persi e altri che invece sono nati o potranno svilupparsi in futuro, quelli in cui l’esperienza delle soft skills umane andrà a bilanciare il lavoro svolto dalle macchine. In ultima analisi comunque, è convinto che, con i dovuti correttivi, questa situazione potrebbe portare ad un saldo positivo dei posti di lavoro.
Interessante per questa analisi è il discorso riservato ai vincoli della sostenibilità: Magnani ostenta un’oggettività assoluta che rasenta il cerchiobottismo quando parla dei problemi legati al cambiamento climatico. Quando espone il tema rileva che “Gran parte della comunità scientifica concorda sul fatto che causa dominante dell’attuale global warming siano le attività umane” per poi citare anche smentite e controsmentite di singoli studiosi in disaccordo.
In ogni caso, pur considerando i dati delle previsioni più fosche e gli accordi ONU sul contenimento della temperatura entro i 2° C, la sua fede nella modernità tecnologica resta assoluta. Ne è un esempio il discorso applicato all’estrazione di risorse energetiche, in cui Magnani parla non tanto di ridurre la domanda di energia, ma di procedere all’estrazione di materiale grazie a tecniche innovative (lo shale gas, metano e petrolio intrappolati nell’argilla). Oppure le pagine dedicate ad esempio alle condizioni degli oceani, in cui prima rileva che “Secondo la Fao oggi oltre il 90% degli stock ittici mondiali è pienamente sfruttato e il rischio di arrivare al collasso è molto elevato”, ma poi conclude “Nonostante tutto ciò, ci sono altri elementi che invitano, invece, a rimanere ottimisti. Innanzitutto, una maggiore attenzione all’inquinamento e un più consapevole sfruttamento delle risorse possono contribuire a limitare molti dei problemi attuali”. Discorso quantomeno straniante.
In tutto questo non manca l’esposizione di possibilità diverse, come l’incentivo a usare fonti di energia rinnovabili o, nel campo dei modelli generali, gli accenni a modelli alternativi (decrescita felice, blue economy) ma queste idee sono citate solo per sconfessarle.
Come non mancano anche considerazioni di carattere etico e sociologico, sull’importanza del lavoro come metodo di realizzazione personale e sulla necessità di tenere conto della felicità individuale nel riprogettare un modello generale.
Nella sezione conclusiva, dopo aver vagliato tutte le possibilità e le minacce paventate dalla tecnologia, Magnani avanza anche la sua proposta per agevolare la transizione verso una nuova economia: “Ogni residente riceve un capitale di dotazione, cioè una quota di partecipazione al capitale che, investito in innovazioni tecnologiche, da un lato è la fonte di aumenti di produttività e incrementi di ricchezza e dall’altra la causa della perdita di posti di lavoro”. In questo modo, sarebbero attenuati gli sbalzi di assestamento della nuova economia, permettendo anche slanci di autoimprenditorialità.
Ma in fondo cos’è questo, almeno in parte, se non un progetto accelerazionista? Più vicino forse al R/Acc rispetto alle altre due correnti, Magnani sembra condividere la fiducia di Nick Land in un capitale che rimodella da solo l’economia, mentre l’uomo deve abbracciare pienamente le forze del mercato, quasi fondersi con esso grazie alla partecipazione finanziaria. Certo, mancano qui le derive esistenziali libertarie prospettate dal filosofo inglese e anzi Magnani sembra molto radicato in certe tradizioni culturali, con ben tre citazioni dalla Bibbia poste in esergo e riferimenti alle encicliche papali. Però non è cieco di fronte ai cambiamenti del presente e la struttura di fondo del suo ragionamento è in fondo la stessa ipotizzata dalla CCRU.
Una riprova quindi dell’importanza e della pervasività della filosofia accelerazionista, ma anche di quanto sia importante sviluppare un pensiero che proietti l’umanità nel futuro, prossimo o lontano che sia. Attività che richiederà un’unione di discipline diverse, per far sì che ognuna possa correggere i difetti dell’altra, bilanciando teorie e pratiche per un’avvenire migliore. Perché, qualsiasi sia l’ideologia che sceglieremo, è obbligatorio fornirci di una solida cornice teorica per comprendere il mondo che verrà, altrimenti rischiamo di essere vittime degli eventi, invece che protagonisti.