Il rapporto tra Salute Mentale e cittadinanza: da “scienza dell’esclusione e del controllo” a contesto di violenta accumulazione capitalista
Reparto Agitati dedica questo secondo paragrafo al cuore delle questioni sociali e politiche che immediatamente si aprono nel momento in cui generalizziamo le contraddizioni aperte nei servizi di salute mentale. Le posizioni che abbiamo preso in analisi presentano seri limiti teorici e pratici. Il più grande è lo svuotamento tecnicistico, la limitatezza del campo di indagine, l’incapacità di uscire dagli ambiti specifici dell’organizzazione dei servizi di salute mentale per mettere in questione nel suo complesso il rapporto tra uomo e organizzazione sociale. Proviamo a declinare invece i campi che si aprono oggi ai soggetti che intendono riprendere il filo della teoria e della prassi anti-istituzionale.
1. Problemi pratici e teorici
In questi ambiti si può leggere una sostanziale arretratezza rispetto alla tematizzazione del problema costituito dalla crescita delle disuguaglianze sociali, di una sua seria lettura politica e di una credibile ipotesi di azione collettiva per contrastarla. Entrambe le posizioni che abbiamo preso rapidamente in analisi, risultano bloccate da tecnicismi depoliticizzanti che impediscono di svolgere entro di esse una seria ripresa dei temi posti dalla deistituzionalizzazione. Il sociologismo ideologico della “cultura organizzativa” sembra aver bloccato qualsiasi riflessione sugli aspetti contraddittori dell’istituzione, in quanto isola una serie di modalità di funzionamento e di modelli tecnici (le “psichiatrie” spesso denunciate) senza legarli alla complessità delle condizioni di vita sociali e materiali che, in modo dialettico, determinano il mandato dei servizi e sono a loro volta “messe in forma” dalla concreta prassi che entro i servizi si svolge. Il concetto di cultura organizzativa, proposto ormai vent’anni fa per “esportare” le acquisizioni sorte nelle “istituzioni inventate” contestualmente alla lotta per la chiusura dei manicomi, ha finito per mettere un cappello teorico a-dialettico sul processo organizzativo dell’istituzione, facendone un oggetto statico e a-processuale (in conformità, tra l’altro, con la natura del concetto di “cultura organizzativa”, nato all’interno della spinta alla produttività nell’impresa capitalistica).
L’enfasi posta sul tema delle risorse, cara alle posizioni socialdemocratiche, cade nella scivolosa contraddizione di tentare di costruire un “bene comune” attraverso un sistema di strumenti che ha già effetti performativi per la sua natura tecnicistica; la tendenza intrinsecamente assistenzialistica del welfare, che ha contribuito a determinare la crisi di sistema come suo fattore di stress interno, non riesce ad essere superato mai totalmente da questa impostazione. Questa infatti prefigura risposte tecniche e stabilisce una relazione diretta tra bisogno e sua razionalizzazione senza considerare più la possibilità che gli uomini possano voler prendere in mano la determinazione di “che cosa è” la propria salute, e di conseguenza individuare collettivamente i rapporti di forze e le contraddizioni che impediscono una piena risposta ai bisogni dei più da parte dell’organizzazione sociale dominata dai pochi.
La tecnicizzazione delle risposte, la chiusura degli spazi di elaborazione collettiva, è massimamente la cifra delle formule del welfare postmoderno. Al diritto alla salute si risponde ideologicamente con una “responsabilità di governo” interpretata solo come definizione di soluzioni tecniche da applicare al corpo sociale. Le prestazioni sanitarie sono interpretate come un intervento tecnico, una erogazione, un’azione professionale volta a colmare un determinato stato di bisogno, che viene riconosciuto tale in quanto presente in caselle diagnostiche rigidamente oggettive. La prestazione del sistema delle istituzioni, in ogni campo della vita pubblica, consiste nel rendere a-dialettico il passaggio dal bisogno alla sua razionalizzazione in modo tale che sia depotenziata ogni forma di definizione collettiva e conflittuale del bisogno stesso.
2. Tra marginalità ed esclusione sociale: questioni di cittadinanza
Questo aspetto va di pari passo con le trasformazioni intervenute negli ultimi decenni nel campo della cittadinanza e dei diritti ad essa connessi. La marginalizzazione non è più semplicemente l’estromissione dalla possibilità di esercitare un diritto. A partire dagli sviluppi del capitalismo finanziario e terziarizzato, nei contesti produttivi più “avanzati” si è sviluppato un processo evolutivo che va dall’esclusione sociale a forme più subdole di “inclusione escludente”. Il diritto, infatti, non rimanda più a posizioni di esigibilità conquistate con una rivendicazione collettiva: esso è piuttosto un diritto parcellizzato, azionarizzato e individualizzato, riconsegnato al singolo uomo nella misura in cui esso è astrattamente considerato come utente, o peggio “cliente-consumatore”, dotato di “libertà di scelta”. Il “diritto alla salute” è così inteso solo come una “proprietà” detenuta dal singolo individuo, un possesso monetizzabile sul mercato delle prestazioni sanitarie che, in quanto tale, non rimanda più a posizioni di garanzia determinate dal raggiungimento di un certo equilibrio nei rapporti di forza collettivi; rimanda invece a qualcosa che viene riconsegnato a singoli individui astratti, mentre concretamente essi sono impegnati in una costante competizione tra loro per meritarseli.
Questa declinazione soggettiva risponde alla struttura oggettiva che ha assunto negli ultimi trent’anni l’impalcatura dei diritti: la portata dell’esigibilità dei diritti è determinata dalle speculazioni sul debito pubblico. Ai diritti come “posizioni conquistate” in lotte di emancipazione si sono sostituiti “prese in carico” tecniche dei sistemi di governo nei confronti della popolazione intesa come massa di corpi produttivi e consumatori. Alla base di ciò ci sono le modificazioni del ciclo produttivo. Nella globalizzazione dei mercati, che si attua attraverso la velocità di comunicazione e la fine delle regole sulla contrattazione collettiva del lavoro, la produzione che raccoglie più investimenti e risorse è quella di merci immateriali. Le merci immateriali dilazionano infinitamente la relazione tra produzione e consumo, per cui diviene sempre più difficile individuare le dinamiche di sfruttamento globale esistenti alla base delle merci-feticcio disponibili sul mercato per la costruzione della propria identità da “inclusi”.
Questo alla base della creazione di una marmellata universale in cui chiunque, nonostante il livello oggettivo del suo sfruttamento, sente di fare parte di una “classe media universale”. Il meccanismo di definizione delle identità personali si adatta a questa dinamica della struttura economica della società: alle identità ferree delle società fordiste basate sul discorso “disciplinare” e sull’appartenenza a una “classe” di persone accomunate da un certo ruolo nella fabbrica, si affianca e sostituisce (nei centri e nelle province, meno nelle periferie) un modo di produzione che riesce a “valorizzare” le devianze, la negazione della norma, la costruzione delle “biografie individuali” come percorsi determinati dal libero fluire dei desideri. Sembra che il consumo, inteso come attività finalizzata alla conquista di un’identità accettabile, costituisca l’attività produttiva dominante della metropoli postfordista.
Per chi annaspa per rimanere ancorato al sistema produttivo, l’identità diventa qualcosa di leggero, liquido, da ridefinire costantemente in un modello di competizione orizzontale, reticolare e globale. Gli esclusi invece sono inchiodati ad una identità pesante, resa “materiale” dalla zavorra dei bisogni, delle appartenenze e dei legami. L’identità è una posta in gioco caratterizzata dalla più alta ambiguità: produzione funzionale per gli “Integrati”, condanna in quanto caratteristica negativa per gli esclusi, strumento di mobilitazione di “piccole patrie” illusorie per i marginali; comunque sempre sospesa a quello “stato di eccezione” nel quale ogni errore, ogni disfunzione può precipitare allo stato di “non persone”, dal momento che nessuna istanza politica, oggettiva, di rappresentanza, può assicurare la tutela universalistica dai rischi.
3. La salute mentale come ambito di accumulazione originaria
In relazione alla svolta individualistica intrapresa dalle società occidentali alla fine degli anni ’70, si assiste all’emergere di nuovi contenuti nella produzione sociale del consenso. Da quegli anni inizia un ribaltamento progressivo dai valori della disciplina a quelli dell’autonomia, che si caratterizza per il radicarsi nella vita quotidiana del doppio ideale di autorealizzazione e di iniziativa individuale. Questi nuovi ideali sociali mettono l’accento sull’aspetto personale delle relazioni sociali e prendono corpo nella società attraverso la massiccia preoccupazione per la soggettività degli individui, in termini di diritti di sviluppo personale e di rischi di sofferenza psichica. La preoccupazione generalizzata per la sofferenza psichica e la Salute Mentale si sono quindi imposte sempre di più come elementi di “produttività”, di tenuta dell’ordine sociale, di risorsa immateriale, di capitale umano e sociale, la cui presenza favorisce la crescita dell’economia basata sui bisogni relazionali, terziari, immateriali, centrati sulla customizzazione del cliente, il brand e la fidelizzazione comunicativa.
Sempre più la socialità è diventata rilevante per le scelte politiche ed economiche: mentre la politica destruttura le garanzie collettive e la redistribuzione dei costi e dei rischi sociali, la tenuta del sistema produttivo si basa su un forte investimento sulla “socialità dell’autonomia”. Essa è il modello di socialità che giustifica la individualizzazione dei costi e dei rischi sociali enfatizzandone il lato positivo di “gestione di sè”, “libertà”, “desiderio”. Si dice: si sono ampliati i confini di ciò che è sottoposto alla scelta individuale e di conseguenza si sono ampliate contemporaneamente la responsabilità e l’insicurezza. In pratica, non c’è più alcuna rete di tutela che derivi da posizioni collettive: ciascuno è libero di spendere la propria sopportabile quantità di rischio sul mercato.
I meriti e i successi conseguiti in tale operazione devono essere ascritti alle caratteristiche della “personalità”: propensione al rischio, capacità di lavorare in equipe, propensione a lavorare per obiettivi, capacità di resistere ai traumi e riorganizzare la propria struttura dell’azione diventano le caratteristiche individuali che sottendono una capacità articolata di vendere la propria forza lavoro sul mercato; le competenze relazionali e la capacità di inventare itinerari esistenziali particolari e dotati di senso sono i “mezzi di produzione” di questa incessante valorizzazione dell’identità personale. I costi di tale operazione, allo stesso modo, debbono essere compensati nella sfera del privato psicologico. Patologie, disagi, traumi, fragilità: questo il linguaggio delle caratteristiche individuali di chi non resiste a questo peso schiacciante della individualizzazione del rischio.
In questa supposta “classe media universale”, caratterizzata da alti livelli di scolarizzazione, alti livelli di accesso a prestazioni sanitarie complesse, capillare diffusione di forme tecniche di presa in carico “psicologiche”, “educative”, “sociologiche”, ecc, questo modello di “socialità” è oggi il campo della violenza dell’accumulazione primaria. Benessere psicologico, capacità di instaurare e mantenere funzionali le relazioni cooperative, self efficacy, empowerment, resilienza, questi sono i campi in cui il capitale sta facendo la sua operazione di “violenza politica” per reificare e valorizzare, per far pagare quella legna che ognuno poteva raccogliere liberamente fino al giorno prima nei campi comuni. Nuovi soggetti economici si presentano sul mercato vendendo la merce “benessere”: una merce individuale, impacchettata per il cliente astratto, per il soggetto costretto a puntare solo su se stesso e vivere il disagio nel chiuso della propria interiorità. Ciò che la violenza politica ha strappato dalla società viene valorizzato e rivenduto per fare gli interessi del profitto.
Non potremo affrontare le questioni della psichiatria se non scegliamo di riportare sul terreno del sociale queste contraddizioni.