Cancella il debito?

Il debito in comune: dialogo sul filo del paradosso tra teoria politica, estetica e scienze umane.

Una singolare tendenza si aggira oggi nelle scienze umane. Sotto la dicitura onnicomprensiva di teologia politica, numerose analisi e interpretazioni del tempo presente si stanno infatti orientando sulla consustanziale attiguità tra le dinamiche sociali, culturali e politiche e una comune matrice teologica che le informa e dona loro senso ed efficacia. Se la precessione di un dominio sull’altro è argomento tuttora dibattuto, resta il fatto che l’effettiva presenza di tale paradigma continua ad acquisire sempre maggior credito, supportato da analisi e digressioni teoriche che sembrano riuscire a contestare con successo le obiezioni a tale cornice epistemologica avanzate dai teorici della democrazia negli ultimi decenni del secolo scorso.

Certamente la teologia politica è un tema che attraversa interamente il Novecento, a partire dai lavori di Carl Schmitt che innescarono un lunghissimo dibattito che coinvolse in egual misura giuristi e teologi, soprattutto di area tedesca, ma la sua ripresa più recente sembra essere dovuta alle analisi sul potere di Michel Foucault: sono proprio le analisi dedicate ai paradigmi della sovranità e del governo e alla centralità nelle società occidentali di alcune tecniche del sé di derivazione cristiana, la confessione su tutte, ad aver costituito lo spunto che ha permesso di congiungere il quadro teorico estremamente ampio ed astratto con la località analitica circoscritta. Sulla scia dei lavori di Ernst Kantorowicz, questo paradigma ha potuto infine essere traslato dalla regalità medievale alla “governamentalità” contemporanea, soffermandosi tanto sui singoli casi che su questioni di portata più generale.

All’interno di tale contesto teorico e metodologico, l’ultimo libro di Roberto Esposito – Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero (Einaudi, Torino 2013) – prova a ripercorrere alcuni plessi centrali di questo dibattito, proponendosi di rinvenire le condizioni per una possibile emancipazione dal concetto di teologia politica, sul quale il pensiero occidentale non sarebbe (stato) in grado di gettare uno sguardo esterno; prova ne sarebbe la derivazione teologica dello stesso apparato lessicale adottato di volta in volta nel tentativo di mettere in crisi tale paradigma (Ivi, p. 25). L’analisi si articola così attorno a tre poli – la macchinazione, la persona, il pensiero – raccordati tra loro tramite soglie concettuali che affrontano dei nodi al contempo più specifici e più generali, quali l’idea di dispositivo all’incrocio tra Foucault e Heidegger, la figura enigmatica di ascendenza paolina del Katechon (oggetto di numerosi studi, anche molto recenti), il concetto giuridico romano arcaico di nexum (il debitore nel lasso di tempo della sua condizione di insolvenza) e quello attualissimo di debito. Già a livello di sguardo di sorvolo, appare evidente la costituzione della dimensione politica occidentale all’incrocio tra giurisprudenza e religione, generando quell’antinomia tra legalità e legittimità sulla quale Giorgio Agamben (presenza invisibile o assenza rumorosa nel testo, a seconda dell’angolo prospettico, o della malizia, che si preferisce adottare), ad esempio, ha fondato la sua lettura della crisi contemporanea.

I tre poli individuati da Esposito tracciano un percorso ben definito che conduce in ultimo ad una proposta di risoluzione della condizione attuale che riassume i principali temi affrontati dal filosofo nel corso degli anni, secondo una direttrice affermativa che caratterizza buona parte del suo lavoro. Attraverso un itinerario che punta a decostruire i nuclei – meglio, macchine o dispositivi – concettuali in oggetto, cercando proprio al loro interno quelle forze che, citando Deleuze, «ribaltate nel loro senso d’insieme, possono assumere una valenza emancipativa» (Ivi, p. 211), il punto di arrivo è dunque costituito dal confronto con la nozione di debito, plesso di convergenza tra le due radici – cristiana e romana – di teologia politica, in virtù della sua contiguità con la questione della colpa e del peccato (sottolineata dal termine tedesco Schuld): «Allo stesso modo in cui il peccato originario, nonostante l’intercessione di Cristo, è pagato da tutti gli uomini con la pena ultima della mortalità, l’esposizione del nexus alla volontà arbitraria del creditore, tutt’altro che esaurirsi, tende a generalizzarsi in una situazione di indebitamento universale» (Ivi, p. 224).

A questa condizione di insolvenza globale sancita dalla sovranità del debito, conclude Esposito, bisognerebbe opporre la sua socializzazione, riscoprendo il fondamento originario della comunità in quanto messa in comune del munus, il debito di ciascuno verso l’altro slegato da qualsiasi forma di assoggettamento (qui una lettura dedicata e qui più recente). Ma, con un ultimo guizzo che riannoda i fili tesi lungo le pagine precedenti, è proprio nel rovescio della teologia politica che si possono individuare gli estremi per una “conversione” della nostra situazione debitoria:

A balenare per un attimo, nel rovescio della teologia politica, è la Legge del Giubileo, per la quale, nell’anno sabbatico, tutti i debiti sarebbero stati condonati e tutti gli schiavi liberati. Se si riattivasse tale legge, si passerebbe da un debito sovrano a un debito comune, a una comunità del debito tale da rompere la stretta immunitaria in cui il mondo sta soffocando. Allora solamente l’antico nexum si spezzerebbe e il servus tornerebbe compiutamente liber (Ivi, p. 228).

Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori.

Se Due può apparire una sorta di compendio di un personale percorso di riflessione pluridecennale declinato verso un’urgenza attuale, ha però il grande merito di tracciare una mappa abbastanza esplicita di una costellazione di pensatori che incrociano linee di ricerca eterogenee e dalla ricezione non sempre pacifica. Proprio la questione del debito – nell’intersezione tra dovere e colpa – permette un rilancio retroattivo nella sua sovrapposizione con il cinema, la cui centralità in Deleuze viene sottolineata con forza da Esposito (Ivi, pp. 213-214) pur senza essere sviluppata con altrettanta intensità. Si deve a Paul Ricoeur, sulla scia di Michel de Certeau, la definizione dello storico come «debitore insolvente» nei confronti dei morti, debito che va onorato, evidentemente, inventando le forme più appropriate per rendere con giustizia il passato (Il tempo raccontato, Jaca Book, Milano 1988, p. 214). Le problematiche connesse ai rapporti tra memoria, storia e giustizia costituiscono, come è noto, un asse centrale nella riflessione del filosofo francese, orientate però maggiormente sul versante della ricostruzione storica; la possibilità di affrontarle dal rovescio – il lato della finzione – diviene invece la preoccupazione principale di Pietro Montani, tanto nei primi lavori, dedicati più in generale al problema dell’autoriflessività nel linguaggio, quanto negli ultimi incentrati più specificatamente sulle immagini, in particolare L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile (Laterza, Roma-Bari 2010). Il «debito delle immagini» costituisce così il principio etico-estetico sul quale si fonda la relazione tra il mondo e la sua rappresentazione, intersecando un compito testimoniale e un’esigenza poietica: sotto il segno di un dovere “rischioso”, in quanto il suo assolvimento deve essere continuamente reinventato, il cinema ritrova la sua indissolubile contiguità con il proprio fuori, l’altro da sé, all’incrocio tra sguardo sul mondo e riflessività tecnica (Ivi, pp. 58-59).

Che ne è allora della nostra relazione con il debito? Socializzarlo per evaderlo, liberandosi della colpa ancestrale, oppure provare ad assolverlo sino in fondo, pur sapendo che un resto rimarrà sempre? Seppur appaia evidente che i due ambiti non sono (pienamente) sovrapponibili, è altresì vero che è il testo stesso di Esposito ad autorizzare, almeno in nuce, tale accostamento, individuando proprio nel cinema – attraverso la lettura deleuziana – il luogo dove più appare con chiarezza l’esteriorità del pensiero. Una risposta possibile come risoluzione di questa ambiguità potrebbe allora passare dal riconoscimento della matrice immanente della situazione debitoria dello storico – e in generale della nostra condizione presente verso l’alterità irriducibile che ci circonda.

Credere in questo mondo come l’unico possibile, in quanto insieme di tutti i possibili, è questa la sfida che lancia il cinema moderno secondo Deleuze; ed è ancor più significativo, alla luce di quanto presente nella terza parte di Due, che queste riflessioni appaiano proprio nel cuore del capitolo dedicato ai rapporti tra cinema e pensiero ne L’immagine tempo (Ubulibri, Milano 1989), incentrato sui mezzi del cinema per affrontare la domanda del pensiero circa la sua impotenza, il suo non-essere-ancora:

Qual è allora la sottile via d’uscita? Credere non a un altro mondo, ma al legame fra uomo e mondo, all’amore o alla vita, credervi come all’impossibile, o all’impensabile, che tuttavia può essere soltanto pensato. Questa credenza fa dell’impensato la potenza propria del pensiero, per assurdo, in virtù dell’assurdo (Ivi, p. 190).

Ma questa sfida si carica con evidenza di un portato politico e insieme estetico, se ne intendiamo l’ampiezza etimologica come riflessione critica sulla sensibilità, dal momento in cui si tratta di aprire l’immagine alla contingenza e all’alterità del mondo, piuttosto che rinserrarla all’interno di schemi predeterminati: «aprirsi al mondo, infine, significa anche “aprirvi un mondo”: restituire all’aisthesis la responsabilità di prospettare un mondo sensato» (Montani, p. 34). E ancora oltre, se il governo attuale degli indici economici è inscritto direttamente dentro le radici del termine oikonomia, palesando in tal modo la sua ascendenza teologica (Agamben, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Bollati Boringhieri, Torino 2010), si tratta di sostituire alla religione del capitalismo – evidenziata da Marx e Benjamin – un’altra forma di credenza, questa volta di carattere immanente. E forse è qui il compito più profondo del cinema, riallacciare i fili spezzati tra l’uomo e la realtà:

È il legame fra uomo e mondo a essersi rotto; è questo legame quindi a dover diventare oggetto di credenza: l’impossibile che può essere restituito soltanto in una fede. La credenza non si rivolge più ad un mondo altro o trasformato. L’uomo è nel mondo come in una situazione ottica e sonora pura. La reazione di cui l’uomo è privato può essere sostituita unicamente dalla credenza. Solo la credenza nel mondo può legare l’uomo a ciò che vede e sente. Bisogna che il cinema filmi non il mondo, ma la credenza in questo mondo, il nostro unico legame. […] Restituirci credenza nel mondo, questo è il potere del cinema moderno (quando smette d’essere brutto). (Deleuze, p. 192)

Affrancarsi dalla sovranità del debito monetario ritrovando il senso dell’essere in comune attraverso la presa in carico di un debito etico che ci restituisca la credenza al mondo. Come ogni macchina, anche la finanza creativa sembra contenere in sé le forze per il proprio rovesciamento.

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