Il terremoto economico neo-liberale ha radicalmente messo in crisi l’importanza delle università e delle istituzioni culturali in genere.
Nuovi percorsi dell’Università nel funzionamento sociale
Negli ultimi anni, le università hanno subito profonde trasformazioni che hanno irrevocabilmente cambiato la loro funzione sociale. In Europa, interi dipartimenti (se non intere università) sono rimasti chiusi o intrappolati dalle incertezze dell’economia e della ricerca di sostegni finanziari. Il terremoto economico neo-liberale ha radicalmente messo in crisi l’importanza delle università e delle istituzioni culturali in genere. Tuttavia, come spesso accade in tempi di grandi trasformazioni, è stato ampiamente riaperto uno schietto e urgente dibattito sul ruolo e la responsabilità delle stesse verso le comunità di cui fanno parte. Paradossalmente, questa nuova condizione ha lasciato spazio a modelli innovativi per la produzione di conoscenza e di coinvolgimento sociale, sia all’interno che all’esterno degli stessi istituti universitari. Un po’ ovunque nel mondo arabo, in India e in Sud America, programmi educativi, progetti di collaborazione, network informali e comunità di attivisti stanno avviando iniziative indirizzate a re-immaginare il ruolo che le università ricoprono nel funzionamento dell’organismo sociale. In questa cornice di senso, Campus in Camps costituisce un esempio recente e in crescita di cui possiamo raccontare con maggior esperienza, avendone preso direttamente parte nel processo di iniziazione, costruzione e accompagnamento. Campus in Camps è un programma educativo sperimentale in Palestina orientato all’incubazione di progetti, concepito su una traccia biennale, che coinvolge un gruppo di quindici partecipanti provenienti dai campi profughi della Cisgiordania. La sfida è esplorare e produrre nuove forme di rappresentazione dei campi e dei profughi oltre la statica e tradizionale narrazione che li raffigura come vittime, soggetti passivi e circondati da miseria. L’ambizione più alta è trasgredire, senza ignorare, la distinzione tra campo e città, rifugiato e cittadino, centro e periferia, teoria e pratica, insegnante e studente. Si tratta di un’iniziativa inevitabilmente radicata su una realtà specifica, quella dei campi profughi palestinesi che, in un processo di trasformazione storica e ambientale, nonostante le avverse condizioni politiche e sociali, hanno sviluppato uno spazio relativamente autonomo e indipendente: non più quindi semplici ricettori di interventi umanitari ma piuttosto soggetti politici attivi. Il campo quindi come un luogo di invenzione sociale in grado di suggerire nuove configurazioni politiche e spaziali.
Campus in Camps parte dal formato universitario, con un sistema di partnership composto da attori legittimati dall’esperienza nel contesto, coinvolgendo operatori già presenti nello scenario ponendo le basi per un processo attuabile. GIZ sostiene finanziariamente l’operazione, UNRWA ne costituisce l’agenzia di riferimento per i movimenti e le operazioni sul campo, mentre la collaborazione tra Al-Quds University e Bard College funziona da piattaforma ufficiale per le attività formative. Se il primo anno è incentrato su corsi sperimentali condotti da docenti, artisti, operatori culturali, antropologi, architetti e attivisti locali e internazionali, nel secondo viene richiesto ai partecipanti di sviluppare e accompagnare azioni personali e progetti orientati alla loro comunità, con lo scopo di tradurre le riflessioni collettive in nuove e visibili pratiche nei campi. L’innovatività è costituita dal fatto che il percorso viene completamente concepito attraverso una continua ridiscussione tra i partecipanti e gli ospiti invitati. Piuttosto che un modello di istruzione, Campus in Camps offre invece uno spazio per l’apprendimento reciproco, nel quale la conoscenza non emerge da fonti esterne ma piuttosto da un risultato proveniente dallo sforzo di gruppo. Per questa ragione la struttura del programma è costantemente riformulata in modo da soddisfare gli interessi e i temi emergenti dall’interazione tra i partecipanti, gli ospiti e il contesto sociale in senso più esteso. Si tratta in sostanza della prima Università al mondo dentro un campo profughi, orientata a superarne gli attuali limiti di rappresentazione politica e culturale e alla generazione di progetti in grado di spostarsi dalla matrice umanitaria delle Organizzazioni Non Governative. La complessa selezione dei partecipanti è avvenuta anche sulla base del riconoscimento di personalità attive, dal potenziale emergente o desideroso di costruire un sogno per la propria comunità. Di altrettanto rilievo è il fatto che le attività non si svolgano in un luogo preposto alle attività accademiche, in un contesto altro e quindi alieno alle dinamiche del campo: la sede trova collocazione in uno spazio del Centro Culturale Al Feneiq (Dhehisheh Refugee Camp) e ulteriori iniziative stanno prendendo corpo in luoghi significativi individuati negli altri campi, accelerando l’inclusione di persone al di fuori dalla cerchia dei partecipanti. Il tipo di collaborazione ricercata all’interno del team di progetto mira a coinvolgere persone capaci e motivate, lasciando loro spazio di manovra all’interno di una comune cornice contenutistica e di obiettivi. Guardando con interesse al funzionamento delle collective intelligences e sulla rilevanza della collective awareness, Campus in Camps offre interessanti spunti di riflessione su quanto sia importante coinvolgere tanto figure operative, che svolgono un ruolo istituzionale all’interno della macchina burocratica, in grado di fornire struttura, quanto figure poliedriche e agili, abili a porsi in connessione al “magma sociale”, in grado quindi di produrre movimento. Stabilire ruoli e responsabilità tuttavia non esaurisce un nodo importante delle dinamiche di gruppo: il progetto dimostra di viaggiare più snello ed efficente nel momento in cui ciascuno lo rende proprio. Il momentum di Campus in Camps gode oggi di una particolare fortuna, funzionando come una dinamo in grado di coinvolgere facilmente, di generare progressive entusiaste adesioni.
Il fare assieme è diventata una pratica fondamentale del nostro percorso. Se l’insegnamento il più delle volte riflette una pratica additiva e seriale, la maestria si propone come un modello generativo, esponenziale e reciproco. Calarsi nella realtà dei compagni di conoscenza e Collective Dictionary, seguendo la pratica dialogica e maieutica di Munir Fasheh (uno dei mentori del programma) ed esplicitando una sana e felice arroganza di ridefinire il significato delle parole. Il Collective Dictionary è il primo dispositivo che Campus in Camps ha individuato con i partecipanti, come prassi fondamentale alla ricerca di un piano di discussione condiviso e di un terreno fertile per la crescita dei progetti. Vengono scelti dei termini rilevanti dal quotidiano e il loro significato ridefinito all’interno dello scenario semantico della vita dei profughi. Riflessioni su esperienze personali, interviste, escursioni e ricerche iconografiche costituiscono l’incipit per la formulazione di pensieri più strutturati. Le nuove definizioni vengono quindi prodotte e pubblicate in forma di brevi saggi, come una sorta di “costituzione” costantemente ri-scritta dai partecipanti in collaborazione con gli ospiti e la comunità del campo. È una forma di conoscenza che non ambisce a definire nuovi parametri cristallizati, quanto piuttosto a stimolare un’attitudine alla conoscenza in divenire, in grado di reinterpretare le condizioni peculiari del presente (il campo profughi in questo caso), la nostra esperienza collettiva (il programma) e le auspicabili visioni future (i progetti).
Editing: Alessandro Petti e Diego Segatto Info: http://www.campusincamps.ps/
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