È uscito in questi giorni “Lo stato della città. Napoli e la sua area metropolitana”.
Il volume curato da Luca Rossomando per Monitor Edizioni è un profilo dell’area metropolitana di Napoli che comprende diversi ambiti, dall’urbanistica all’ambiente, dall’economia al lavoro, dalle politiche sociali e sanitarie fino alla produzione culturale. Un volume di 536 pagine, con 86 articoli, saggi, storie di vita, grafici e tabelle con dati aggiornati. Un lavoro collettivo – firmato da 68 autori – che si propone come supporto denso per una discussione sulla città al riparo da stereotipi e semplificazioni.
Di seguito alcuni estratti dal contributo di Luciano Brancaccio, «La camorra dei mercati».
Il tema delle attività d’impresa riconducibili a circuiti camorristi – o mafiosi in generale – è da tempo presente nelle analisi, nel dibattito e, di recente con maggiore ricorrenza, nelle cronache. Basta dare una scorsa alle notizie per verificare la frequenza di inchieste giudiziarie che puntano l’attenzione non solo sul livello criminale violento, ma su vasti intrecci affaristici in cui compaiono, in vario modo combinate, anche la componente imprenditoriale, quella politico-burocratica e a volte quella delle professioni.
In genere, queste attività affaristico-criminali vengono presentate come se costituissero una trasformazione recente del fenomeno mafioso, la sua epigone attuale e “degenerata” (secondo una nota – e altrettanto ingenua – contrapposizione tra un passato mitico di principi etici e un presente ordinario di corruzione). Il mafioso sarebbe, secondo questa visione di senso comune, un capo violento che costruisce la sua reputazione, e quindi la sua leadership, all’interno della propria cerchia comunitaria (parentela, vicinato, compagnia dei pari), in genere collocata nei ceti sociali svantaggiati, e poi, in un secondo momento (o in una seconda fase storica), utilizzerebbe il suo potere intimidatorio per varcare la soglia della “società che conta” penetrando nella sfera dell’economia e dei mercati ufficiali. Un mondo nascosto e primitivo che – inquietante mutazione della modernità – tenderebbe a espandersi improntando di sé, e inquinandola, la parte visibile del mondo economico e le cerchie sociali superiori. Si può dire che la “narrazione ufficiale” del fenomeno mafioso sia tutta ricompresa entro questa dialettica tra underworld e upperworld.
Nella criminalità organizzata campana, l’attitudine imprenditoriale di singoli, gruppi, reti di alleanze tra soggetti diversi è particolarmente evidente. Rispetto alle altre mafie italiane, infatti, i gruppi di camorra, fin dalle loro prime manifestazioni storiche, agiscono su territori più densamente popolati, caratterizzati da mercati vivaci (per quanto marginali e periferici se considerati in un orizzonte più ampio di economia internazionale), di carattere legale (i principali riguardano prodotti della terra, trasporti, edilizia, magliareria e abbigliamento, agroalimentare, distribuzione commerciale, scommesse) o illegale (contrabbando, droga, prostituzione, gioco clandestino, ricettazione, usura). Si tratta di mercati di una certa dimensione, capaci di generare flussi considerevoli di valore e caratterizzati da sistemi di regole non univoci. Regole derivanti in parte dalla normativa statale e in parte da accordi informali, pratiche di violazione o elusione della legge, vincoli di affiliazione e di sopraffazione, codici di comportamento legati al rispetto di gerarchie sociali. È all’interno di questo complesso quadro di scambi economici e di regole sociali che si affermano, in varie epoche storiche, i gruppi che, per la capacità di uso specializzato della violenza e l’attitudine al controllo sociale e del territorio, definiamo camorristi.
In altri termini, dobbiamo considerare il clan di camorra, nella sua versione abituale (per intenderci, quella sancita e sanzionata dall’art. 416 bis), come il punto di arrivo, non di partenza, di un processo sociale di formazione. Dunque, non una variabile esogena che emerge da un mondo oscuro penetrando il mondo economico. Ma il frutto, il risultato dell’operare congiunto di fattori di ordine storico che favoriscono la trasformazione di un’attività imprenditoriale in attività mafiosa.[1]
Vediamo qualche esempio storico. Nel primo periodo postunitario, come ci dicono i numerosi lavori storiografici disponibili sulla seconda metà dell’Ottocento,[2] è soprattutto all’interno del settore dei trasporti (noleggio carrozze, mestieri legati al facchinaggio, rifornimento di biada e mangimi per animali da tiro) e dell’intermediazione dei prodotti agricoli, che troviamo le principali figure di capi violenti. Insieme ai mercati illeciti tipici di una grande città (gioco, prostituzione, usura, ricettazione, contrabbando di alcolici e tabacchi), questi ambienti rappresentano il contesto in cui alcuni soggetti intraprendenti e dotati di capacità di esercizio della violenza si impongono sugli altri.
Nel periodo dell’occupazione alleata e nell’immediato dopoguerra la formazione di famiglie criminali si realizza principalmente nei traffici clandestini tipici dell’economia segnata dalla catastrofe della guerra. In un noto lavoro dello storico inglese Hobsbawm, la figura del camorrista perde la caratterizzazione di leader di un gruppo mafioso per venire associata all’azione di vari tipi di operatori dei mercati attivi in quegli anni: truffatori, magliari, borsaneristi, contrabbandieri di tabacco e benzina, ma anche mediatori dei prodotti ortofrutticoli e fornitori delle pubbliche amministrazioni.[3]
Ma è a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso che la genesi all’interno dei mercati di organizzazioni criminali via via più stabili è distintamente rilevabile. I casi sono molti. Quella che viene considerata comunemente la prima figura di camorrista del dopoguerra, Pasquale Simonetti, è il dominus della borsa merci nei pressi della stazione centrale di Napoli, dove riveste il ruolo di “presidente dei prezzi”. Una decina d’anni più tardi si afferma il gruppo di Alfredo Maisto, boss di Giugliano, che di mestiere fa il mediatore d’automobili e la cui famiglia controlla il mercato ortofrutticolo locale. Vittorio Nappi, il mentore di Raffaele Cutolo, componente di una famiglia benestante gestisce attraverso il fratello il mercato ortofrutticolo di Scafati.[4]
Tutta la nuova generazione camorrista, emersa negli anni Ottanta dopo la sconfitta di Cutolo, è costituita da contrabbandieri e imprenditori-commercianti che si impongono sulla scena criminale grazie alla gestione di mercati legali e illegali. In provincia, a Giugliano, abbiamo i rivali e poi successori di Maisto, i Mallardo, in origine commercianti del settore alimentare e più di recente insediati nella grande distribuzione dei prodotti elettronici. Quella tra le due famiglie giuglianesi è una faida che si sviluppa nel lungo periodo: c’è traccia nelle carte del tribunale penale presso l’Archivio di Stato di Napoli di scontri già all’inizio del Novecento. Una lunga storia tra due famiglie violente, che occupano una posizione di relativo prestigio nella società locale: dunque niente a che fare con soggetti emarginati che realizzano la scalata criminale.
La letteratura sulla camorra, ma in generale sulle mafie, parte solitamente da una prospettiva «mafiocentrica». Questo tipo di spiegazione, influenzata dagli studi criminologici e dalla prospettiva della legalità statale, interpreta le mafie essenzialmente nella loro dimensione politica di gruppo organizzato che nasce negli strati sociali svantaggiati (una sorta di autogoverno della plebe) e tende ad allargare la propria sfera di potere verso l’esterno. I gruppi mafiosi sarebbero dei contropoteri della società legale, dotati di confini netti, che agiscono contendendo il potere alle istituzioni statali o approfittando dell’assenza delle stesse; e che solo in tempi recenti, secondo un perverso percorso di modernizzazione, assumono una dimensione di impresa.
Si tratta di una prospettiva non del tutto infondata ma certamente parziale, che trascura alcuni tratti essenziali dell’agire mafioso, presenti fin dalle origini. Semplificando, possiamo dire che questa visione ufficiale – che distoglie il fuoco dagli aspetti di impresa violenta del fenomeno – è dovuta a due ragioni principali. In primo luogo, una ragione di ordine ideologico (in senso tecnico) connessa alla costruzione del discorso nazionale e all’azione dei dispositivi dell’ordine pubblico, da cui deriva una rappresentazione dei gruppi di camorra come espressione di una «società segreta popolare, il cui fine è il male».[5] In secondo luogo, per una ragione che attiene alla metodologia dell’analisi scientifica attorno a questi temi. Le fonti su cui si basano gli studi sono costituite principalmente – quando non esclusivamente – dalla documentazione giudiziaria, che per sua natura tende a selezionare gli aspetti della realtà che riguardano i reati violenti e che portano alla dimostrazione dell’esistenza del gruppo criminale organizzato.
È opportuno che l’analisi storico-sociale tenga conto della parzialità dei discorsi che si costruiscono intorno a questi fenomeni. Ciò consente di considerare con maggiore distacco e secondo un quadro più completo i circuiti violenti che danno vita a formazioni camorriste, includendo anche gli elementi negoziali e consensuali. A questo scopo risulta cruciale la dimensione economica e di impresa di questi circuiti. I gruppi di camorra prendono forma principalmente come reti di controllo all’interno dei mercati illegali e legali. Si può dire che il gruppo organizzato sia una variabile dipendente, una condizione di arrivo e non di partenza dell’attività criminale. Il gruppo camorrista in senso stretto non precede le attività, sorge invece come fattore d’ordine di mercati già caratterizzati dall’utilizzo della violenza (o dell’intimidazione) come forma di regolazione dei rapporti economici.
Note
[1] Brancaccio L. (2015), Mercati violenti e gruppi di camorra, in Brancaccio L. e Castellano C. (a cura di), Affari di camorra. Famiglie, imprenditori e gruppi criminali, Donzelli, Roma, pp. 5-44.
[2] Marmo M. (2011), Il coltello e il mercato. La camorra prima e dopo l’Unità d’Italia, l’ancora del mediterraneo, Napoli.
[3] Hobsbawm E.J. (1966), I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Einaudi, Torino, basato sulle informazioni di prima mano raccolte in Guarino C. (1955), Dai mafiosi ai camorristi, in «Nord e Sud», II, 13, pp. 76-106.
[4] Sales I. (2006), Le strade della violenza. Malviventi e bande di camorra a Napoli, L’ancora del Mediterraneo, Napoli.
[5] Benigno F. (2015), La mala setta. Alle origini di mafia e camorra. 1859-1878, Einaudi, Torino. La citazione è tratta da Monnier M. (1994), La camorra: notizie storiche raccolte e documentate, Introduzione di G. Gribaudi, Argo, Lecce (edizione originale 1862).