Pubblichiamo un estratto dal libro “Valderrama. Redenzione e pallone” (Jouvence, 2016) a cura della redazione Valderrama Magazine. L’estratto è introdotto da una soggettiva a cura di Alberto Prunetti.
Il calcio non mi interessa (al posto di una recensione)
di Alberto Prunetti
Il calcio non mi interessa.
Il mio rapporto col pallone è discontinuo, fugace e lontano. Mi avvicino al calcio con uno strano senso di colpa e ne parlo malvolentieri.
Ho smesso, col calcio.
O meglio: mi avvicino al pallone come fa con la bottiglia un ex alcolista. Furtivamente, senza dare nell’occhio.
Perché?
Perché ho smesso. Davvero.
Perché un tempo, da piccolo, il calcio è stato l’orizzonte totale della mia esistenza. E poi ho smesso, schifato. Potevo smettere in qualsiasi momento e l’ho fatto.
E da quel giorno che ho smesso, ho visto che fuori dal calcio c’era un mondo.
Da bambino sapevo a memoria altezza, data di nascita e gol realizzati dei giocatori di serie A e B. Seguivo il calcio inglese di Premier League. Conoscevo le formazioni delle nazionali.
“Niente di strano”, direte. “Basta comprare l’album delle figurine Panini e sfogliarlo compulsivamente…”
Sì, però io facevo di più. La domenica andavo a vedere il calcio dei dilettanti, infilandomi col mi’ babbo e il mi’ zio nei derby toscani in cui si sfidavano formazioni di muratori e operai con ambizioni calcistiche. Personaggi che si facevano la permanente prima della partita, che a giornate alterne ostentavano ora la fascia di capitano, ora quella di capocaccia della squadra al cinghiale o il titolo di leader sindacale dei portuali livornesi. Un connubio devastante.
Ogni domenica calcistica facevamo questi giri, intruppati in partite con un pubblico di 50 anziani che si mandavano in culo per 90 minuti.
Dicevamo con babbo che avremmo potuto smettere in qualsiasi momento, dedicando la domenica alla visita turistica delle grandi città d’arte con la famigliola.
Oltre a questo, però, ero un promettente calciatore che si allenava tre volte alla settimana e il sabato si infilava in partite atrocissime nelle Colline Metallifere contro altre squadre di precoci bestemmiatori in pantaloncini corti.
E poi d’estate mi iscrivevo ai tornei estivi. E seguivo il calcio mercato.
E a scuola giocavo a pallone, non solo a educazione fisica ma anche a ricreazione.
E quando non andavo a scuola o agli allenamenti di calcio, il poco tempo libero che rimaneva lo usavo per giocare a pallone in strada.
Se poi era inverno, seguivo il calcio sui giornali locali (si comprava sempre il giornale, allora, perché i babbi seguivano la cronaca calcistica a menadito). E quando avevo finito di leggere ogni singola parola della cronaca sportiva, giocavo a subbuteo o scambiavo le figurine dei calciatori.
Era una dipendenza, certo, ma sapevo che potevo smettere quando volevo.
E così è stato, infatti.
Era andata avanti per anni. Poi c’è stato l’Heysel e la cosa si era già un po’ smorzata. Lì è finita la mia infanzia. Poi sono cresciuto. E quando sono uscito dalla dipendenza dal calcio, ho avuto una sorta di rigetto. Per anni non volevo neanche sentire parlare di calcio. Tanto vincevano solo le squadre del cavolo.
Quindi posso dirlo in tutta calma: il calcio non mi interessa.
Ormai sono un adulto, anzi, sono più che un adulto, sono un intellettuale. Il calcio non mi interessa davvero.
Non guardo le partire in tv, ad esempio. Se proprio devo, ci sono gli highlights, o qualche streaming su siti cinesi di betting. Di nascosto, certo. E poi cancello la cronologia uscendo dal browser.
La mattina non compro mai La Gazzetta dello Sport. Al massimo la infilo dentro al Manifesto, se proprio la devo comprare. Altrimenti la leggo al bar, quando nessuno mi vede. Faccio finta di bere un caffè… cioè, lo bevo davvero e faccio finta di leggere la Gazzetta. La leggo, ma senza dare nell’occhio.
Posso smettere quando voglio.
La mia compagna odia il calcio. E anche i suoi genitori non lo sopportano. Anch’io le ho detto che a me non interessa, sono 11 poveracci che inseguono un pallone. E’ l’oppio dei popoli, lo diceva anche il Maestro.
A lei che il calcio non interessava lo capii subito. E come la pensavo lo dissi appena ci siamo conosciuti, seduti su una panchina, nascondendo un libro di Eduardo Galeano sul fútbol che per caso mi era rimasto nello zaino. Non mi interessa il calcio e non conosco gente che sia interessata al tema.
A parte mia mamma e mia nonna.
Della vecchia guardia domestica, sono rimaste le mie vecchie, sole in casa. Mia madre segue le partite alla buona ma sa tutto sulle fidanzate dei calciatori. E’ gossip, non è calcio, tecnicamente. Nonna tifa Italia anche quando c’è Spagna-Turchia, per lei giocano sempre gli azzurri. Colpa della vista e della vecchiaia, colpa del televisore d’annata mezzo-scassato che col decoder ha una pessima ricezione: è giustificata anche lei.
E allora?
Allora… allora abbiamo un problema col calcio, in casa.
Il problema è mia figlia, che non ha neanche due anni. Dopo “mamma” e “babbo”, la prima parola che ha pronunciato è stata “gol”.
Appena vede una palla o un pezzo di campo verde, cambia espressione, le gote le si incendiano, alza il pugno e tira fuori uno sguardo duro da hooligan. E poi urla: “Goool!”
La mia compagna non sa spiegarselo.
Nessuno a questa bambina ha mai detto nulla di quel gioco di fanatici proletari working class.
E allora perché la piccina all’improvviso si sveglia alle 4 del mattino e nel sonno urla. “Babbo!!! Goool!!!”?
Non so spiegarmelo neanch’io.
Io non le ho insegnato nulla.
Giuro.
E poi, insomma, può smettere quando vuole.
Come ho fatto io. Davvero.
[Tutto questo per far capire ai lettori de Il lavoro culturale perché non ho potuto recensire il libro Valderrama. Redenzione e pallone di cui potete leggere un estratto di seguito. Recensirlo significherebbe ammettere che l’ho letto. E io non l’ho letto, l’ho solo sfogliato. Velocemente. Con disinteresse, ovviamente. Pronto a smettere a qualsiasi pagina. Però, arrivato alla fine, ho detto: cazzo che gollazzo ‘sto libro!]
La solitudine dei numeri 69 (pp. 134/139)
In principio era il verbo. E insieme al verbo era il numero. Chiaro e condiviso. Maglie dall’1 all’11. Il portiere con l’1. Poi, nell’ordine, i difensori, quindi i centrocampisti, infine gli attaccanti. C’erano eccezioni e una diffusa tolleranza sui numeri 4, 5 e 6, difensori o centrocampisti a seconda delle tradizioni o delle latitudini. Ma tutto sommato ci si capiva. Il mondo (del calcio) era un giardino. La retorica dell’età dell’oro, specie nel calcio, è un sintomo di paranoia. Ma anche i paranoici, talvolta, hanno ragione. Sarà un caso che il nadir del calcio italiano corrisponde al 69 di Meggiorini, al 99 di Cassano e al 45 di Balotelli? Possiamo fingere davvero che non stia accadendo niente? Da anni gli dei del calcio ci tempestano di segnali che rifiutiamo di cogliere. L’anima del calcio è malata, assediata dai sette vizi capitali, che si manifestano attraverso i numeri di maglia.
Accidia
Male antico, origine delle sciagure odierne. Un’inerzia burocratica che affonda le radici nella Coppa del Mondo, in cui per lungo tempo i numeri sono stati distribuiti secondo principi alfabetici, relativi o assoluti, come per l’Olanda finalista ai mondiali del ’74: il numero 8 del portiere Jongbloed è il primo caso noto a rompere la sacralità del numero 1. Sebbene il principio alfabetico venga poi abbandonato, ai mondiali argentini del ’78 molti olandesi manterranno i numeri ereditati dal ’74, attirandosi addosso un’altra (sacrosanta) sconfitta. Simile il caso dell’Argentina nel 1978, 1982 e 1986, che produce la maglia numero 1 degli offensivi Ardiles e Almiron, rispettivamente ai mondiali spagnoli e messicani. Tuttavia l’alfabetismo quasi assoluto prevede saggiamente due eccezioni: il 10 di Maradona e l’11 di Kempes nel 1982, il 6 di Passarella, il 10 di Diego e l’11 di Valdano nel 1986. E, infatti, l’Argentina vince due dei tre mondiali. Più cervellotico e parimenti burocratico il principio alfabetico per reparto adottato dall’Italia a partire dai mondiali 1978, forse in seguito allo sfortunato dualismo Mazzola-Rivera del 1974. Principio che prevedeva l’attribuzione d’ufficio delle maglie numero 1, 12 e 22 ai portieri e poi una rigida numerazione alfabetica all’interno dei sottogruppi: prima i difensori, poi i centrocampisti, infine gli attaccanti. Sottogruppi che diventano addirittura cinque nei mondiali ’82, con l’aggiunta del reparto ali: Causio, Conti e Massaro. Tra le rarissime eccezioni troviamo il 6 di capitan Baresi, il 10 di Roberto Baggio (che quattro anni dopo si accontenterà di un anonimo 18) a Usa ’94 e il 3 di capitan Maldini a Euro ’96. Comprensibilmente turbata dalla visione della maglia numero 9 attribuita a Mauro Tassotti nel ’94, Moreno Torricelli nel ’96 e ad Albertini nel ’98, la FIGC ha optato con prudenza per una sostanziale liberalizzazione a partire da Euro 2000. Ma ormai il virus era in circolo.
Superbia
L’errore più grande delle federazioni, italiana per prima, è stato quello di rinunciare al divino principio della numerazione progressiva, argine contro l’ipertrofia numerica. Non bastavano i numeri fi no al 20, poi fi no al 30? La superbia dei calciatori li ha spinti a credersi più forti della tradizione, scegliendosi il proprio anno di nascita come numero. Non era sufficientemente nefasto il triplice presagio, materializzatosi nell’estate del 2008 a Milanello, del trio Shevchenko 76, Ronaldinho 80 e Flamini 84 (a circa tredici milioni netti d’ingaggio annuale)? Nessun club come il Milan degli ultimi anni ha messo in luce il teorema della decadenza attraverso i numeri. Basti pensare ai grandi ritorni rossoneri, ovvero l’abitudine che spinge ex leggende della storia milanista a tornare alla casa madre in età avanzata per un’ultima, catastrofica bottarella. Sempre annunciata dalla scelta della maglia. Così appunto Shevchenko, passato dal glorioso 7 allo squallido 76. Così Donadoni, primo acquisto e simbolo dell’era Berlusconi, che dopo l’esperienza ai New York Metrostars, si ritrovò nel ’97 con un misero 32. Anche Leonardo optò per il 33 per il suo ritorno zoppo (appena una partita) nel 2002. Infine Marco Simone, tornato al Milan nel 2001 dopo l’esperienza francese, scelse con sprezzo del ridicolo il 69, suo anno di nascita. Si potrebbero anche sopportare con pazienza il 97 di Bonazzoli dell’Inter e il 98 di Mastour del Milan, sapendo che tra tre-quattro anni, e forse per un decennio, potremo riabbracciare i vecchi numeri dall’1 all’11. Ma il calcio sopravviverà fi no ad allora? Di sicuro non vale neppure la pena di aprire la questione dei nomi, diminutivi e soprannomi, che ultimamente hanno cominciato a proliferare anche in Italia. Un elenco casuale è sufficientemente ripugnante: Ibou (Ba), Nine (Kaviedes), Nippo (Nappi, ai tempi della Ternana, dopo grandi insistenze del giocatore), Mago (Maicosuel). Fermiamoci qui. E ricordiamo velocemente, prima di dimenticarlo per sempre, il 44 di Gatti al Perugia (sì, 44 Gatti).
Lussuria
69, il numero cunnilingus, elementare soglia di decenza che in altri campionati è impossibile violare per legge, fu introdotto in Europa dal basco Bixente Lizarazu, che si giustifi còparlando del proprio anno di nascita (1969) e della sua statura (1.69), ma su cui ricade la responsabilità della diffusione del germe. Germe che attecchisce soprattutto, ça va sans dire, in Italia, dove il numero cunnilingus ha conosciuto la più fedele schiera di adepti. Primus inter pares Riccardo Meggiorini, che lo indossa dai tempi del Cittadella in Serie B, in omaggio (dice lui) al numero di corsa del motociclista Nick Hayden. Prima ancora David Balleri e Marco Simone appunto, che almeno nel ’69 ci sono nati (lussuriosi e superbi). Dopo, invece, sono arrivati i lussuriosi indecifrabili, come Sturaro nel Genoa e il giovanissimo Raffaele Selva del Napoli. Ma la società dov’era quando si distribuivano i numeri? E le famiglie?
Avarizia
Solo apparentemente sotto controllo, l’abitudine nordamericana di ritirare i numeri di maglia si diffonde anche in Europa. La maglia è mia e me la ritiro io. E passi quando si parla del 10 di Maradona, del 6 di Baresi o del 3 di Facchetti, che comunque tolgono spazio ai numeri tradizionali e favoriscono la corsa verso il numero alto. Passi anche per gli anonimi giocatori morti in servizio, come i poveri Pisani 14 dell’Atalanta e Mayelé 30 del Chievo. Ma è tollerabile l’abitudine ruffiana e tirchia di concedere il numero 12 alle curve? Il dodicesimo uomo, allisciamo loro il pelo che tanto non ci costa niente. Peggio di così solo la variabile, diffusa negli Stati Uniti, di usare lo zero nelle sue diverse declinazioni di zero semplice (0), zero zero (00) o prima di un altro numero. Come nel caso di Rodrigo Ceni, portiere-goleador del San Paolo, che dal 2007 scende in campo con la maglia numero 01, tutto sommato accettabile dato il personaggio. Già meno piacevole, ma comunque episodico, lo 08 indossato da James Beattie e Steven Gerrard nel derby Everton-Liverpool del 2006, giustificato dall’intenzione di promuovere l’elezione di Liverpool a capitale europea della cultura nel 2008. Si commenta invece da solo lo 0 del marocchino Hicham Zerouali, detto appunto “Zero” ai tempi dell’Aberdeen.
Gola
Perché accontentarsi di una cifra? Anche due possono essere poche. E poi c’è stata l’apertura della Figc: niente più numeri progressivi, si può fare quel che ci pare. Ingozziamoci, abboffi amoci, più alto è meglio è. E allora vai con il 66 di Legrottaglie al Milan e il 99 di Cassano, che se lo porta addosso ancora oggi. Oppure il precoce 88 di Buffon, in odore di nazismo, anzi no, è sinonimo di attributi, come se fosse una scusa valida, e come se la scelta del 77 (prima di ripiegare sul classico 1) fosse molto migliore. Si può fare anche di peggio, come in Sudamerica: le maglie a tre cifre, abitudine consolidata in Messico ed eccezione generalizzata in Brasile e Uruguay. Cifre tonde, come il 300 di Juninho Pernambucano e di Felipe al Vasco da Gama nel 2011. Ma anche il 108 di Pablo Bengoechea al Penarol nel ’99 o il 618 di Rodrigo Ceni il giorno in cui ha battuto il record di presenze al San Paolo.
Invidia
Mal comune mezzo gaudio. Ma il numero di maglia, nel bene o nel male, condividerlo non si può ed ecco che il desiderio spasmodico per la cifra inarrivabile genera mostri. Il peccato originario è un caso noto. Inter, stagione ’98-’99. Ivan Zamorano, dopo un anno di resistenze, cede il numero 9 al compagno di squadra Ronaldo. Invece di chiedere con educazione l’11 a Nicola Ventola, finge di accontentarsi di un 18, salvo poi, con due pezzi di scotch bianco a forma di croce tra le due cifre, creare lo storico 1+8 per cui oggi è ricordato dai più. Negli ultimi anni i calciatori accettano con sempre minor modestia il fatto che il loro numero sia già occupato da un precedente inquilino. E per ripicca raddoppiano il numero che avrebbero desiderato, incorrendo così anche nel peccato di gola. Casi celebri: il 99 di Ronaldo ai tempi del Milan, l’88 di Hernanes all’Inter e il 77 di Quaresma, sempre fra i nerazzurri.
Ira
La rabbia che si impossessa di noi, che ci spinge ad atti violenti di cui poi ci pentiamo sussurrando un disarmato “non ero più io”. L’ira che si impadronisce dei portieri e li spinge, giustificati dal precedente di Jongbloed, a rinunciare al loro classico e giusto numero 1. E che, con il 12 affidato alle tifoserie, decide di vendicarsi degli altri numeri. Come Buffon, Ceni e Vitor Baia, di cui abbiamo già detto. Ma anche Luca Bucci che, a fi ne carriera, al Parma, veste prima il 5 e poi il 7. Lupatelli che sfi da il ridicolo e al Chievo si concede addirittura il 10, Viviano che sprezzante indossa il 2 alla Samp, o Soviero, noto soprattutto per il video in cui bestemmia contro un incolpevole guardalinee, che ricorda al mondo la propria esistenza scegliendo il numero 8 al Crotone. Ma non era meglio fare come Ballotta, che smessi i guanti del professionisti si è riscattato di anni di frustrazione concedendosi un anno da attaccante in Prima categoria? C’è una possibilità di salvezza? Naturalmente no, tranne che per Ballotta, forse. Troppo cammino è stato percorso nella strada della decadenza. Tornare indietro non si può. Occorre accelerare. Diffondiamo l’usanza delle tre cifre anche in Italia, anzi sostituiamo i numeri con delle faccine, anzi delle foto, delle sagome di animali. Facciamola finita. Dio riconoscerà i suoi. E in paradiso giocheremo con maglie monocolore, senza nomi, coi numeri dall’1 all’11.