Il Caffè amaro di Corradino Mineo. Spunti sul genere letterario dell’intervista politica

Esce oggi per Imprimatur una lunga intervista a Corradino Mineo, a cura di Roberto Bertoni e Andrea Costi. Tra i tanti temi affrontati, Mineo si sofferma sul fare politica della nuova sinistra italiana. Il suo è uno sguardo esterno, da giornalista, su un mondo altro. Come un etnografo Mineo indaga, rielabora e restituisce i cliché radicati tanto in ambito accademico quanto nel senso comune, tra cui quelli relativi alla professionalizzazione dell’universo politico. Pubblichiamo in anteprima un estratto dei passaggi dedicati all’attuale governo e al ruolo della sinistra italiana.

Le cose che Renzi fa e dice si muovono lungo terreni battuti prima di lui da politici di sinistra, si spiegano con battaglie non combattute e con errori commessi in passato. Tre esempi. Un partito senza gente, senza militanti, che rischia di non avere più giovani volontari quanti ne bastino per tenere aperte le sedi in ogni villaggio e per animare un minimo di attività sul territorio, un partito con sempre meno iscritti. Sto parlando del PdR, il partito di Renzi. Ma si può sostenere che questa cosa affondi le sue radici addirittura nella decisione di sciogliere il Pci, con la nascita del Pds e la scissione di Rifondazione. Il gruppo dirigente intorno a Occhetto credeva che liberarsi della base, proletaria ma stalinista, fosse un male necessario, in fondo un bene, perché – usavano dire – «il partito è come una piramide rovesciata: il vertice è più vicino all’Italia reale, più capace di esercitare una egemonia se si libera dai lacci e lacciuoli». Veltroni andò oltre: contrappose il Pd delle primarie a quello degli iscritti. Immaginò un partito del leader, che si racconta prima di discutere con la base, un partito con il quale ottenne nelle elezioni del 2008 più voti di quanti non ne abbia presi Renzi alle Europee. Ma fu battuto da Berlusconi e quella forma partito non resse l’urto delle correnti. Dunque Renzi non inventa, non crea, al massimo riprende e trasforma.

La seconda questione riguarda il rapporto tra forma e contenuti della politica. Dopo Tangentopoli e gli attentati di mafia del ’92 e del ’93, la sinistra si illuse che cambiando la struttura dello Stato si sarebbe potuto rompere l’incantesimo che l’aveva vista sempre all’opposizione. Da allora ogni attenzione si è spostata sulla legge elettorale, che doveva essere maggioritaria. E sul governo, perché “se governiamo noi tutto si può fare”. Tutto cosa? Questo “cosa” si è cominciato a non dirlo più e, alla fine, si è completamente rimosso. Ora Matteo si propone come soluzione, come l’unico che possa portare la sinistra al governo e tenercela a lungo. Penso che ci creda. Certo ci credono molti vecchi iscritti e simpatizzanti, che vengono da lontano e per i quali vincere è tutto, le idee dopo. Insomma Renzi è l’acceleratore della crisi della sinistra, non la causa.

Infine l’Europa. Ma possibile che dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo dell’Unione Sovietica la sinistra italiana non abbia immaginato niente di meglio che entrare in Europa dalla porta di servizio? Facendo i compiti a casa, usando il risparmio delle famiglie per convincere i tedeschi a farci entrare nell’euro, senza porre il grande tema dell’unità politica, e nemmeno di un ministro dell’Economia dell’Europa che fosse interlocutore e controparte della Bce? Dietro il vuoto di oggi c’è una sinistra che per sentirsi pragmatica ha rinunciato a un’idea del futuro. Senza visione. Ha governato in Italia, in Francia, in Spagna e persino in Germania, ma la sua politica mostra la corda, ora che il neoliberismo ha provocato la crisi più grave dal ’29.

Sì, Renzi si nutre del fallimento storico della sinistra e promette di portare alla ribalta gente più giovane e idee nuove, la cosiddetta generazione Telemaco. Piero Ignazi in un articolo comparso su «la Repubblica» ha ventilato una frattura generazionale fra nuove leve e vecchia guardia. È così netta questa distinzione, o si tratta di un nuovo abito che, però, non fa il monaco?

La frattura generazionale c’è: non a caso il nostro premier nasce come rottamatore dei vecchi dirigenti del partito. Forse però dovremmo chiederci chi siano questi quarantenni e fino a che punto li possiamo considerare innovatori. In gran parte sono cresciuti all’ombra dei D’Alema, dei Prodi, dei Veltroni e dei Franceschini. L’agone in cui hanno potuto sperimentare le loro capacità è quello della politica locale, elezioni del sindaco, dei consiglieri regionali, primarie. Nella versione Pd, la buona politica. Mentre quella nazionale sarebbe stata corrotta perché dominata da Berlusconi. Ma in realtà è proprio nelle Regioni e nelle città che la politica italiana si è corrotta e si è trasformata. La politica è diventata un mestiere, a livello locale più ancora che sul piano nazionale. Cosa ci dice la vicenda del Mose se non che persino un grande borghese, una persona per bene, che non ha certo bisogno di rubare, come Orsoni, alla fine è finito coinvolto da un sistema di potere consociativo e spartitorio, in rapporti con comitati e mediatori d’affari che non risparmiano niente e nessuno? E l’ondata dei sindaci arancione, di Genova, Milano, Napoli e Palermo, non presuppone forse un giudizio negativo dei cittadini anche sui politici quarantenni che costituivano già prima di Renzi il nerbo della macchina dei Dem sul territorio? Ecco il punto.

Più che la casta, dunque, sarebbe da rottamare l’esercito della micropolitica, dei rappresentanti locali, delle persone che hanno fatto della politica la loro rampante professione?

[…]

La vicenda dei 101 è stata probabilmente il vero spartiacque. Il momento in cui una parte del Pd ha trovato, protetto dal voto segreto, il coraggio di dire basta. Basta con questa presunzione che la sinistra aveva di essere diversa. Basta con coalizioni che si sfasciano come l’Unione di Prodi o che non vin­cono come Italia Bene Comune. Il Pd sia innanzitutto un partito di governo! E un partito di governo non può farsi umiliare da Grillo in diretta streaming. Meglio, molto meglio, governare con Berlusconi. Questo pensavano i 101 mentre erano costretti ad applaudire Romano Prodi, presidente e fondatore del partito, che il segretario stava proponendo per il Quirinale. E poco dopo, davanti all’urna e nel segreto, lo tradivano, perché provare a eleggerlo era, ai loro occhi, una provocazione nei confronti della destra, con cui dopo si sarebbe dovuto governare. Votare Prodi, per loro, significava aprire la strada a nuove elezioni anticipate.

Lei si è fatto un’idea di chi siano stati questi famosi 101?

«Chi sono i 101: fuori i nomi» gridavano i ragazzi di Occupy Pd. Io so! Li conosco tutti, li ho visti uno per uno far la coda per entrare nel governo guidato da Letta e poi in quello Renzi, li ho visti spartirsi poltrone e poltroncine: presidenti, capi gruppo, relatori influenti. Ho letto pena e disprezzo nei loro occhi quando, da solo, ho alzato la mano all’assemblea di deputati e dei senatori contro la scelta di andare in ginocchio da Giorgio Napolitano per chiedergli di restare presidente. Li ho visti trattarmi con sufficienza (chi è quest’Ufo, che ne sa lui della politica vera?), poi, con fastidio, li ho sentiti invocare provvedimenti «perché in una comunità la maggioranza decide e la minoranza si adegua». Anche se, per loro, ci si adegua solo quando il voto non è segreto. Io so, e mi perdoni Pasolini se gli faccio il verso. So perché da intellettuale, da giornalista «che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere, di immaginare» li ho visti crescere all’ombra del potere, nelle Regioni o nei Ministeri o nelle segreterie di D’Alema o nella Margherita.

[…]

Forse è presto per dare un giudizio sul governo del rottamatore. Il tempo dirà quante promesse siano sostenibili e quante destinate a rimanere annunci. Se il consenso di cui il premier gode si confermerà oppure verrà a mancare. Se l’Europa aiuterà il nostro Paese a uscire dalla trappola recessione-deflazione o se invece si intestardirà nel rigore più cieco. Tuttavia sono già chiare alcune caratteristiche di quest’esperienza.

Quello di Renzi è il governo della politica, della rivalsa e del riscatto della politica. Invece di presentare un progetto, più o meno organico, il premier agisce sulla situazione contingente, analizza le contraddizioni, valuta le forze in campo, coglie le debolezze degli interlocutori, sceglie la linea di minore resistenza e colpisce. Contando sul fatto che ogni vittoria si traduca in più fiducia nel suo governo e, quindi, in maggior forza. Si potrebbe dire che Renzi vampirizzi gli avversari che sconfigge. Il progetto è quello di una democrazia governante. Il premier ripete che la sera stessa del voto chi ha vinto deve sapere che potrà governare incontrastato per l’intera legislatura. Non sembra restare spazio per parlamentari scelti dal popolo indipendentemente dalla designazione del premier. Né resta spazio per l’autonomia del mandato parlamentare. La cacciata di Mineo e Mauro dalla Commissione affari costituzionali, l’abuso di leggi delega e di voti di fiducia, la soppressione dell’elezione diretta dei consigli provinciali ma non delle Province, dell’elezione dei senatori ma non del Senato, sono scelte che muovono verso un medesimo destino. Gli italiani saranno liberi di votare un partito e di scegliere un premier, ma poi basta, per cinque anni il premier resterà dominus incontrastato del governo e delle istituzioni.

Renzi ha preso atto che il centro, come formazione politica, si è dissolto e che la destra è profondamente divisa e non riesce a immaginare un dopo Berlusconi. Perciò seleziona i suoi avversari soprattutto a sinistra (professoroni con il totem della Costituzione, senatori del Pd che chiedono garanzie per tutti e non si accontentano del 41 per cento, sindacalisti che difendono presunti privilegi degli occupati, presidenti di Regione che non vogliano tagliare gli sprechi). Dalla De Filippi e dalla D’Urso Renzi si fa acclamare dal popolo della destra, se partecipa a un talk show della Rai o di La7 usa la grinta per giocare sul senso di colpa della sinistra.

Il governo si presenta in Europa come unico possibile garante della stabilità in Italia. Usa la minaccia di Grillo e del Movimento 5 Stelle come quella dei barbari che premono alle porte di Roma. Solo un imperatore barbaro, ma già insediato nella capitale, può trattenerli lontano.

Non è – almeno per ora – un governo riformatore. Si cura poco del merito delle riforme. Annuncia provvedimenti tempestivi che poi tardano ad arrivare al Quirinale perché in realtà occorre riscriverli. La compagine governativa non brilla, come se il primus non ami troppo condividere la scena con dei pares. Il governo sembra affastellare provvedimenti imperfetti, talora non coerenti, con una copertura finanziaria creativa. In molti, in Italia e in Europa, se ne rendono conto, ma tanti pensano che il rischio del nuovo sia meno grave della paralisi del vecchio.

Print Friendly, PDF & Email
Close