Intervista a Cooperativa di Narrazione Popolare. In vista dei seminari del 16 e 17 maggio, in collaborazione con 404: file not found, oggi è la volta della CNP.
Cooperativa di Narrazione Popolare è un progetto narrativo nato in rete grazie all’operato di tre scrittori di talento, Ilaria Giannini, Jacopo Nacci, Enrico Piscitelli, tutti con precedenti pubblicazioni in cartaceo. L’opera d’esordio della CNP è intitolato Lo zelo e la guerra aperta, e vi si raccontano le vicissitudini lavorative e sentimentali di una giovane coppia alle prese con la presente situazione contrattuale dettata dalla normativa in vigore, e con tutto ciò che comporta sul piano emotivo e personale. La vicenda è suddivisa in tre quadri, di cui sono autori rispettivamente i tre membri di CNP, per cui non si può parlare tecnicamente di un progetto di scrittura collettiva. Tuttavia, seppure lo stile delle tre sezioni sia fortemente individuale, la narrazione è resa omogenea sia sul piano tematico sia per alcune scelte stilistiche condivise, ovvero il ritmo spedito, un linguaggio vivido, le ambientazioni quotidiane. Quest’opera si pone nel quadro di quella che viene definita “narrativa del precariato”, pur mantenendo caratteri distintivi, ad esempio l’adozione di punti di vista conflittuali, che espongono il tema dell’esperienza del precariato lavorativo e il suo corrispettivo esistenziale a un punto di vista molteplice amplificandone la complessità.
Ad aumentare l’interesse per il progetto è il fatto che la CNP ha compiuto un gesto di estrema emancipazione dai meccanismi editoriali di questo paese, esercitando una forma di autopubblicazione al di là di ogni compromesso, con una formula all’avanguardia che elimina in un solo colpo tutti gli intermediari editoriali. Ecco dunque che troviamo l’elemento chiave che determina la linea di rottura fra l’operazione di CNP e, da un lato, la forma narrativa blogghistica con la sua natura frammentaria e, dall’altro, l’autopubblicazione tramite servizi online sul modello di lulu.com. Questo elemento è la fiducia nella qualità della propria scrittura e nelle competenze editoriali acquisite lavorando per anni nel settore dell’editoria. Questo modello di autopubblicazione supera in un solo passo qualsiasi falso problema riguardo l’editoria a pagamento ed è stato recentissimamente adottato anche da Adriano Sofri, per la sua quasi istantanea risposta al film di Marco Tullio Giordana Romanzo di una strage tratto dal romanzo di Paolo Cucchiarelli Il segreto di Piazza Fontana (Ponte alle Grazie, 2012). [La risposta di Sofri è in realtà una risposta a Cucchiarelli, anche se arriva in concomitanza con l’uscita del film e non con quella del libro, la cui prima edizione datava al 2009.] Il libro di Sofri esce appunto solo in e-book scaricabile gratuitamente – in ben tre formati, quindi caricabile su ogni tipo di e-reader e tablet senza bisogno di particolari competenze informatiche – da un sito dedicato, e non da siti di appoggio, cioèwww.43anni.it. E quindi chiaro che c’è in corso un conflitto fra le dinamiche editoriali e il narratore che non desidera si interpongano ostacoli fra la propria storia o, potremmo dire, fra la propria verità, e il lettore che è destinato a riceverla.
Quali sono questi ostacoli? Innanzitutto compromessi editoriali sempre più insopportabili e invasivi riguardo scelte stilistiche, tematiche, anche di pura caratterizzazione, allo scopo di incontrare il favore di un pubblico che, ricordiamolo, si forma su ciò che trova in libreria molto più di quanto la libreria di formi su specifiche esigenze narrative del lettore. È il mercato a formare il gusto e non viceversa, come dovrebbe essere; questa cosa sembra una banalità, detta così, ma in una società foucaultianamente disciplinata dalla cultura dello spettacolo, vale la pena di ricordare più frequentemente possibile che il gusto rappresenta il primo grimaldello in possesso del cittadino per scardinare ogni banalizzazione semantica, e dunque in ultima analisi, ogni meccanismo disciplinare.
Vogliamo porre una serie di questioni a CNP per chiarire quali sono gli obiettivi che si pongono e qual è il messaggio che con questo progetto stanno mandando al mondo editoriale e soprattutto ai lettori.
Claudia: Come e da cosa è nata l’idea di fondare la Cooperativa di Narrazione Popolare?
Ilaria: CNP è nata dalle ceneri di un’antologia che non ha mai visto la luce. I nostri racconti parlavano dell’Italia dei nostri giorni ed erano stati scritti con un metodo di per sé già collettivo: le storie erano connesse, intrecciate le une con le altre, ciascuna rifletteva la sensibilità del suo autore ma erano come le facce dello stesso prisma. Abbiamo deciso che quei racconti si meritavano di arrivare ai lettore e che probabilmente sarebbero circolati molto di più con un sistema di autoproduzione, che bypassasse il meccanismo editoriale.
Claudia: Il nome è chiaramente ispirato all’associazionismo di metà Ottocento, e fa riferimento alla natura pioneristica della cooperazione di categoria. Questo fa pensare che la narrazione come operato sia da voi intesa come un’attività di pubblica utilità e che di conseguenza debba essere protetta da interessi lobbistici e corporativi. La cooperativa degli scrittori contro la corporazione degli editori, è questa l’idea?
Enrico: La narrazione popolare è sempre esistita. I miti, l’epica, le favole sono stati tramandati per secoli, oralmente. L’editoria, invece, è cosa molto più recente, ha sì cinquecento anni, ma è solo da due secoli che è strutturata come la intendiamo oggi. Le storie sono molto più vecchie, le narrazioni risalgono alla notte dei tempi. Nel nome c’è “cooperativa” perché la forma cooperativistica è sancita dalla nostra Costituzione, ed è la più pura: delle persone si mettono insieme, ognuno fa quello che sa fare e insieme si costruisce qualcosa, “senza fini di speculazione privata”.
Jacopo: A me il nome piaceva per l’immaginario che richiamava, e infatti gli abbiamo affiancato anche un apparato iconografico. Se ci pensi è un’operazione quasi post-postmoderna, dato che il recupero delle estetiche ideologiche è arrivato con la new wave, e non c’è bisogno di scomodare i CCCP, basterebbero i Frankie Goes To Hollywood e i Depeche Mode, quindi la nostra operazione estetica assomiglia a un recupero del recupero. C’è da dire che il recupero operato negli anni ‘80, per quanto fosse solo estetico o si pretendeva fosse solo estetico, tradiva in ogni caso una fascinazione, e in certi casi anche un’aperta appartenenza ideologica. Vi leggo un riutilizzo del simbolo in senso estetico senza svuotamento di significato, un’ambiguità senza disincanto ironico. A naso direi che anche il nostro uso è ambiguo senza essere ironico: penso ai Public Enemy che salgono sul palco circondati dalla Security Of The First World armata di uzi. Poi c’era anche un’altra componente, cui penso Enrico tenesse particolarmente: il fatto che il nome dovesse essere quanto più aderente alla cosa: non un nome d’arte di gruppo, né semplicemente i nomi degli autori in copertina, ma qualcosa che spogliasse di misticismo l’autorialità – per poi, questo è ovvio, colmare di misticismo l’immagine della collettività, della produzione etcetera – e nel contempo non nascondesse i nomi degli autori, un po’ perché immagino ci teniamo, un po’ perché il preteso mistero avrebbe mitigato la potenza della trasparenza comunicata da un nome così tecnico.
Enrico: La potremmo definire una forma di semianonimato. Siamo, ci chiamiamo: Giannini, Nacci, Piscitelli, ma non mettiamo in copertina i nostri nomi. Del resto, ora più che mai, sono tutti in copertina. Alle scorse elezioni comunali, nel mio paese, c’erano cinque candidati sindaco, e ventuno liste, oltre settecento candidati al consiglio comunale, su quarantamila votanti. Alle prossime elezioni non saranno di meno, e tutti hanno i “santini” elettorali, i manifesti grandi e piccoli, dei claim spesso imbarazzanti. Ovunque uno si giri vede questi faccioni, sei metri per tre, o tre metri per uno. Ecco: noi non chiediamo voti, non ci candidiamo. Vorremmo scrivere e far scrivere delle storie. Tutto qui.
Claudia: Avete divulgato la vostra prima opera in formato epub e pdf da un blog dedicato al progetto, quindi non vi siete affidati al print-on-demand. Si tratta di una dichiarazione di guerra a tutti gli intermediari della narrazione – fossero anche i gestori di un servizio online – e quindi dell’affermazione della necessità di consegnare l’opera direttamente al consumatore?
Jacopo: Personalmente non lo so, se è una dichiarazione di guerra è una conseguenza, implicata dallo stato delle cose. Ho opinioni diverse a seconda dell’aspetto cui si guarda. Penso che il lavoro vada pagato, e penso che la scrittura sia una forma di artigianato. Penso che le storie siano sempre collettive, se non già completamente nella genesi, almeno nella loro funzione, e credo che dovrebbero circolare liberamente. Penso che l’autoproduzione sia una cosa bellissima. Penso che l’editoria a pagamento sia una gran brutta cosa, ma – dirò una cosa impopolare – non tanto per gli editori, quanto per gli autori a pagamento: trovo che pagare per vedere il proprio nome su una copertina, per dimostrare – pagando – di essere uno scrittore, sia terrificante, e che appartenga a un mondo in cui il lavoro che la scrittura comporta è tenuto in gran dispregio; il dispregio lo trovi sempre, sull’altro lato della venerazione, in entrambi i casi c’è una mancanza di familiarità, una distanza: la considerazione del libro come titolo nobiliare, titolo poi borghesamente comprato col danaro. Come mettere insieme tutte queste cose ancora non lo so, dovrò trarre delle conclusioni, ma sento che la conclusione coerente c’è. In ogni caso sarebbe bello che la CNP diventasse un laboratorio anche in questo senso, e forse anche una via, un giorno, affinché gli scrittori possano campare delle proprie opere.
Enrico: alla guerra si va armati e – diceva Sun Tzu – con forze superiori all’avversario. Onestamente non credo sia il nostro caso. A dirla tutta, letteralmente, Sun Tzu scrive: “Chi, da solo e privo di strategia, attacca il nemico alla leggera, verrà inevitabilmente fatto prigioniero”. Quindi, no, non andiamo in guerra. Io posso dire di guardare con ostilità molte pratiche dell’editoria – ma non solo dell’editoria – e che autoprodursi dà una bella sensazione. Nel nostro caso ci siamo confrontati fra di noi, senza intermediari, appunto. Ed è stato un bene.
Ilaria: Anche io non ho vissuto la nostra scelta come una dichiarazione di guerra ma come una semplificazione del meccanismo di circolazione delle storie, come se Lo Zelo e la guerra aperta fosse un prodotto a chilometro zero che arriva da chi lo scrive a chi lo legge senza filtri. Questo lascia più liberi noi di costruire le storie a cui teniamo e lascia più libero anche il lettore, che con il print-on-demand avrebbe dovuto pagare per l’oggetto-libro. Io non sono attaccata in maniera particolare al libro cartaceo, credo che sia il contenuto quello che conta e come scrittrice spero solo di essere letta dal maggior numero di persone possibili, in qualunque forma.
Claudia: Ora una domanda che potrà sembrare scontata, ma che sicuramente interesserà i nostri lettori: cosa pensate dell’editoria tradizionale? Secondo voi ha ancora senso il ruolo che ricopre? Naturalmente chi come voi possiede competenze specifiche in campo editoriale e di marketing del libro è in grado di produrre un romanzo da zero e di farlo circolare senza appoggiarsi alla filiera tradizionale. Ma a chi non possiede queste competenze e conta per necessità sull’appoggio dell’editore per migliorare e commercializzare il proprio manoscritto in forma di libro, cosa direste?
Ilaria: L’editoria in Italia è in crisi e non da poco: è una crisi culturale e di vendite. Le due cose vanno di pari passo: la caccia al bestseller non solo ha impoverito la qualità media dei libri pubblicati ma non ha nemmeno aumentato la quantità di libri acquistati. Evidentemente i criteri di scelta non sono così azzeccati e dimostrano che gli editori non sanno intercettare i gusti dei lettori. I numeri parlano da soli. Detto questo, non credo che l’autoproduzione sia l’unica via e nemmeno la soluzione: non solo perché non tutti gli scrittori possiedono i “mezzi” per produrre un romanzo da zero e farlo circolare, ma soprattutto perché la grande maggioranza dei lettori non va a cercarsi i libri in Rete, nemmeno se lo immagina che esista questa possibilità. È un tipo di approccio culturale che in Italia è ben lontano dall’affermarsi e del resto se tutti mettessero le loro produzioni su Internet verrebbe fuori un mare magnum in cui pochi saprebbero districarsi. Io credo che il lavoro di talent scouting sia necessario e l’editoria tradizionale deve tornare a farlo: è il suo compito, il suo vero ruolo, e dovrebbe farlo bene, alzare il livello della qualità, dar fiducia all’intelligenza del lettore.
Jacopo: Io penso che se uno ama questa cosa la segue, si attrezza, conosce, impara. Capisco l’urgenza di pubblicare, perché quando ho cominciato a scrivere la rete era ancora una cosa esotica e in Italia i blog non erano diffusi; però adesso le cose stanno diversamente: chiunque può pubblicare. Se invece a uno interessa solo l’oggetto-libro di carta, allora torniamo al discorso di prima.
Claudia: Infine, il fatto che il vostro romanzo non abbia comportato alcun costo, avendo eliminato qualsiasi forma di intermediazione, permette a voi CNP di distribuire il vostro romanzo gratuitamente, ma non vi impedirebbe per esempio di inserire un accesso PayPal per invitare i lettori a contribuire al sostentamento della vostra attività artistica e culturale. In quale misura ritenete che la narrazione sia una forma di volontariato?
Enrico: questo è un equivoco frequente. Non è detto che, se non si spendono dei soldi, non ci siano costi. Scrivere, editare e correggere i testi, creare la copertina, il pdf e l’epub, metterli online (i file sono su un hosting a pagamento, per altro): ecco queste cose costano tempo, e lavoro. Se dovessi quantificare questo tempo e questo lavoro, non potrei considerare una cifra con meno di tre zeri. Raggiungerla con donazioni è impossibile, per cui noi, semplicemente, regaliamo Lo zelo e la guerra aperta, a chiunque lo voglia leggere. Questo è amore.