Pubblichiamo la terza puntata di Intemperie*
‘Perchè riusciamo ad immaginare la fine del mondo ma non la fine del colonialismo?’ (Indigenous Action)
La foresta amazzonica è un vero e proprio archivio di violenze coloniali e memorie perdute, laboratorio di sfruttamento, marginalizzazione e ingiustizia sociale. Sappiamo, grazie alla spedizione di Francisco de Orellana del 1542 che fino ad allora l’Amazzonia era un luogo densamente popolato, abitato da numerose società complesse di cacciatori, raccoglitori e agricoltori (Carvajal 1988). Al contrario, nell’immaginario occidentale l’Amazzonia è dipinta come un paradiso da conservare, vergine, fuori dalla storia, vuoto. Ma questo vuoto, attraverso una espulsione di chi la abitava, è stato a sua volta creato, prodotto nell’incontro/scontro con l’Occidente.
Inoltre la nostra percezione di una natura come oggetto, riduce quest’ultima al pari di una qualsiasi risorsa da sfruttare in ragione del progresso economico e delle logiche del capitale. L’idea della natura come oggetto, come altro da noi, è stata messa in discussione dal pensiero antropologico e filosofico moderno, sviluppando una antropologia che rimette in discussione la dicotomia tra natura e cultura ridefinendola come ontologia propria dell’Occidente e non come legge universale; come una scelta culturale (Descola 2014). Anche Donna Haraway prende una posizione di questo tipo e scrive che “la natura non è un testo da decifrare in base ai codici della matematica o della biomedicina […] la natura non è risorsa o mezzo per la riproduzione dell’uomo […] la natura è, strettamente, un luogo comune” (2019: 40), uno spazio relazionale. La dicotomia natura/cultura è una costruzione narrativa e ideologica alla base della cultura occidentale, in questo senso è solo una delle possibilità con cui significare il mondo.
Secondo l’antropologo Thomas Eriksen la contraddizione che definisce la nostra società è il doppio legame – cioè un paradosso irrisolvibile e contraddittorio – tra lo sviluppo economico e la sostenibilità (Eriksen 2017). La crisi attuale degli incendi nella foresta amazzonica deve essere allora inserita in questo contesto storico e politico, in una storia secolare di violenze (iniziata con la conquista dell’America) e allo stesso tempo in un contesto globale più ampio legato a numerose crisi locali simili e ai cambiamenti climatici diffusi.
Ciò crea le condizioni per andare oltre una lettura semplicistica degli incendi come disastri ambientali prettamente locali (lettura che impedisce di cogliere la totalità e la pervasività di altre dimensioni e relazioni coinvolte), permettendo di superare la lettura emergenziale del fenomeno (che lo rende decontestualizzato, sia a livello storico, sia a livello geografico) per passare a una visione strutturale della questione che non lascia spazio a soluzioni facili e veloci e che denuncia con forza il continuum di violenze e l’indifferenza istituzionale verso questa parte di mondo.
Secondo i dati dell’INPE (l’Istituto nazionale brasiliano di ricerche spaziali[1]) la deforestazione in Amazzonia nel 2020 è aumentata del 50% così come la quantità di incendi rilevati, tanto che a metà giugno si parlava di 900 focolai. Oggi la foresta amazzonica, in quanto rappresentata come il polmone del mondo, si posiziona come epicentro simbolico del modo di intendere i cambiamenti climatici e allo stesso tempo come cartina tornasole dei modi con cui viene gestita questa problematica. L’associazione simbolica non è totalmente arbitraria. Infatti, l’ecosistema della foresta produce il 10% dell’ossigeno nell’atmosfera e ha la capacità di assorbire dai 90 ai 140 miliardi di tonnellate di anidride carbonica.
Il 19 Agosto del 2020 l’istituto di ricerca della NASA (Earth Observatory 2020) ha sviluppato uno strumento per identificare e diversificare la tipologia di incendi presenti sul territorio dividendoli in quattro classi, tutte accomunate dal fatto di essere incendi dolosi, e dunque atti criminali – riposizionandoli, definitivamente, in un universo non più di catastrofe naturale ma piuttosto di violenza contro i diritti dell’ambiente e i diritti umani di base.
Una più attenta analisi suggerisce che i fuochi che creano più problemi sono quelli legati alla deforestazione illegale che vuole fare spazio a terreni per nuovi allevamenti e impianti agricoli di monocolture (soia in primis). Sono infatti incendi appiccati in modo fraudolento che costringono famiglie e comunità a spostarsi e che incidono pesantemente sulla salute di coloro che abitano nelle regioni interessate. I fumi che si innalzano a seguito degli incendi infatti producono un mix di inquinanti tossici che possono permanere nell’aria per settimane (HRW, IPAM, IEPS 2020), contribuendo allo sviluppo di difficoltà respiratorie e malattie croniche della popolazione circostante. I fumi e l’inquinamento dell’aria inoltre possono aggravare i sintomi e aumentare il rischio di morte in persone affette da Covid-19. Oppure, nel caso opposto, persone (soprattutto indigeni) con malattie respiratorie che hanno bisogno di cure durante il periodo degli incendi, corrono il rischio ulteriore di contrarre il virus, dato che devono percorrere lunghe distanze per avere accesso alle cure (Ibidem).
Questi due fenomeni (i fumi e il covid-19) dunque si sommano al dramma strutturale del sistema sanitario nei luoghi marginali, che è precario, con pochi operatori e risorse limitate. Così, come accade per i cambiamenti climatici, coloro che possono essere inseriti tra i meno responsabili di comportamenti insostenibili, coloro che hanno un apporto minore di consumo e di produzione di sostanze tossiche, sono anche coloro che ne pagano il prezzo maggiore. In questo modo le morti degli indigeni rimangono invisibili andando ad accumularsi in quegli archivi minori della storia che raccontano di un genocidio silenzioso, che non fa rumore. In questo senso l’antropologia può dare un contributo occupandosi di queste rovine nascoste che sfidano l’amnesia della Storia. Poiché come sottolinea Arundhati Roy “non esistono realmente cose come i senza voce. Esistono solo i deliberatamente silenziati, o i preferibilmente inascoltati” (City of Sydney Peace Prize lecture, 2004).
In questo contesto lo sguardo antropologico si pone come strumento efficace per riuscire a cogliere le complesse dinamiche in gioco, permettendo così di analizzare le responsabilità socio-ambientali di questo disastro in corso. Infatti possiamo sostenere che il negazionismo climatico e sanitario (politica guida dell’amministrazione del governo brasiliano attuale) si traduce in una indifferenza verso i diritti umani delle comunità indigene, disegnando mappe socio-politiche mortali. In queste mappe risulta difficile stabilire con chiarezza i rapporti di responsabilità. Secondo Eriksen, questi rapporti possono essere analizzati attraverso una struttura a scala che va dal locale (per esempio le rivendicazioni di alcune comunità indigene) al globale (come le decisioni del governo brasiliano o ancora più in alto, le relazioni internazionali tra gli stati).
L’autore sostiene che nel salire di scala vi è anche un trasferimento di responsabilità e quest’ultima, man mano che si sale, si fa sempre più opaca, meno diretta, più difficile da identificare, grazie, anche, alla proliferazione di dispositivi di occultamento e di contenimento propri della cultura occidentale. Vi è quindi un conflitto tra il basso e l’alto e una coesistenza di forme di responsabilità che tuttavia rischia di non avere conseguenze concrete. Infatti, permane il pericolo di cadere da un lato o dall’altro. Da una parte, responsabilizzare gli individui per cose che “potrebbero essere imputate a fallimenti strutturali” (2017: 188), cioè usare come capri espiatori coloro che hanno fisicamente appiccato l’incendio.
Ciò permette di spostare in secondo piano il ruolo del governo Bolsonaro che fin da subito ha assunto posizioni decise verso la deregolamentazione e semplificazione delle leggi ambientali poiché “questo aggrovigliamento di leggi intralcia gli investimenti”, come sottolinea Ricardo Salles, ministro brasiliano dell’ambiente.
Dall’altra parte, “attribuire la colpa al sistema globale può distogliere l’attenzione dalle responsabilità e dai conflitti locali” (Ivi: 191), arrivando a un livello troppo astratto e contribuendo così ad aumentare le asimmetrie del potere. In questo senso Bolsonaro si fa protagonista di quel trasferimento di responsabilità prima citato, indicando in un discorso all’ONU come responsabili degli incendi i ‘costumi culturali’ degli indigeni e le ONG che li avrebbero appiccati per vendicarsi dei tagli alle politiche ambientali. Prendere atto della responsabilità del governo brasiliano di fronte a questa crisi dell’Amazzonia non significa d’altronde rimanere ciechi rispetto alle altre figure coinvolte, né ridurre ad una sola persona la responsabilità per il cambiamento climatico in atto.
La questione della responsabilità è dunque una questione spinosa, ma è un filo che deve essere necessariamente sbrogliato per poter agire a livello locale e globale contemporaneamente. Del resto i processi di attribuzione delle responsabilità sono innanzitutto strumenti culturali e sociali che forniscono strategie di comportamento adeguate per superare la crisi, il dolore e per rimettere in moto la capacità di agire della collettività (Douglas 1996).
In questo mondo di responsabilità confuse non è facile tracciare i punti sulla mappa, ma è fondamentale farlo, e riconnettere eventi, fenomeni e storie simili, trascendendo le limitazioni spazio-temporali e le geografie locali, per creare reti globali in grado di produrre solidarietà, conoscenza e immaginari alternativi. Questa complessità di fronte all’impunibilità delle scale più alte, soprattutto di fronte a una crisi come quella climatica attuale, spinge a una reazione quasi paralizzante, che comporta l’aumento ulteriore di sofferenza individuale e collettiva. Quindi il ciclo senza uscita del trasferimento di responsabilità si pone come una delle minacce maggiori alla salute globale, poiché “quando il sistema di connessioni si chiude su di sé […] la paranoia è l’unica postura possibile” (Haraway 2019: 130).
La paranoia, l’angoscia e la paura sono condizioni paralizzanti che impediscono di fare uno slittamento di pensiero e intendere il cambiamento climatico come possibilità di ripensamento, come opportunità immaginativa e creativa di un futuro non-apocalittico. Ciò che l’antropologia può offrire è la sua capacità di saper cogliere connessioni nascoste e tracciare mappe storicamente profonde e geograficamente ampie. Abbiamo di fronte comunità (e non mi riferisco solamente a quelle indigene dell’Amazzonia, ma a quelle sparse in tutto il mondo) che sono già state testimoni della ‘fine del mondo’, o meglio, della ‘fine di un mondo’, e sta ora a noi metterci in ascolto di coloro che sono sopravvissuti, narrando una contro-storia e riportando a galla contro-saperi che partono da strutture ontologiche radicalmente differenti dalle nostre.
Questa è anche un’opportunità per ammettere la crisi dei nostri modelli sociali, culturali e scientifici e per metterli in discussione immaginando futuri di relazioni socio-ambientali – quindi relazioni non con la natura ma nella natura, come luogo comune – dove imparare a sviluppare discorsi e grammatiche rigenerative piuttosto che distruttive.
Bibliografia
Carvajal, F., G., 1988, La scoperta del Rio delle Amazzoni, Edizioni Studio Tesi, Roma. Constituição da República Federativa do Brasil, 1988, Art. 231, paragrafo 2, Brasilia. Descola P., 2014, Oltre Natura e Cultura, Seid Editori, Firenze.
Douglas, M., 1996, Rischio e colpa, Il Mulino, Bologna.
Eriksen T. H., 2017, Fuori controllo. Un’antropologia del cambiamento accelerato, Einaudi, Torino.
Haraway D., 2016, Le promesse dei mostri. Una politica rigeneratrice per l’alterità inappropriata, DeriveApprodi, Roma.
HRW., IPAM., IEPS., 2020, O ar é insuportável. Os impactos das queimadas associadas ao desmatamento da Amazônia brasileira na saúde, doi: https://ipam.org.br/wp-content/uploads/ 2020/08/brazil0820pt_web.pdf, USA.
[1] La mia analisi fa riferimento alla parte della foresta amazzonica che si trova in territorio brasiliano (circa il 60% della sua superficie).
*Serie realizzata in collaborazione con studenti e studentesse del Laboratorio permanente di Antropologia dei Cambiamenti Climatici, coordinato dall’antropologa Elisabetta Dall’Ò, presso il Dipartimento CPS (Culture, Politiche e Società) dell’Università di Torino.