Sul Mate in Siria.

Esiste su YouTube una terribile, e a tratti macabra, carrellata sulla guerra civile siriana. Nei frammenti meno truci, girati nelle pause dei combattimenti e spesso a favore di telecamera, si vedono giovani soldati o ribelli o fondamentalisti (le definizioni variano a seconda del colore politico di chi le pronuncia) che sorseggiano mate con la tipica bombilla.
Perché in mezzo a una delle più terribili guerre che il Medioriente ha conosciuto negli ultimi cinquant’anni troviamo un infuso tipico dell’Uruguay, del Brasile e dell’Argentina? Come c’è finito?
Delle tante conseguenze della guerra civile siriana, forse una delle meno conosciute è il calo delle esportazioni di yerba mate dall’America Latina: l’Argentina, primo produttore insidiato dal Brasile, è passata da 34.000 tonnellate nel 2014 a 28.000 nel 2016, per risalire a 43.000 nel 2020.
Il mate, originariamente un infuso del popolo Guaraní, è conosciutissimo in Sudamerica, passato dai conquistadores spagnoli ai gesuiti, ma quasi sconosciuto nel resto del mondo tranne in Siria e, meno, in Libano. La Siria, da sola, acquista tutt’ora il 78% dell’export argentino. Se siete patiti di statistiche, date un’occhiata all’Instituto Nacional de la Yerba Mate.
L’infuso di yerba mate, per i botanici Ilex paraguariensis, arbusto della stessa famiglia del natalizio agrifoglio, Ilex aquifolium, contiene circa l’1% di caffeina e si prepara versando acqua calda – non bollente – su delle foglie secche nel tradizionale recipiente chiamato anch’esso mate, guampa o porongo, dal nome della zucca del pellegrino, usata per ricavarne contenitori. Esistono decine di ricette diverse per preparare il mate – caldo, freddo, cucinato… – e un’etichetta su come berlo (le basi: non servitevi da soli, non mescolatelo con la bombilla).
Gli Spagnoli lo incontrarono negli anni ’30 del XVI secolo conquistando i territori oggi del Paraguay. Quasi cento anni dopo, in Europa il mate era poco più di un’eccentricità al pari di altri due infusi destinati a rivoluzionare il nostro modo di vivere e la società europea: il tè e il caffè. Se questi beneficiarono della forza espansiva del libero commercio e del protocapitalismo imperiale britannico, il mate rimase ancorato al monopolio della Corona Spagnola che ne regolò i flussi di produzione e commercializzazione. Fino al XX secolo, e per certi aspetti ancora oggi, il mate – pur con proprietà e gusto comparabili agli altri due – rimane un prodotto regionale, sconosciuto sui mercati mondiali1.
Però, come tutte le abitudini gastronomiche e quindi culturali, anche il mate viaggia insieme agli uomini. Negli anni ’60 dell’Ottocento, migliaia di siriani, libanesi e palestinesi emigrano dall’Impero Ottomano verso le Americhe (Stati Uniti, Brasile, Argentina e Cile in testa) in cerca di un futuro migliore. Fino alla Prima Guerra Mondiale, sono le complesse condizioni delle minoranze nell’Impero e le ripetute escalation di violenza, oltre ai primi sviluppi commerciali del Monte Libano, a spingere verso l’emigrazione. In Argentina, in piena espansione economica, dal 1880 al 1920 arrivano circa 3.617.000 migranti arabi, in prevalenza cristiani, di cui 1.910.000 torneranno in patria. Negli anni fra le due guerre, continua l’emigrazione dai mandati francesi di Siria e Libano, ma adesso sono musulmani e musulmani drusi in maggioranza ad emigrare. Nel secondo dopoguerra, l’emigrazione conosce dei picchi legati alla guerra civile libanese (dal 1975 al 1988 circa 740.000 libanesi lasciano il paese per l’Argentina su una popolazione all’epoca di appena 2.700.000) e alle guerre arabo-israeliane.
Sebbene la storia delle migrazioni arabe in Sudamerica sia piena di sofferenze e difficoltà, è impossibile sovrastimare l’impatto delle comunità di discendenza araba: l’Argentina, l’Ecuador, El Salvador, l’Honduras, il Brasile e la Colombia hanno avuto presidenti di origini arabe. Grandi conglomerati di aziende sudamericane nelle telecomunicazioni, nel tessile, nei media, sono proprietà di famiglie di origini arabe. Shakira è per metà libanese!
Ciononostante, come sempre succede, una parte dei migranti rientra in patria, portandosi dietro storie di successo o presunto tale e nuove abitudini culturali, percepite come più cosmopolite e utilizzate per modellare una nuova identità personale. Alla lunga, questa influenza l’identità sociale. Le principali comunità druse, gruppo etnoreligioso musulmano sparso fra le montagne dello Shuf nel sud del Libano, le Alture del Golan a controllo israeliano e il sud della Siria, tutt’oggi considerano il mate come bevanda “tradizionale”. Ma di quale “tradizione” si parla? Quale identità?

Per i drusi, particolarmente amanti del mate, questo acquista anche un significato di genere: sono le donne a preparare il mate e, negli incontri di donne, viene servito mate quasi a contraltare del consumo di tabacco con narghilè, tipicamente maschile. L’aspetto di genere è assente nel consumo di mate in Sudamerica dove il mate viene consumato come attività sociale fra amici, ma è associato anche all’ospitalità rurale, al mondo dei gaucho. Ancora una volta, il segreto del successo di un cibo, una bevanda, è la sua capacità di adattarsi, di “dimenticare” alcuni legami e pratiche culturali per inventarne, adottarne di nuove. Per Eric Hobsbawm, le tradizioni inventate sono:
insiemi di pratiche, di solito governati da regole (esplicite o implicite), e di natura simbolica o rituale che mirano a promuovere alcuni valori e norme di comportamento presupponendo una continuità con il passato2.
Il mate viene risignificato nel levante arabo e diventa il simbolo culturale dei legami globali di quelle famiglie che hanno contatti (e reti commerciali) che attraversano l’oceano. Bere mate è all’inizio certamente un esempio di esotismo gastronomico, ma nel tempo diviene segno di distinzione dai vicini e dalle altre comunità che non hanno mai lasciato quest’angolo di mondo. Utilizzando un prodotto per sua natura internazionale, importato, i drusi esibiscono e risignificano la loro distinta identità come commercianti cosmopoliti in opposizione alle altre comunità arabe. Bere mate è stato prima cool e poi tradizionale.
La “tradizione”, specie quella gastronomico-culturale, è legata a storie precise e non così lontane nel tempo. È legata al successo di chi la propone e in definitiva al potere. Non ha niente di necessario (perché in Italia, con una storia migratoria simile verso il Sudamerica, non si consuma mate?), ed è frutto delle innumerevoli, infinite, interazioni fra storie personali, abitudini culturali, risignificazioni identitarie, di status, caratteristiche culturali locali e resistenze che descrivono il nostro complesso vivere (e mangiare e bere) insieme. Prima di scagliarci contro illusorie invasioni culturali o sostituzioni etniche, teniamolo a mente.
Note
- Cfr. Folch, Christine, Stimulating consumption: Yerba mate myths, markets, and meanings from conquest to present, Comparative Studies in Society and History, January 2010, Vol. 52 n. 1, pp. 6-36
- Hobsbawm, Eric, Introduction: Inventing Traditions, in Hobsbawm, Eric; Ranger, Terence (eds.), The Invention of Tradition, Cambridge University Press, 1983