Guardare l’Aquila dal Gujarat (e viceversa). Questo testo non vuole essere la recensione di un libro. La sua ambizione è quella di mettere in circuito alcuni dei temi che il volume di Edward Simpson affronta con ciò che è stato scritto negli ultimi anni all’interno del focus di Sismografie di questo blog e nel libro[1] che porta lo stesso titolo. Al semplice consigliare o sconsigliare o riassumere le pagine di Simpson, vorrei in questo modo sostituire una loro messa a sistema nell’interessante dibattito che da tempo viene incoraggiato e ospitato su questo spazio di approfondimenti.
Un terremoto arrivò inaspettato all’ora di colazione. Scosse palazzi e certezze personali. I sopravvissuti furono fiondati in un tempo tragicomico, nel quale la vita quotidiana era esposta nella sua assurdità. Arrivarono uomini di potenti organizzazioni che identificarono i danni e dissero come il mondo andava rifatto. Senza eccezioni, il terremoto aveva distrutto solo quello che sarebbe comunque andato distrutto, prima o poi. Di conseguenza, al periodo di consumismo accelerato seguì un boom da capitalismo iperbolico. Il governo tagliò le tasse per attirare investimenti. Le fabbriche accorsero sulle rovine. Altri vennero per somministrare le loro dottrine assieme ai loro aiuti. Passò anche un maniaco, ma non fu dimenticato.
(Edward, Simpson – The Political Biography of an Earthquake, p.15).
The Political Biography of an Earthquake. Aftermath and Amnesia in Gujarat, India è il frutto di 10 anni di etnografia e ricerca su un evento tragico: il terremoto che sconvolse il Gujarat, ed in particolar modo il Kutch, una sua regione, nel 2001, causando circa 14.000 morti (di cui 12.221 nel Kutch).
L’autore, un antropologo della SOAS a Londra, aveva vissuto e transitato per il Kutch per alcuni anni, per la ricerca della sua tesi di dottorato, quando il terremoto ha colpito i luoghi e le persone che erano a lui già familiari. Ciò gli ha permesso di analizzare l’evento e le sue conseguenze non solo con uno sguardo preparato a cogliere le dinamiche in atto, ma anche con una memoria e una conoscenza personali dei luoghi, delle persone e del contesto sociale tali da porlo in una posizione peculiare: a metà tra osservatore esterno e, come direbbe freddamente uno psicologo del trauma, una “vittima di secondo livello”. Il risultato è un viaggio di dieci anni attraverso un territorio e assieme ai suoi abitanti, entrambi modificati profondamente dalla ricostruzione post-sismica. Simpson è abile nell’adottare uno stile di scrittura e selezionare una struttura dell’opera che si discostano da quelle classiche delle monografie antropologiche, facendo percorrere al lettore una strada accidentata, in cui talvolta la presa si sente mancare, ma allo stesso tempo conducendolo poco per volta in spazi più piani e stabili: qui, più saldamente in equilibrio, si vede infine chiaramente ciò che è avvenuto in Gujarat. A questa comprensione, tuttavia, corrisponde un’altrettanto chiara consapevolezza che il terremoto non è stato che l’occasione per un enorme lavoro di ingegneria sociale e politica e che il “niente sarà più come prima” nasconde un più insidioso “nessuno sarà più come prima”. Del resto, subito dopo la distruzione di New Orleans, riguardo alla possibilità di approfittare della situazione per smantellare il sistema scolastico pubblico a favore di uno privato, non ha forse detto Milton Friedman che “questa è una tragedia. Ma è anche un’opportunità”? Proprio all’incrocio tra politiche neo-liberiste globali, nazionalismo religioso Indiano, e forme di vita locali si colloca l’analisi di Simpson, mostrando a mio avviso più che una somiglianza con i molti “post” con cui anche in Italia ci siamo misurati. A partire dunque da queste traiettorie virtuali, che incrociano lo spazio che separa il Kutch dall’Aquila e dagli altri luoghi dei post italiani, ho scelto di concentrare la riflessione su queste affinità attorno a tre aree tematiche.
Dettaglio di un dipinto commissionato per il concorso per un memoriale che mostra bambini di Anjar insanguinati e schiacciati dal crollo. L’ispirazione per il memoriale è del poeta e imprenditore Jaysukh Parekh ‘Suman’. 2007, Bhuj. [Foto di E. Simpson]
Memoria e Storia
Il disastro è dalla parte dell’oblio; l’oblio senza memoria,
il tirarsi indietro immobile di ciò che non è stato tracciato – l’immemorabile forse;
ricordarsi attraverso l’oblio, daccapo il fuori.
(Maurice Blanchot – La scrittura del disastro)
L’esergo da Blanchot accompagna anche l’ultima delle sezioni del libro di Simpson, quella intitolata “Amnesia”, e introduce un primo tema di grande rilievo quando si cerca di capire un disastro quale un terremoto. Commemorazione, rimemorazione, immemorabile sono concetti fondamentali per comprendere i processi di ricostruzione/formazione di una memoria, sia individuali che collettivi, dopo una catastrofe. L’aftermath di un terremoto, il suo “post”, sembra infatti riferirsi non tanto all’evento in sé e per sé, alla data dell’avvenimento in quanto punto di partenza, quanto piuttosto al terremoto in qualità di evento formidabile, capace di riconfigurare il rapporto dei superstiti con tutto ciò che è venuto prima (e verrà dopo). La storia acquisisce improvvisamente un’importanza inusuale, allo stesso tempo in cui la tragedia disegna uno spazio vuoto, un oblio, in cui la memoria non ha appiglio. Capita quindi in Gujarat che a seguito del terremoto lo Stato (quello del Gujarat, non quello centrale), governato dal BJP – partito nazionalista che ha fatto dell’Hindutva, un discorso sulla necessità di (ri)dare centralità all’Hinduismo nella politica Indiana, il suo cavallo di battaglia – risusciti vecchie figure di combattenti per la libertà contro il colonialismo inglese per opporle alla figura di Gandhi (troppo accomodante con i Musulmani e incline ad una ormai fuori moda pratica non-violenta della politica) e imporle in una nuova configurazione politico-patriottica della storia.
E si producono memoriali in grande quantità, tra cui il più interessante è in un piccolo villaggio ricostruito: una lapide con i nomi dei morti per il terremoto che regge un’asta per bandiere. Si trova su un collinetta che guarda verso il Pakistan e che è stata all’occorrenza rinominata Tiger Hill, come la collina del Kashmir su cui, pochi anni prima, l’India aveva inflitto un’importante sconfitta ai vicini nemici durante la guerra del Kargil.
Allo stesso tempo, non è un caso che l’invadenza di uno stato che utilizza il disastro e lo spazio vuoto che esso crea per radicarsi più saldamente nel territorio e trasformare i suoi abitanti, produca forme di storia locale che puntellano improvvisati progetti di secessionismo. In questo il Kutch sembra in sintonia con il terremoto dell’Irpinia e il suo “Guerriero del Sannio” (vedi “Terre in Moto” su Lavoro Culturale).
L’opera di commemorazione, dunque, avviene non tanto onorando vittime da ricordare, ma anche, e soprattutto, reinserendo i vivi in nuovi circuiti che nel “memorare assieme” attivano immediatamente processi di produzione di una nuova storia (spesso preconfezionata) e, di conseguenza, di un diverso presente e di nuove aspettative e aspirazioni per il futuro[2]. In pratica, nuovi soggetti[3]. Differentemente, e ricordando la proposta dei curatori di Sismografie, la rimemorazione è un tentativo di riportare alla memoria ciò che è avvenuto per aprire una frattura critica in cui questi processi di produzione di una storia naturalizzata vengano smascherati. È lungo questa direttrice che si possono forse riuscire a sviluppare differenti pratiche di ridefinizione di una storia e una memoria condivise[4]. Questo è proprio ciò che Simpson porta avanti, e la biografia politica del terremoto del Kutch è il lavoro complicato di chi cerca di disfare un puzzle da cui troppi pezzi erano rimasti esclusi, per vedere se e come si può comporre una, o meglio ancora più, immagini differenti.
Accanto e, forse, alla base di questi processi, sta l’immemorabile, ciò che è al di là della memoria perché esce dai nostri schemi di interazione con la realtà, sta fuori da noi. L’amnesia, la dimenticanza, diventano processi fondamentali nel dopo terremoto, che permettono al sé di ricostruirsi, e di continuare a vivere senza il terrore che la terra tremi di nuovo facendo crollare una volta ancora il nostro rapporto col mondo. Tuttavia, è spesso proprio in questa frattura del tempo, questo vuoto dell’esistente, che mondi virtuali ma già in agguato affondano gli artigli per fare il loro ingresso vittorioso[5].
Neo-liberismo
Perché un terremoto, letto in controluce,
è quasi sempre un trattato di economia politica
(Giovanni Iozzoli – Amarcord un paio di terremoti)
Il 16 giugno 1819, poche settimane dopo la sua conquista ad opera degli inglesi, un forte terremoto colpì il Kutch, distruggendo molti dei suoi palazzi, case e monumenti. Alcuni funzionari coloniali accolsero il terremoto come un intervento della provvidenza, che aveva spazzato via parte di quel vecchio e malvagio regime per la cui eliminazione si erano anche loro attivamente spesi negli anni precedenti.
Il terremoto del 26 gennaio 2001 ha invece accolto nuovi conquistatori: i paladini del nuovo ordine neo-liberista globale. E, come due secoli prima, sembra che abbia dato un bell’aiuto ai nuovi arrivati.
Il Gujarat era stato scelto già da tempo come il primo stato dell’India in cui testare i nuovi piani di riforme strutturali delle istituzioni e dell’economia. Due settimane dopo il terremoto erano già pronte le stime ufficiali dei danni e delle risorse necessarie alla ricostruzione, preparati dall’Asian Development Bank, la World Bank, rappresentanti di USAID e il governo olandese. L’ammontare dei prestiti e i campi d’intervento delle diverse organizzazioni sono stati diligentemente decisi, e stabilite nuove politiche tali che le strutture di governo e la società stessa potessero subire cambiamenti fondamentali durante la, e a mezzo della, ricostruzione. I progetti di edilizia urbana e rurale, assieme a cambiamenti legislativi, hanno permesso la rimozione di misure protezionistiche e altre forme di regolamentazione che erano viste come contrarie al libero dispiegarsi delle forze del mercato. Ancora più importante, il forte intervento delle agenzie internazionali a mezzo dello stato, mirava a legare la ricostruzione a nuove pratiche di assicurazione privata: in caso di nuova catastrofe, non sarà più lo stato, ma il mercato, a prendersi in carico, secondo questo paradigma, l’eventuale ricostruzione.
Allo stesso tempo sono state create Zone Economiche Speciali, in cui sgravi fiscali, lavoro a costi ridotti e assenza di controlli ambientali hanno favorito il rapido insediamento di nuove fabbriche, modificando il paesaggio rurale e semi-desertico di alcune aree del Kutch in complessi industriali selvaggi. Molte e nuove strade sono state costruite.
Il Kutch, da sempre regione periferica e marginale del Gujarat, è stato colonizzato nuovamente, ma stavolta profondamente, dai centri nevralgici del potere economico e finanziario statali e globali. Nel processo, un nuovo tipo di “cittadino” è stato creato, ed è stato riformulato il suo rapporto con se stesso, con gli altri e con le istituzioni[6].
In tutto ciò, le nuove forme dell’abitare hanno rivestito un’enorme importanza.
Abitare (Indian New Towns)
Emerge fin da subito come nel cratere aquilano
sia problematico fare mente locale, riuscire ad afferrare
dove siamo e cosa abbiamo intorno, ridefinire –
e ridefinire nominando – il proprio esserci in quel luogo,
di fronte ad una rivoluzione di senso che,
attraverso l’abitare,
sta cambiando anche la storia e la vita delle persone.
Fabio Carnelli – Esserci a Paganica (L’Aquila), II anno d.T. [In Sismografie, p.66]
La ricostruzione in Kutch ha preso due strade divergenti, con due differenti idee e modelli alla base. Da un lato la ricostruzione dei centri urbani, primo fra tutti Bhuj, capitale della regione, dall’altro i villaggi. Nel primo caso sia la progettazione, sia le scelte, sia i lavori sono stati condotti con la partecipazione attiva di agenzie governative, e scelte politiche importanti sono state prese su come affrontare il lavoro di ricostruzione. Alla domanda che ogni volta ci si pone di fronte ad un terremoto, “è meglio agire velocemente per il bene immediato delle persone, rimettendo a posto alla meno peggio i danni senza arrecare altri problemi, o è meglio prendere tempo e creare altri, e molti, problemi immediati alla popolazione, ma costruire per loro un futuro più sicuro?”, la scelta, secondo Simpson, fu la seconda. Tuttavia, non fu una vera e propria scelta, presa in autonomia da un ministro, un comitato o simili. E non è certo che abbia edificato le basi per un futuro migliore. Essa fu più maldestramente il risultato di un fallimento delle pratiche di governo, di aiuti economici disponibili a particolari condizioni, della natura allettante dei progetti di infrastrutture, e della storia sbilanciata dello stato in Gujarat. Il centro storico della città, dove si trovava la maggior parte degli edifici non agibili (una scala da G1 a G5 fu elaborata a seconda del danno, e solo G4 e G5 rientravano nei programmi di distruzione degli edifici e di ricollocazione degli abitanti) è stato ridisegnato per creare strade di scorrimento, e varie azioni di “taglio” di edifici integri sono state portate avanti per ottenere lo spazio necessario. Molti sono stati allontanati dalle proprie abitazioni. Col tempo, nuovi quartieri sono emersi ai margini della città, edifici a schiera che hanno prodotto un nuovo spazio abitativo per gli sfollati. Il modello della “colony”, del quartiere costruito secondo nuovi ideali di residenza, si è così reso disponibile anche per coloro che, talvolta desiderandolo, non avrebbero mai potuto permetterselo. La città ha cambiato volto. Molti si sono persi nel passaggio, altri si sono ritrovati.
Nei villaggi, tuttavia, è successo qualcosa di completamente differente. Un pacchetto di ricostruzione conosciuto informalmente con l’etichetta di “adozione di villaggio” ha permesso che organizzazioni “adeguatamente qualificate” potessero ricostruire villaggi distrutti in altre località. Dopo varie proteste, si è consentito di costruire lontano dai luoghi originari solo in caso di reale necessità. Il programma prevedeva una partnership tra pubblico e privato, con lo stato che poteva fornire fino a metà delle risorse necessarie per la ricostruzione, svolta da privati. Questi ultimi, accorsi in massa, erano organizzazioni umanitarie straniere e indiane, gruppi religiosi, partiti politici, governi di vari stati, movimenti, costruttori edili e capitani d’industria. Come si può intuire, le modalità e i risultati della ricostruzione (si parla di decine di migliaia di case) variano grandemente da caso a caso. Simpson si concentra soprattutto sui villaggi “adottati”, e non sono pochi, da associazioni religiose Hindu spesso connesse al BJP. Qui, la concessione di un’abitazione ha spesso coinciso con l’obbligo di affiliarsi allo specifico gruppo religioso, seguirne i riti, diventarne adepti. Un nuovo tempio svetta sempre nel centro dei nuovi villaggi, dominandone il paesaggio e scandendo il ritmo dell’esistenza. Nuovi modi di intendere la vita, la politica, la società sono stati somministrati come parte integrante dell’aiuto, come una condizione sine qua non. Ciò ha corrisposto anche a particolari scelte urbanistiche, con i quartieri più periferici dei nuovi abitati spesso dati ai musulmani o a membri di caste basse, riproducendo alcune vecchie diseguaglianze, annullandone altre, e creandone di nuove: villaggi che iscrivono materialmente nel proprio spazio una nuova idea di stato e società, principalmente hindu e dedita a particolari forme settarie di culto.
Memoria, economia, spazio, sono i tre principali campi in cui nel dopo terremoto del Kutch si è giocata una partita complessa, ancora in ballo, che trascina con sé nuovi panorami, industriali e abitativi, nuove traiettorie economiche e alleanze locali e globali, un nuovo tipo di cittadino e una particolare politica assieme ad una nuova storia.
Per terminare con le parole di Simpson: “In futuro, quando un terremoto colpisce, pensa a coloro che soffrono – ma fai anche attenzione a quelli che stavano aspettando, forse, che succedesse e a ciò che sono già pronti a fare”.
Note
[1] F. Carnelli, O. Paris, F. Tommasi (eds), Sismografie. Ritornare a L’Aquila mille giorni dopo il sisma, Effigi, 2012.
[2] A questo proposto è stata significativa la creazione di “memoriali informativi” sui media nel dopo sisma aquilano (cfr. D. Dodaro e A. Milanese, “Quando finisce un terremoto? Il trauma aquilano nelle fotografie di Repubblica.it ed Espresso.it“, in Sismografie).
[3] Per una critica efficace di tali eventi è fondamentale, a mio avviso, anche un’attenta analisi estetica di questi memoriali e delle altre pratiche architettoniche e artistiche di commemorazione. A tale riguardo cfr. F. Zucconi, “Tra estetica e politica. Il terremoto, le coincidenza del calendario e la strategia del male minore”, in Sismografie.
[4] Un tentativo di ridefinizione della storia a seguito dell’eccesso di memoria del paesicidio aquilano lo troviamo ad esempio nella reinvenzione di una festa popolare in una frazione dell’Aquila post-sismica. Qui il link.
[5] Se il terremoto è sempre accompagnato da una frattura del tempo, è tuttavia importante notare come la gestione emergenziale crei una vera e propria cultura dell’emergenza che agisce come acceleratrice di processi (cfr su Lavoro Culturale la gestione del dopo-sisma emiliano in R. Ciccaglione “Mirandola un anno dopo”) e i processi del dopo-sisma aquilano descritti da Lina Calandra in Sismografie.
[6] Su problematiche simili nel dopo terremoto all’Aquila cfr E. Sirolli, “L’Aquila Istituzionalizzata”, e F. Carnelli, “Esserci a Paganica (L’Aquila), II anno d.T.”, entambi in Sismografie. Cfr anche N. Klein, 2007, The Shock Doctrine: The Rise of Disaster Capitalism, New York: Metropolitan Books. Per un’analisi dell’ecologia dell’imprenditoria umanitaria contemporanea cfr. N. Perugini, “Tra Mirandola e Baghdad”, su Lavoro Culturale.