Impressioni dalla Biennale Arte Venezia 2017

L’appuntamento della Biennale Arte di Venezia è tappa obbligata per chi si occupa di arte dall’interno, ma spesso anche per i soli appassionati. Quest’anno i tre autori di questo “report” si sono trovati insieme per fare un giro tra Giardini e Arsenale, e capire se ci fossero tracce interessanti.

Gli autori non sono proprio addetti-addetti ai lavori, ma a modo loro lavorano su diverse questioni attinenti al mondo dell’arte.  La prima parte di queste impressioni è il risultato di una conversazione effettuata dopo la visita, attraverso uno scambio e-mail. Il testo prova a sintetizzare alcuni spunti delle discussioni avute.  La seconda parte di queste impressioni, invece, presenta tre brevi riflessioni – una per autore – su tre diversi argomenti, scelti da ognuno e sempre relativi a questa Biennale Arte.

Selfie con muffa

Gianluca Pulsoni: Inizierei allora con questa domanda, che se vogliamo nasce un po’ da certe discussioni fatte con qualcuno di voi in passato e in qualche modo si riflette sul nostro caso, perché siamo stati insieme a Venezia, alla Biennale Arte di quest’anno, e stiamo dialogando proprio per provare a ragionarci sopra. Cosa cercate quando andate a vedere una mostra e in generale, diciamo, “qualcosa” che dovrebbe essere appunto l’Arte con la A maiuscola? Io, a dire la mia, ho un rapporto molto ma molto conflittuale con l’argomento “Arte” e sinceramente non ho una risposta “sicura”. Sarà perché i miei interessi mi hanno per ora spinto a studiare le immagini e la loro efficacia attraverso schemi non estetici, o quantomeno a privilegiare altre fonti, per esempio il cinema, e discipline, per esempio l’antropologia.

Karen Pinkus: Io posso dire di non avere aspettative precise. Sono aperta ad essere presa da qualsiasi cosa ma sono altrettanto attenta ai contesti. Alla Biennale di Venezia, per esempio, sono molto conscia della città come una piattaforma flottante stracarica di storia e storie, precaria ed effimera. È un posto per me di malinconia e lutto (penso allo sguardo di Visconti/Aschenbach). Avendo poi studiato gli effetti del cambiamento climatico e la triste storia di corruzioni e occasioni mancate del Mose, non riesco a liberarmi di certi sentimenti, spesso addirittura di rancore, verso quelle opere che si propongono come “fuori” di ogni contesto della città o come durature. Sarà perverso ma mi colpiscono le alghe che crescono sulle piccole scalinate – che potrebbero diventare fonti di energia o che esistono come segni della degradazione ambiente delle fondamenta – più che le muffe coltivate da artisti.

Alfonso Cariolato: Chi sa cosa spinge qualcuno a fare qualcosa. Nella fattispecie l’industria culturale, forse, il fingere di credere che quanto vedrai sarà importante, e il conseguente sentirti parte di un mondo che si dice debba essere considerato. Tutte queste sono motivazioni gregarie, ma non me la sentirei di escluderle del tutto. C’è una forza dell’«andare da sé» a cui è difficile opporsi. E poi ci sono le aspettative, il desiderio. Che qualcosa mi sorprenda, mi spinga su sentieri non battuti, mi faccia dimenticare e ripartire con occhi nuovi – anzi, con i sensi tutti strappati per un momento all’imperativo del fine, alla strumentalità, al progetto. Voglio voler credere contro le promesse disattese e il continuo, reiterato, abominio della mortificazione e dell’avvilimento. Voglio che la cosa parli a me, a noi e al mondo finalmente non separati – ma non per questo uniti, beninteso. Insomma, dall’arte mi aspetto l’impossibile – né più né meno. Il resto non è che sciatteria e bla-bla.

GP: Le muffe coltivate da artisti! È vero. È una provocazione con fondamento. Fa ridere questa cosa di aver trovato in molti Padiglioni questa indicazione-direttiva (se non erro della UE) relativa agli spazi della Biennale potenzialmente, diciamo, “produttori di muffe”. Io la vedo come un’ironia beffarda, una specie di involontaria nemesi dell’atto di creazione artistica. Me la ricordo sicuramente al Padiglione di Israele, ma era presente altrove.

A ogni modo quello che dite in un certo senso ricapitola una delle questioni credo cruciali dell’arte, che sintetizzo alla buona: la relazione tra testo (opera) e contesto (situazione espositiva). Una dialettica infinita, e non se ne esce quando ci sono cose che magari ci colpiscono su uno di questi fronti ma ci deludono sull’altro. Nel caso di questa Biennale sappiamo però che non ci sono piaciuti nel complesso né il contesto – la sviluppo dei temi di tutta l’edizione – né i testi, salvando qualcosa qua e là per i motivi più diversi. Sospendendo allora il giudizio critico, vorrei chiedervi questo: ma si può imparare qualcosa anche da “delusioni” del genere? Qualcosa passa?

AC: Sembra quasi che l’idea alla base della Biennale di quest’anno sia stata quella di non avere idee, e dunque lasciare quanto più possibile l’iniziativa agli artisti. Il titolo/slogan/tema è talmente generale, e volutamente scanzonato, che funziona un po’ come un “liberi tutti”. Il che non è necessariamente sbagliato. Anzi, da un certo punto di vista può anche essere la modalità attraverso cui emerge più o meno direttamente qualcosa come – è il caso di dirlo – lo stato dell’arte. D’altra parte, non bisogna essere troppo ingenui da credere che un evento/contenitore come questo – come, peraltro, qualsiasi manifestazione analoga – possa fungere da metonimia dell’arte contemporanea. Piuttosto, parlerei di scelte, tentativi, approcci e dunque di esperienze difficili da valutare nello spazio di una o più visite. Del resto, appare sempre più evidente come l’arte oggi sia un lavoro sui limiti (da qui i curiosi epifenomeni e le contaminazioni di ogni tipo), e – considerato che ogni canone è caduto, e che dunque ogni volta è anche un contesto che l’opera deve contribuire a creare, spingendo così fuori di sé la stessa nozione di “testo” – un certo grado di spaesamento, triste o vivo che sia, non può che accompagnarla come una sorta di Grundstimmung. Ciò che passa, però, è un’esigenza, se non addirittura una necessità, ammesso che abbia un senso dire così perché non si sa – questa esigenza – da dove venga, né dove porti. È qualcosa di selvaggio e di irrefrenabile in mezzo alla noia, all’enfasi, al servaggio capitalistico, alla mondanità. Un alcunché di spettrale, probabilmente, ma che in qualche modo esiste, insiste.

KP: D’accordo. Non dovremmo aspettarci metonimie e nemmeno coerenza a Venezia. Dovremmo, piuttosto, arrenderci al dolce vagare tra un punto e l’altro, alla «narrazione concettuale che parte dalla sfera intima dei maestri… per terminare con la dimensione spirituale in cui ponderare il tempo e l’infinito», come vuole la curatrice1. Non solo non capisco ma penso il mio non capire questa frase riassume un po’ tutto. Come mindfulness. Uno stato di meditazione e concentrazione voluto. Ma, dato lo stato attuale del mondo – parlo del mio mondo, ovviamente – colpisce la totale mancanza di rabbia. Nel Padiglione centrale l’allestimento Unpacking my Library riesce a trasformare un breve saggio di Walter Benjamin sul collezionismo come sintomo nevrotico in una rubrica giornalistica: “Che cosa sta leggendo?” Come: “Che indossa?” La domanda sul tappeto rosso della cerimonia della premiazione. Oppure prendete l’esempio del Padiglione della Repubblica Ceca – mi viene in mente un po’ per caso, un po’ perché mi sembra emblematico. Con i suoi cigni di cristallo come tanti oggetti turistici quasi pacchiani in stile negozio della vecchia Boemia, offre ai visitatori una vaga speranza per un futuro più ecologico.

Annotazioni  

Adelita Husni-Bey – Padiglione Italia

Mi piace quello che fa Adelita Husni-Bey. Sperimentazione pedagogica, interazioni tra individui di determinate collettività su questioni specifiche, un linguaggio video non distantissimo da certo modo di fare cinema. C’è un pensiero-in-azione.

Ora, quanto visto a Venezia potrà magari non piacere o essere considerato non il suo miglior lavoro, eppure si tratta di una ricerca più autentica di tanta roba che è qui quest’anno. Il suo lavoro si chiama The Reading/La Seduta, video-risultato di un workshop effettuato a New York con ragazzi selezionati con una open call, un workshop fatto di incontri, discussioni, esercizi performativi sperimentali, un workshop in cui i ragazzi sono invitati – attraverso la lettura di tarocchi creati dall’artista – a discutere del «proprio legame spirituale, coloniale e tecnologico con la terra e con il mondo».

A ben guardare si tratta di una lettura penetrante de Il mondo magico di De Martino (tema del Padiglione), perché attualizzata alla contemporaneità, una specie di récit con alcune sottigliezze – si pensi solo alla scelta di optare per un gruppo di studenti americani dentro, appunto, lo spazio Biennale dedicato all’Italia. E dopo la visione, non so perché – o forse si, lo so – non potevo non pensare ad un bel libretto letto da poco, Communism for Kids di Bini Adamczak.

(Gianluca Pulsoni)

Mark Bradford – Padiglione USA

È sotto il segno di Efesto, il dio della metallurgia – e per traslato dell’arte – che si snoda il percorso ideato da Mark Bradford per il Padiglione degli Stati Uniti. Un dio zoppo, fatto cadere dalla madre dall’Olimpo per la sua infermità, spesso deriso, ma pur sempre dotato di metis, ossia di «intelligenza astuta», che gli permette di cavarsela in ogni situazione. Efesto era nero, sembra dire Bradford. Così come emarginato, escluso, sfruttato. L’arte è riscatto, rinascita. Una via d’uscita, ma anche consapevolezza, segnale d’allarme, grido. Bradford è un avatar di Efesto. La sua installazione site-specific è a più livelli: il confronto con il padiglione-casa di Jefferson e la critica alla democrazia dei padri fondatori; la caverna-oracolo della nascita dell’arte nella rotonda; il motivo unheimlich delle sirene nelle tre tele di cartine per permanente, e Medusa ingannata e terribile in una bizzarra scultura; i tre grandi e pregevoli dipinti paper-collage; il video di un giovane di spalle che nero, pieno di vita e gaio scende lungo una strada; e, all’inizio, impressionante, il Piede torto di Efesto. Un enorme ammasso stellare-pittorico che penzola dal soffitto a formare una pancia gigantesca che occupa la sala. Si cammina rasente i muri rischiando di pestarsi i piedi (c’è un Efesto in ogni destino). Esperienza di marginalità, ma anche potenza dell’arte. I miti greci si mescolano al pop (Marilyn e Via col vento), il biologico e il cosmico sono convocati – un mondo è in fieri.

(Alfonso Cariolato)

Jana Želibská – Padiglione Repubblica Ceca e Slovacchia

Entrare nel Padiglione ceco – lo segnalo un po’ per provocazione, dato la sua marginalità sulla scena dei poteri globali dell’arte – è sottomettersi ad un’esperienza tranquillizzante. Quasi come ci fosse l’aria condizionata. Come fossi nell’anticamera di un centro estetico di lusso prima di farti dei massaggi. Il pezzo consiste in una proiezione di acque marine, una serie di cigni di cristallo su canestre invertite/isolette “flottanti” (tipo orsi polari?) e due video, inquadrati, della stessa donna. Se il canto del cigno si riferisce alle ultime cose, e se la breve didascalia che introduce il Padiglione parla di un «cambiamento radicale» del «cataclisma ecologico» e del «cigno come messaggero di cambiamento come simbolo di libertà interiore, bellezza, amore, profondità, purezza, fedeltà e una simbiosi di antitesi», nulla dell’istallazione ci costringe a riflettere in modo radicale sul nostro modo di vivere, produrre, consumare. La presenza della donna, duplicata e quasi immobile contro il flusso inquietante del video, sconvolge ma non troppo. L’artista ci indica una “mitologia”, ma senza i precisi riferimenti o significati che ci porterebbero a confrontarci con le stesse strutture o gli stessi strutturalismi sui quali riposa il logos. Mindfulness? E dopo?

(Karen Pinkus)

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Note

  1. Intervista con Christine Macel pubblicata su Le Frecce magazine, Ferrovie dello stato, maggio, 2017.
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