Terzultima puntata del canone letterario di Teobaldelli.
Ivan Teobaldelli è, fra le altre cose, l’autore del romanzo Esercizi di castità (Einaudi, 1993) e il co-fondatore e direttore della pionieristica rivista Babilonia. Nel 1997 ha pubblicato La biblioteca segreta. Cento romanzi che raccontano l’amore omosessuale (Sperling & Kupfer), un personale canone di opere letterarie del Novecento stilato «in nome di che? Della libertà, beninteso, e delle legittime ragioni del cuore». il lavoro culturale è felice di ripubblicarlo per intero, in dieci puntate: questa è l’ottava. Qui le puntate precedenti.
* * * In occasione della pubblicazione della Biblioteca segreta, Ivan Teobaldelli sarà protagonista dell’evento di apertura di CaLibro 2018 giovedì 5 aprile alle 18, al Teatro degli Illuminati di Città di Castello. Dialogherà con lui lo scrittore, militante e conduttore radiofonico Tommaso Giartosio. Qui la pagina dell’evento. * * *
71 – Marina Cvetaeva, Il racconto di Sonecka
«… per tutta la vita, di seguito, ho inondato d’amore le persone sbagliate…» Ci serviamo di questo estratto di corrispondenza, per entrare in punta di piedi, tra le pagine più vertiginosamente “alte” della letteratura di questo secolo, l’opera di Marina Cvetaeva, ancora in parte sepolta negli archivi.
Due perle, una nera e una bianca, sul tema dell’amore come «teoria dell’eterna non-corrispondenza»: così lo definisce Serena Vitale, introducendo La lettera all’Amazzone che Marina indirizza a Nathalie Barney per dirle d’aver individuato nel suo libro «la sola, immensa lacuna» che non si può colmare nella relazione tra due donne: la mancanza del bambino.
«L’amore è di per se stesso infanzia. Gli amanti sono bambini. I bambini non hanno bambini.»
Su questa crepa, all’inizio invisibile, la Cvetaeva traccia la mappa della solitudine che percorrerà la donna che resta «fuori di natura»: «Lei morirà sola perché è troppo orgogliosa […] Non vuole né animali, né orfani, né dame di compagnia […] Lei non sarà mai la parente povera al festino dell’altrui giovinezza».
Forte e solitaria come una montagna che «verso sera […] ritrova se stessa», «nuca desolata del salice […] chioma grigia che spazza la faccia della terra», la donna-che-ama-la-donna, l’amazzone, è condannata a vivere un’affollata solitudine, è «un’isola con una infinita colonia d’anime».
Marina Cvetaeva scrive d’amore perché ha bisogno d’innamorarsi per vivere e scrivere, e va incontro a uomini e donne «a braccia spalancate». Anche reinventandoselo nel ricordo. È II racconto di Sonecka, indirizzato, molti anni dopo, a un’attrice incontrata e lasciata, in una Mosca indigente e buia: «L’ho amata come lo zucchero, durante la Rivoluzione […] Un intero pezzo bianco di zucchero vivente – ecco quello che era per me Sonecka». Una Mosca dove l’ala dell’epurazione bussava quotidianamente alla porta, e dove l’intrepida Marina tentava di sopravvivere con le armi della passione e della poesia.
«Io, il mio amore per lei, il suo amore per me, il nostro amore – non rientravano – in alcun comandamento. Di me e di lei insieme non cantavano in chiesa – non avevano scritto nei Vangeli […] Noi due, difatti, andavamo solo contro ‘la gente’; mai contro Dio e mai contro la persona umana».
72 – William Burroughs, Ragazzi selvaggi
«I ragazzi parlano in grugniti e ringhi, brontolii e guaiti e si mostrano i denti a vicenda come cani selvatici. Due ragazzi fottono stando in piedi schiene contratte denti stretti, peli ritti sulle caviglie […] Verde ragazzo lucertola accanto a un ruscello stagnante sorride e strofina i suoi logori calzoncini di cuoio con un lento dito.» Sono i ragazzi selvaggi, una nuova specie di umanoidi omosessuali, adolescenti guerriglieri e mutanti che sconvolgono ogni regola di convivenza e s’addestrano a uccidere. Alberi con cui fare l’amore, dotati di natiche e di scroti vegetali; voli radenti e zoommate di cineprese come occhi di condor; ragazzacci di San Francisco e spalmate copiose di vaselina; kif, maricones e Marrakech, tutto quanto si mescola nel flusso fantasmatico di Burroughs chiuso in una soffitta di Londra, — è l’autunno del 1969 – depresso, con un ditty boy (una marchetta) che ha rimediato a Piccadilly Circus e a cui invano tenta di insegnare a cucinare, e l’amico Brion Gysin che da Tangeri gli racconta di bande straccione di bambini – anche loro mutanti? – che hanno invaso le strade al grido di Yalatif! (Siamo stufi!).
73 – Mary Renault, Il ragazzo persiano
Prendendo spunto da un brano di Plutarco (confermato anche da Arriano) dove si racconta che durante un banchetto i macedoni, un po’ ubriachi ed euforici, invitarono Alessandro a baciare davanti a tutti il suo eromenos Bagoa perché aveva danzato splendidamente – e Alessandro, divertito, non si rifiutò – Mary Renault inventa il protagonista di questa storia e attraverso i suoi occhi narra, prima la sconfitta di Dario, poi l’ascesa irresistibile del giovane Conquistatore.
Con perfidia puritana però evira il giovane Bagoa, in modo che gli amplessi risultino univocamente condotti e correda il bell’eunuco di un ventaglio di istinti molto donneschi che vanno dalla tonicità della pelle «più liscia della seta» alla gelosia rancorosa verso il «fidanzato» ufficiale che era Efestione.
Nato per dare piacere, prima al ruvido Dario a cui garbava molto «un trucco imparato a Susa» che anche a noi piacerebbe conoscere; poi passato come regalo al nuovo padrone, i crucci e le preoccupazioni che assillano Bagoa, tra una campagna e l’altra di guerra, oracoli, massacri, astuti matrimoni diplomatici, sono immancabilmente di genere smanceroso: «Sono ancora desiderabile? L’ho soddisfatto abbastanza? Mi chiamerà di nuovo nel suo letto?» Tanto che l’impegno profuso da parte dell’autrice a ricostruire la mappa infinita di spostamenti e di popolazioni, di culti sconosciuti e di chiose esatte sull’uso delle armi e delle suppellettili, non riesce a nascondere la proterva convinzione che dietro alle più titaniche imprese e ai grandi imperi bisogna, al solito, chercher la femme. O chi ne ha preso il posto.
74 – Carson McCullers, Riflessi in un occhio d’oro
In un indistinto e pigro Sud degli States, nella cornice astratta d’una caserma circondata da villette di ufficiali, nulla muove «l’aria agrodolce e stagnante» fatta di tedio, isolamento, e replica annoiata di doveri e mansioni.
Unico guizzo, nel torpore, la sagoma bizzosa e irrequieta d’uno stallone chiamato «Uccello di fuoco», che è di proprietà della moglie del capitano Penderton, Leonora, ed è accudito dal soldato semplice Williams.
Ecco già definito il triangolo amoroso che si consuma – per rimanere all’ombra del titolo – in un rimando ossessivo di sguardi. Stregato dallo stalliere, il capitano Penderton lo spia, lo pedina, origlia da ogni anfratto «quel volto, quegli occhi malinconici, quelle labbra pesanti e sensuali, spesso umide… quelle ciocche ricadenti […] e ancora una volta si trovò muto e soffocato davanti al ragazzo, il cuore colmo di selvaggi rimproveri, di parole d’amore, di preghiere e di desiderio…»
Da par suo il soldato Williams, infatuato di Leonora, si precipita ogni notte nella sua camera da letto a covarla con gli occhi, senza ardire di toccarla. Leonora, benché splendida come una madonna e «d’una placidità sognante», ha per amante il maggiore Langdon, e molti altri ne ha avuti, uomini che regolarmente e tristemente finivano per affascinare il capitano Penderton (soprannominato dai soldati «Fanny la Floscia»), mettendo a repentaglio «il delicatissimo equilibrio che riusciva a stabilire tra i suoi istinti virili e quelli femminili».
Su tutta la tresca, come il triangolo onnisciente della divinità, le pupille febbricitanti della signora Langdon che sa di essere tradita – e a suo tempo lo rinfacciò al marito sforbiciandosi i capezzoli con le cesoie da giardino – ma ormai è solo esausta e malata, e s’affida alla devozione del servo filippino Anacleto che registra per ultimo, con i modi isterici e teatrali d’una checca, ogni variazione dell’intrigo.
Tutto incalza verso la catarsi, con un montaggio serrato da pellicola cinematografica: la signora Langdon trova la quiete (eterna) in una clinica psichiatrica, il filippino scompare, il maggiore Langdon viene adottato dai Penderton e in una notte come tante altre, il capitano — che ci piace immaginare con i tratti di Marion Brando, nell’omonimo film di John Huston — scorge, quasi per caso, una sagoma nera attraverso la porta socchiusa della camera della moglie.
«Si sentiva leggermente ubriaco di brandy, leggermente intontito […] indossava una vestaglia di grezza lana nera che avrebbe potuto andar bene per la padrona di un bordello…» Alla pallida luce della finestra riconosce «l’uomo che desiderava». Prende la pistola dal cassetto e accende la luce.
«Il soldato non ebbe il tempo di rialzarsi. Sbatté le palpebre… come lo avessero disturbato. Il capitano era un eccellente tiratore […] Gli spari svegliarono Leonora che si levò a sedere sul letto […] Il capitano si era appiattito contro la parete […] somigliava a un monaco dissoluto e sfinito. Anche nella morte il corpo del soldato serbava una calda, animale placidità […] le mani abbronzate dal sole giacevano sul tappeto con le palme aperte, quasi ancora dormisse».
75 – Mario Mieli, Il risveglio dei faraoni
Chi nel 1977 era rimasto affascinato dalla pirotecnia verbale e speculativa di Elementi di critica omosessuale – la prima, importante riflessione italiana sulla “questione gay” – godendo di quello stile scanzonato ed eccentrico che ipotizzava «un gayo comunismo», il regno dell’androginia e la vittoria finale del Bene, non può non ritrovare in questa trasfigurata autobiografia l’identica eresia: incarnare nella vita di ogni giorno la più ampia libertà libidica.
Impresa disperata e suicida anche per un dandy coraggioso e geniale come Mieli, che comunque si diverte a mescolare Cristo e Cagliostro, l’alchimia con le tecniche del capitalismo, l’oca del Nilo con l’LSD, l’oro con la merda, e Amsterdam con il lago di Como, frullando tutto nello shaker dei ricordi e delle sovrapposizioni.
Prerogativa dei faraoni egiziani, e di quelle divinità, era l’amore incestuoso tra consanguinei, che chiudeva perfettamente il cerchio tra lo spirito e la carne. Mieli attraversa la sua picaresca esistenza intravedendo dappertutto segni di parentela e d’affinità. Gli amici, gli occasionali amanti, i «maestri», sembrano possedere le stimmate della stirpe, e in un rimando ossessivo e speculare, da artifizio anamorfico, finiscono sempre per assumere i tratti inquietanti del Padre o della Madre. L’assunto gidiano del romanzo – «Famiglie, vi odio!» – che sembra contenere tutti gli orrori e le delizie di un’epoca, gli anni Settanta, già irrimediabilmente distanti – con le prime comuni omosessuali, il gusto del travestimento, i trip lisergici, il sesso e l’incesto, le affascinazioni hippy – è forse anche questo un gioco, uno dei tanti di Mieli (come il suo puntiglio d’anagrammare tutto: merda, madre, derma, dream, drame), e andrebbe applicato all’intero romanzo, che potrebbe essere stato scritto «a lettere rovesciate», come un testo alchemico, «per affermare il contrario di ciò che in verità l’autore intende dire»: la Grande Famille c’est moi!
76 – Christopher Isherwood, Ritorno all’inferno
Sarà anche preponderante in Isherwood la parte autobiografica, ripetuta spesso fino all’insistenza, ma in realtà gli permette di fissare nelle opere un suo “ritratto dinamico”. È un giovanissimo scrittore quello che nel secondo episodio di Ritorno all’inferno raggiunge la Grecia nel 1933 e incontra Ambrose, il re omosessuale d’un’isola da operetta, infestata da topi e parassiti umani, che non riesce a mettere nessuna distanza tra sé e i ricordi più atroci. Ed è già scrittore affermato e sceneggiatore di cinema a Los Angeles quando nell’ultima parte del libro incontra Paul, il gigolò più ambito e irrimediabilmente fatale, «portato come una geisha a donare piacere», e che in realtà non appartiene a nessuno (tantomeno a Capote che lo corteggia in Preghiere esaudite).
Al centro di questa indagine, le due anime di Isherwood: quella conformista del posato gentleman e quella attirata dalle trasgressioni e dal cambiamento. Come in Christopher e il suo mondo dove l’atteggiamento di Isherwood è sintetizzato nella frase «I am a camera»: lo sguardo di «un outsider intento a osservare la parata della vita con indifferenza aristocratica, con penosa impotenza». Come quando riceve da Forster, tra imbarazzo e commozione, l’inedito manoscritto di Maurice; o assiste a Berlino nel 1929 all’incontro tra Hirschfeld e Gide «in perfetto costume da Grande Romanziere Francese, con tanto di mantellina», sogghignante e inorridito del lavoro dello studioso. E Isherwood di colpo amò Hirschfeld, «il vecchio professore sciocco e solenne, con i suoi baffi di cane, con i suoi spessi occhiali scrutatori, e con i suoi stivali scalcagnati ebreo-tedeschi».
77 – Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray
Benché amasse farlo credere, lord Alfred Douglas non servì da modello al personaggio di Dorian Gray. La scelta del cognome fu una specie di corteggiamento per un giovane e biondo studente, John Gray, a cui Wilde dedicò anche la frase apparsa poi nel romanzo: «Il mondo è cambiato perché tu sei fatto d’avorio e di oro. Le curve delle tue labbra riscrivono la storia». Ma fu proprio il libro, riletto nove volte di seguito «con passione», a spingere l’intraprendente Bosie a conoscerne l’autore.
Come spesso succedeva a Wilde, la finzione tra arte e vita era totale, e l’assioma che «la Vita imita l’Arte» è, anche in questa circostanza, incontestabile, perché Wilde con una preveggenza sconcertante dette al personaggio tutti i connotati che malauguratamente l’avrebbero trascinato in disgrazia.
Se fu un libro a farli incontrare, è sempre un libro – il misterioso «libro giallo» – che affascina e cambia Dorian Gray. Sul titolo si è molto disquisito, ma l’elegante reticenza di Wilde fa supporre che sia proprio A ritroso di Huysmans, dal quale aveva attinto a piene mani per le sue teorie sull’estetismo. Il ritratto di Dorian Gray è infatti il romanzo dell’estetismo par excellence.
A casa del pittore Basil, lord Henry incontra per la prima volta Dorian, languidamente in posa per un ritratto. È un coup de foudre smaccato, che mette in agitazione Basil che già immagina il ragazzo (il cui viso era «l’equivalente di Antinoo» nella scultura greca) tra le grinfie dell’amico.
Lord Henry è infatti l’aristocratico connaisseur che s’innamora dell’oggetto d’arte, sa di sedurlo solo corrompendolo e proiettandovi il suo «temperamento». E infatti, lentamente, sotto gli occhi costernati di Basil, Dorian si trasforma in lord Henry, ne adotta il cinismo e le maniere in una sorta di reciproco vampirismo maschile, dove il bel ragazzo (il protégé) si trasforma nell’esteta decadente.
Si è prodotto un fenomeno di procreazione omosessuale (dice Camille Paglia); ma l’errore è fatale, perché è impossibile materializzare la dottrina nei sensi, la contemplazione nell’azione.
Grazie al patto faustiano con il quadro, Dorian preserva se stesso come un’opera d’arte; ma nel momento in cui ricade nel tormento della vita e tenta di cancellare il passato e «i suoi odiosi rimproveri», pugnala il ritratto-coscienza e di conseguenza uccide se stesso.
A tutti coloro che accusarono il romanzo di immoralità e di apologia pederastica, Wilde rispose coraggiosamente: «Non esistono libri morali o immorali. I libri sono scritti bene o scritti male». E per smentire chi lo identificava nell’eccentrico e diabolico lord Henry, rispose, con l’immodestia d’una trimurti, che i tre personaggi erano la rifrazione della sua immagine: «Basil Hallward, il pittore, è ciò che io credo di essere; lord Henry ciò che il mondo pensa di me; Dorian è ciò che mi piacerebbe essere – in altri tempi, forse».
78 – James Purdy, Rose e cenere
Perché in italiano sia stato scelto questo titolo, vacuo e pretenzioso, è un mistero, visto che l’originale Eustace Chisholm and the Works trasporta subito il lettore dentro il fulcro del romanzo, e cioè «nelle vicende in cui c’è lo zampino di Eustace Chisholm», demiurgo e burattinaio dell’intera storia.
Con l’abbreviativo di Ace (asso di briscola), il Nostro vive al centro di un appartamento che è un po’ «lo scarico dei sogni falliti» di tutti coloro che vi transitano: l’ex moglie Carla, il bellissimo Amos, l’ex minatore Daniel, il patetico miliardario Reuben e la scatenata pittrice, Maureen. Siamo a Chicago negli anni Trenta, in piena recessione economica, fra torme di disoccupati in fila per il sussidio.
Con una specie di misteriosa preveggenza che gli altri attribuiscono agli effetti della sifilide – e che invece gli deriva dal lascito paranormale di un’indovina – Ace prevede nella scacchiera degli odi e degli amori le mosse, e le spinge a compimento. Scioglie e lega le relazioni, s’appropria dell’altrui corrispondenza, anticipa le soluzioni drammatiche proprio come fa un autore con i personaggi di un romanzo.
Metafora della scrittura, il suo manoscritto – vergato su fogli di quotidiano, come punta di grafite sulla cronaca – finirà in un falò con le illusioni da romanziere.
Al centro delle attese, l’Amore che non si incarna, quello dei versi di Virgilio: «allevato nel deserto», «straniero per nascita, usurpatore e invasore». Per Carla che, dopo una fuga d’amore, ritorna al tetto coniugale; per Reuben che impazzisce per Amos ma sposa Maureen; per lo stesso Amos e Daniel, tra i quali sboccia una passione impossibile, incongrua e mai consumata tra il prostituto che ama il greco antico (il bifronte di Amos è soma: corpo) e l’ex minatore che solo in stato di sonnambulismo visita di notte il ragazzo.
Guai a svegliarlo e a rendergli manifesta la sua omosessualità! In una vita che «era sempre stata una passeggiata nel sonno», Daniel non regge la vista dell’amore; i suoi occhi allucinati e ciechi si rigirano in se stessi. È la stessa condizione che vive Fenton nello splendido racconto 63: Palazzo del sogno: lo stesso sguardo ottuso, un’affascinante animalità – le sue scorregge, durante una rappresentazione di Otello, seducono tutta una corte squittente di attori omosessuali – un fratellino malato e visionario, e «una giovinezza superflua, come l’età per un dio».
Come Fenton e Amos, anche Daniel è segnato dalla morte: la sua perfezione consisteva in «un compatto insieme di carne e ossa e sangue, che era il bersaglio che attirava la distruzione». Finirà straziato e seviziato da un sadico in uniforme, in un concertato di agonia e di liberazione che risulta sconvolgente, scandito da un occhio impassibile, con una prosa asciutta e intensa, e l’atmosfera allucinata e magica della narrativa nera.
79 – Maurice Sachs, Il sabba
Nella Parigi del 1930, Sachs era soprattutto noto per essere un personaggio eccentrico, omosessuale, alcolizzato, parassita e mercante d’arte senza scrupoli, ebreo rinnegato, seminarista e, alla fine della sua esistenza, anche collaborazionista. In questo libro pubblicato postumo c’è tutta la sua arte d’arrangiarsi e quell’atmosfera di “grandi vacanze” che faceva alzare sopra Montmartre «la luce rossa di un grande lupanare» , mentre a Le Boeuf sur le toit «i giovani pieni di meraviglia andavano a “contemplare” Picasso, Cocteau, Radiguet, Poulenc, Honegger, Satie, Breton, Aragon, Derain e tutta l’avanguardia di quegli anni». Ma Sachs è insicuro e permaloso; i buoni propositi, le improvvise infatuazioni si risolvono sempre in lagne rancorose e in tentativi grotteschi di truffa. Così è per Coco Chanel, di cui diventa temporaneo bibliotecario; per Cocteau e i coniugi Maritain che appongono la firma di padrini al suo certificato di battesimo, e poi del primo – che ha amato, invidiato, imitato – schizza un ritratto al vetriolo senza precedenti: «Geniale agente pubblicitario… abile giornalista che volgarizzava le rivoluzioni altrui»; e della sua opera: «Non ha né odori né sapori. È uno straordinario pot-pourri di petali strappati dai fiori più diversi e che tutti si sono seccati tra le sue mani». Appare in questo girotondo infernale anche un trapassato come Proust «il cui nome era stato durante tutta la nostra giovinezza come un incantesimo». Ma è una seduta medianica fatta nel tinello di casa, con la domestica, che in questo caso risponde al nome di Albert, un personaggio «a cui piaceva fare il servo quanto agli altri piaceva comandare» e che ai tempi del giovane Sachs ancora dirigeva lo stabilimento dei Bains du Ballon d’Alsace, dove Proust veniva a osservare senza essere visto «quegli uomini ricchi, celebri, invidiati, spesso sposati e considerati eccellenti padri di famiglia, che però non avevano potuto o saputo perdere il gusto dei ragazzi». «Il servizio del vizio è ciò che stabilisce la più sicura intimità, la sola possibile, fra un gran signore e un piccolo contadino.» È in nome di questa spudorata complicità e di un’assoluta mancanza di regole che Sachs può inventarsi il geniale incipit: «Io mi considero un cattivo esempio capace di dare buoni consigli».
80 – Pietro Santi, Il sapore della menta
La guerra è da sempre spartiacque tra due epoche, rendiconto morale, una grande prova che investe il mondo e lo cambia, tanto che molti intellettuali (qui siamo a Firenze, nel mondo artistico frequentato da Santi) non ci si ritrovano più. «Firenze, città rara, ironica, geniale. E maiala»: si lamenta il povero Stefano Bonetti, nei cui tratti è adombrato il grande Gadda. E ancora: «Quella città malefica lo aveva sputtanato; dicevano: “sapete, Bonetti…” e le signore ridacchiavano mentre gli uomini alzavano le spalle con gesto di superiorità, loro così sicuri del proprio “coso”, e senza complessi verso i militari, di terra, d’aria e di mare».
Arriva la Liberazione e arrivano gli americani, «comincia la storia dolce della Corruzione amara. Ognuno s’accorse d’avere un corpo, alto o basso, grasso o magro, liscio o peloso, per gli sguardi inebetiti dei soldati stranieri». Finisce un mondo; un altro, del tutto imprevedibile, è alle porte: proprio al passato allude il titolo, a un’età dell’uomo, quella dell’infanzia e della prima adolescenza che rimane in bocca come il sapore insistente della menta.