Nuova puntata del canone letterario di Teobaldelli.
Ivan Teobaldelli è, fra le altre cose, l’autore del romanzo Esercizi di castità (Einaudi, 1993) e il co-fondatore e direttore della pionieristica rivista Babilonia. Nel 1997 ha pubblicato La biblioteca segreta. Cento romanzi che raccontano l’amore omosessuale (Sperling & Kupfer), un personale canone di opere letterarie del Novecento stilato «in nome di che? Della libertà, beninteso, e delle legittime ragioni del cuore». il lavoro culturale è felice di ripubblicarlo per intero, in dieci puntate: questa è la settima. Qui le puntate precedenti.
61 – José Lezama Lima, Paradiso
Uscito in Italia nel 1971 per II Saggiatore, Paradiso è una di quelle discese infernali che continua a spaventare i lettori pavidi e addomesticati, riservando il suo zolfo ai pochi avventurosi. Eppure, come dice nell’affascinata prefazione Julio Cortázar, Paradiso chiede d’essere letto «come gli inni orfici, come i bestiari, come II Milione… I King, i libri fulgurales».
Misconosciuto, faticosamente decifrabile, Lezama Lima appartiene alla tradizione della scrittura ermetica, che trova apporti e ispirazione nelle forme teosofiche egizie o indù, nelle normative della civiltà greca, nei segni rituali dei Maja, nel barocco di Gongora o di Sor Juana Inés de la Cruz, negli incubi di Lautréamont. È una scrittura dedicata al delirio e allo scialo; ha per bersaglio “il difficile” e “l’analogo metaforico”. In questo atlante dilatato di mitografie, Paradiso ha però la struttura di un romanzo di formazione, i primi trent’anni di vita di José Cernì, e il suo percorso per avvicinarsi alla conoscenza, sotto la guida e lo stimolo di maestri come Fronesis e Oppiano Licario, destinati a scomparire nel momento della piena consapevolezza. Al capitolo IX una delle dissertazioni più fulminanti e complesse sull’amore omoerotico o, meglio, sull’impossibilità di un uomo «a giustificare il perché è omosessuale»; conversazione che mescola la memoria ancestrale alla patristica, il paideuma alle beffe del Cellini, la setta dei Catari alle statistiche di Havelock Ellis.
E che immaginiamo a fior di labbra, tra le volute del sigaro di questo Valéry tropicale, sornione e lucido come un prestidigitatore, che estrae, da sotto i banchi di scuola, le priapesche esibizioni del «dolmen fallico di Leregas», e, a proposito di un pompino, disquisisce sulle otto parti di cui consta, nei testi indiani, un’opoparika (o unione buccale); per innestare, con un coup de dés, sul mito antropomorfico di Adone, una sequenza da film porno: «Udì verso gli ultimi scalini uno sgusciamento oleato. Scorse Baena Albornoz, con l’asciugamano arrotolato intorno ai fianchi, che si lanciava in cerca della matricola che lo aspettava con la lancia pompeiana in resta: il grande atleta esibiva tutta la perfezione del suo corpo iridato dall’eone retrogerminativo. L’Adone soccombeva nell’estasi sotto la zanna del setoloso».
62 – Monique Lange, I pescigatto
È un racconto delizioso che sembra scritto con il lapis su carta velina – sullo sfondo la Parigi del 1946 – da una ragazza fisicamente insignificante, cronicamente malinconica e ancora “addormentata” alla passione, che s’innamora dell’Amore nella figura affascinante d’un uomo che potrebbe essere suo padre, il Pigmalione, il mitico Don Giovanni.
In questo complicato rapporto, che separa rigidamente il cuore dai sensi – la ragazza è costretta a farsi sverginare da uno sconosciuto, a mendicare amore da un torero vile e da tutta la sua cuadrilla – nuotano disinvolti e sornioni «i pescigatto», gli omosessuali, che sono, sì, indifferenti alla femminilità, ma «che a forza di star fuori del mondo […] ritrovano con la donna complice un’armonia» (e un pizzico di autobiografia, se è vero che Monique Lange, un giorno, si fece scegliere da Genet gli abiti, il marciapiede e persino il cliente, per provare una volta tanto l’esperienza della prostituta; ma tutto finì in una gran risata).
Se poi i pescigatto si chiamano Chrysanthème e fanno le dive al Carrousel dove «le donne più donne delle donne sono uomini» e l’incompatibilità tra il giorno e la notte è come squadernata, ecco che riescono a strappare la protagonista dall’infelicità «con la loro distrazione, la loro tenerezza, la loro frivolezza e il loro modo di prendersi in giro». Anche se il prezzo da pagare per liberarsene ed «essere liberi» è un ulteriore squarcio del velo, proprio all’ultima pagina, quando l’irresistibile Don Giovanni, l’amante ideale di tutte le femmine, è sorpreso a letto… indovinate con chi?
63 – Pier Paolo Pasolini, Petrolio
Pubblicato diciassette anni dopo la morte di Pasolini (con la solita, pretestuosa querelle sul rispetto dell’autore, la liceità dell’operazione eccetera), è un brogliaccio affascinante che mette insieme annotazioni, tracce di romanzo e di saggio, digressioni e profezie – e forse anche le foto di Pedriali scattate a Chia, in forma di rubate didascalie.
Così lo giustifica l’autore, in una lettera, all’amico Moravia: «Questo romanzo non serve più molto alla mia vita (come sono i romanzi o le poesie che si scrivono da giovani), non è un proclama, ehi, uomini! io esisto, ma il preambolo di un testamento, la testimonianza di quel poco di sapere che uno ha accumulato».
Sembra di muoversi dentro la bottega ingombra d’un artigiano, dove accanto a pezzi perfettamente torniti, «Il pratone della Casilina», s’intravedono abbozzi rapinosi come «Le visioni del Merda»; un laboratorio di stili e di identità impiantato «sulle rotaie» fortemente ideologiche dell’autore (la politica, i cambiamenti sociali, il sesso) che si rimescolano tra loro in snodi magmatici e sconnessi, come un fiume di petrolio in attesa della combustione.
64 – Klaus Mann, La pia danza
Aveva diciannove anni il figlio di Thomas Mann quando scrisse questo romanzo, parabola di perdizione di un figlio dell’alta borghesia e di cotanto padre, che s’identifica nel protagonista, Andreas, fuggito da casa per finire a Berlino, nel cabaret La pozzanghera, a cantare, truccato da ambiguo marinaio: «Siamo così soli nelle ore oziose / le nostre gambe son così graziose».
Siamo negli anni Venti: pensioncine-bordello, travestiti, marchette, locali particolari, e poi l’incontro con il biondo Niels – «Io sono un poeta e tu sei il mio sogno» – incontro rovinoso, ricattatorio per l’artista innamorato, con il ragazzo di vita che mette incinta l’amica migliore dell’altro, fugge con conti e baroni polacchi, si fa mantenere a Parigi da una scultrice androgina americana, scompare infine nel più celebre party della stagione, il «Clo-clo-clo», mentre il povero Andreas s’imbarca per nonsisadove a meditare sulla futilità della vita e dell’amore. Non tragga in inganno la futilità del soggetto. Klaus Mann è stato scrittore «bifronte»: esteta con i romanzi Mephisto, Sinfonia patetica, Il vulcano; impegnato attivista nelle questioni sociali. Vide con grande lucidità il pericolo del nazismo e la ragnatela d’intolleranza che collegava la Chiesa, la borghesia reazionaria, l’Unione Sovietica e il Führer. Nel saggio Omosessualità e fascismo accomuna il regime sovietico a quello tedesco: «Il diverso è il capro espiatorio, è l’ebreo degli antifascisti»; intuisce che il culto della persona e del capo riveste inconsciamente un carattere omosessuale.
Si toglierà la vita a Cannes con un’overdose di sonniferi. Aveva giustificato così la sua opera: «Non possiamo scrivere che a partire da ciò che ci condanna a stare sui carboni ardenti».
65 – José Donoso, Il posto che non ha confini
Lo scrittore cileno José Donoso occupa un posto un po’ obliquo nel boom della narrativa latino-americana, perché, a differenza di Màrquez, Fuentes, Vargas Liosa, si è sempre dichiarato refrattario all’impegno politico e si considerava «un anarchico aristocratico». Ha scritto di lui, Tabucchi: «Donoso è uno scrittore di schietta cattiveria […] quella che si accanisce contro la stupidità, la coercizione e la prepotenza».
In un postribolo abbandonato nella campagna sudamericana, fra latrati di cani feroci e lo sferragliare del camion rosso di Pancho Vega, maschione dal collo di toro e dalle sopracciglia nere saldate, in mezzo a una corte di apatiche puttane – l’illibata Giapponesina, le sorelle Farias, Rosita e Tette di Legno – tra l’odore del mate e il fonografo che gracchia Flores negras, sopravvive e s’arrabatta «la Manuela», al secolo Manuel Gonzàlez Astica, travestito e performer di flamenco.
È lei la vittima e la sovrana di questo inferno dove vengono a «sfogarsi» i contadini ubriachi, l’affascinante e brizzolato don Alejo, latifondista, e le puttane sono pagate perché facciano «quadri plastici», e la Manuela s’infila il vestito di percalle con le balze e si scatena nella struggente canzone El relicario. È un posto fuori del mondo, un teatro affollato di fantasmi erotici brutali e inconfessati, l’arena in cui s’affrontano ad armi impari, nel sangue, il desiderio e la sua negazione.
66 – Radclyffe Hall, Il pozzo della solitudine
Apparso nel 1928 e subito bandito, in Inghilterra, per oscenità, è davvero “il grande libro” del lesbismo e forse la più affascinante e complessa analisi che sia mai stata effettuata sull’argomento. Il romanzo, d’impianto solidamente ottocentesco, racconta la vita d’una giovane inglese e accumula tutti i topoi classici che scandiscono «un’indole diversa». Fin dalla scelta del nome maschile, Stephen, deciso dai genitori che si aspettavano un bimbo: «Ma l’uomo propone e Dio dispone. Così avvenne che Anna Gordon si sgravò d’una bambina: un rospetto dalle anche strette e dalle spallucce larghe, che strillava per ore e ore, senza requie, quasi fosse offesa di essere stata gettata nel mondo».
L’infanzia è un’altalena di affetti e di angosce, tra l’amore protettivo del padre e la diffidenza della madre che non vede di buon occhio quei comportamenti di stampo virile, la passione per l’equitazione e la scherma, e l’odio per i libri della «Biblioteca rosa». Appena adolescente, a una caccia alla volpe, Stephen ha la visione del suo futuro «braccato»: la bestiola era «coperta di fango, con la lingua pendente, con i polmoni agonizzanti, gonfi da scoppiare, con lo sguardo disperato di chi è spietatamente inseguito…» Con la scomparsa del padre — che muore tacendo il suo rovello e la consultazione dei manuali di Ulrichs e di Krafft Ebing sull’inversione — finisce la stagione protetta dell’infanzia. Una donna, un’avventuriera americana, sarà la scoperta dell’amore e anche la sua negazione. L’intera esistenza di Stephen si colloca da allora sotto il segno della femme damnée. Non le varrà molto diventare una scrittrice celebre, incontrare durante la guerra la compagna della vita, Mary, accorgersi che il mondo – e soprattutto Parigi – è pieno di omosessuali e di lesbiche. Lo specchio che essi rappresentano le incute terrore: è con pietà e raccapriccio che Stephen osserva «la miserabile armata» «gli sterili individui» «il cui nome è legione». Se da un lato ha conosciuto il dileggio dei cosiddetti «normali», dall’altro non riesce a preferirgli la complicità dei simili, che considera disperata e malsana, perché «privati d’ogni dignità sociale […] e più disperati della più disperata feccia della creazione». Di fronte a questo esito maledetto, l’unica soluzione per Stephen è quella di spingere Mary tra le braccia di un uomo, per salvarla. È l’ultima mutilazione, quella più incomprensibile e masochistica, ma che permette — blasfema preghiera — un urlo finale di sfida: «Tu non ci hai rinnegati. E allora levati a difenderci, riconoscici, o Dio! Davanti a tutto il mondo, dà anche a noi il diritto all’esistenza».
Saranno in molte a raccogliere il grido.
67 – Truman Capote, Preghiere esaudite
Benché sia un libro incompiuto, la cui stesura a singhiozzo ossessionò per molti anni l’autore, contiene tra le pagine più belle scritte da Capote, come in Altre stanze, altre voci. E non solo per lo scandalo che provocò (con l’anticipazione di un capitolo su Esquire, «La Côte Basque», tutto il bel mondo, inferocito, gli girò le spalle), ma per l’ambizione che sottendeva l’opera: di essere un’indagine, feroce, spietata come quella di Proust, sul mondo dei nuovi ricchi cosmopoliti. È lui il personaggio principale del romanzo, P.B. Jones, squattrinato massaggiatore, gigolò part time, apprendista scrittore, che all’inizio, con il naso premuto contro i vetri, s’incanta davanti allo splendore dei saloni, poi riesce a frequentarli, diventa intimo dei ricchi e ne condivide i vizi e le manie, li radiografa in maniera esemplare, e li infila con la più acuminata delle scritture. Una serpe in seno, ecco che cosa si rivela il giullare innocuo, l’enfant prodige coccolato; e per questo sarà bandito per sempre dal «regno del nulla».
68 – Reinaldo Arenas, Prima che sia notte
Cuba è «l’isola desolata» da cui l’autore, omosessuale e dissidente, è scappato, dopo aver subito il carcere e la delazione, e per sfuggire un’umiliante ritrattazione. Da lontano Cuba ritorna a essere l’infanzia, con le sue magie e una struggente tenerezza: «Tra i sette e i dieci anni […] aprivo un buco negli alberi dal fusto tenero e ci infilavo il pene […] Lo facevano anche i miei cugini, con i meloni, le zucche, le anone. Uno di loro, Javier, mi confessò che il piacere più intenso lo provava con il gallo. Un giorno il gallo morì. Penso dalla vergogna di essere stato violentato, quando era lui che si faceva tutte le galline del patio». Poi lentamente il disinganno: i primi giorni entusiasti della Rivoluzione – che non era affatto «verde come le palme» – la genuflessione al regime degli intellettuali, l’ipocrisia della sinistra occidentale accecata dal mito della Rivoluzione cubana. E soprattutto, aggiungiamo noi, l’odioso embargo americano. Ma in tutta la disperazione – l’autore si suicida nel 1990 a New York prima d’essere finito dall’Aids – resta, fino all’ultimo, intatto l’innamoramento. E la speranza, che gli fa scrivere questo addio: «Cuba sarà libera. Io lo sono già».
69 – Hubert Fichte, Pubertà
Mescolando scrittura sperimentale a pacate confessioni autobiografiche (sono diverse “le pubertà” raccontate), il romanzo di Fichte è una specie di inchiesta sulla natura biologica del sesso e della vita, e s’apre con un’occhiata attonita su una lugubre sala d’autopsia dove si sezionano i cadaveri e «l’uomo è nulla», fino all’esaltazione narcisistica dell’Io e la lode al culo «che è come un occhio, che è come il mondo, che è come un culo», disperato tentativo di sfuggire alla fragilità e alla corruzione del corpo con gli strumenti della passione amorosa e con la deflagrazione erotica, e magari avventurandosi per territori dove domina la magia afro-americana.
Grandi numi tutelari: Artaud, Genet, Hölderlin. Le biografie, raccontate quasi a bassa voce, smascherano la falsa permissività sessuale della nostra epoca: Rolf, sessantenne, la sua incapacità di legarsi a una persona, l’odore della vecchiaia, quel gran bordello dell’Africa del Nord, le stazioni centrali, i parchi, i pisciatoi.
La pederastia di Axel: «Il pederasta non ama i suoi simili […] ama l’incompiuto. Vuol sempre farlo con quello che non vuole ancora farlo […] un ideale latteo». Hans, un’altra pubertà: da adolescente l’omicidio d’una donna, poi il riformatorio, l’incontro con il cuoio, le pratiche hard: «La combinazione di corpo sudato e cuoio e urina è una mescolanza che assomiglia all’odore del sangue»; la reiterazione sessuale: «Molta gente della scena omo è dominata dall’idea ossessiva di non andare mai a letto una seconda volta con la stessa persona».
Un romanzo programmaticamente ambizioso: l’eccesso e l’intemperanza, della vita e della scrittura, sono l’impronta che testimonia il nostro passaggio sulla “tabula” del mondo. Vanitas vanitatum.
70 – Colette, Il puro e l’impuro
Con occhio sognante e inesorabile di gatta, Colette si muove tra le nebbie d’una fumeria d’oppio per registrarne i torpidi movimenti e il riso «rauco e brumoso» del piacere che di colpo si leva su quella «spaventosa pace dei sensi» dalla gola di una demi-mondaine.
E ancora l’occhio scruta tra le rughe e i capelli argentati di un Don Giovanni sinistro e infelice, condannato a rinnovarsi dopo ogni conquista; e s’appunta sui monocoli e il garofano all’occhiello delle donne-maschio, Nathalie Barney, «la Cavallerizza» e la sua corte di amiche irrequiete e braccate dalla solitudine: Rachilde, autrice di Monsieur Venus, la baronessa Hélène von Zulien, donne che Rémy de Gourmont definì le «Amazzoni» e che Pierre Louys immaginò come «Giovani figlie della società futura», che si amavano sfrenatamente tra poesie recitate, veli caduti e lampade votive a Saffo; fino a posarsi, pietoso, sull’alcolismo di Renée Vivien, il tentato suicidio con il laudano, i suoi Budda e le ciotole di pot-pourri, i cibi speziati e le imposte delle finestre sigillate.
È un volo radente e feroce sull’immensa Sodoma che era Parigi negli anni Trenta, palcoscenico degli amori saffici di Sarah Bernhardt, con Cléo de Merode che inscenava danze orientali, la stessa Colette che si esibiva nuda nella danza della Sfinge, buffi travestimenti da paggi veneziani e da pastorelli greci e tutte si tradiscono «con molteplici amori» e si perdonano a Mitilene, e decantano, in versi perfetti, esistenze disordinate, in un groviglio inestricabile di seduzioni e di morte, e di una disperata «conoscenza dei sensi».