Nuova puntata del canone letterario di Teobaldelli.
Ivan Teobaldelli è, fra le altre cose, l’autore del romanzo Esercizi di castità (Einaudi, 1993) e il co-fondatore e direttore della pionieristica rivista Babilonia. Nel 1997 ha pubblicato La biblioteca segreta. Cento romanzi che raccontano l’amore omosessuale (Sperling & Kupfer), un personale canone di opere letterarie del Novecento stilato «in nome di che? Della libertà, beninteso, e delle legittime ragioni del cuore». il lavoro culturale è felice di ripubblicarlo per intero, in dieci puntate: questa è la sesta. Qui le puntate precedenti.
51 – Joe R. Ackerley, Mio padre e io
Appaiono tutti e due nella foto di copertina, anche se non sembrano assomigliarsi affatto. Eppure possiedono legami – Joe Ackerley e suo padre – stretti e inquietanti, perché un giorno il figlio scopre che il padre, dietro a un trantran irreprensibilmente vittoriano, tutto casa e ufficio, ha nascosto una famiglia illegittima e, quand’era soldato nelle Guardie Reali, una focosa passione per gli uomini.
Alzando il velo sulla vita segreta del genitore, Ackerley comincia a ricostruire la sua, fino a mettere insieme il puzzle della propria omosessualità con una confessione, per la prima volta, totale e liberatoria.
«Io ero un cherubino dai grandi occhi azzurri e stellanti; il mio primo soprannome fu “Bimba”, e alle superiori i ragazzi più grandi cominciarono presto a farmi la corte». Con questo tono ironico e brillante l’autore registra i primi cauti passi della sua educazione sessuale, così impacciata e carica di apprensioni nonostante il padre – oggi diremmo: moderno e aperto – non si periti di rivelare al figlio che «in materia di sesso non c’era nulla che lui non avesse provato, nessuna esperienza che non avesse fatto, nessun guaio in cui non si fosse cacciato».
Ma non c’è più sordo di chi non vuol sentire; e così il figlio riesce a complicarsi tutto, somatizzando in cronica stitichezza e nell’ossessione dell’alito cattivo – «niente fimosi, né alitosi, né bromidrosi» – la naturale inclinazione verso gli uomini. Terrore delle avance; disgusto verso qualsiasi tipo di pratica sessuale che non fosse il semplice bacio; sfibrante e infruttuosa ricerca dell’Amico Ideale – ma guai a essere da costui “corrisposto” – e, per finire, l’imbarazzante problema di eiaculatio precox.
Con tutti questi ceppi, uno s’immagina la lamentevole e straziante storia di un omosessuale tormentato e “velato”. E invece: «Incapace di arrivare al sesso attraverso l’amore, mi lanciai in una lunga caccia dell’amore attraverso il sesso».
Così prende l’abbrivio una delle più scanzonate autobiografie mai scritte, di caustica e raffinata crudezza, senza lagni né patetismi e, va proprio riconosciuto, decisamente gaya.
52 – Annie Messina, Il mirto e la rosa
In questa favola deliziosamente artefatta come una miniatura persiana – dove i buoni sono belli e sublimi, e i cattivi, perfidi e brutti – si narra la passione del sultano Hamid el-Ghazi per uno schiavo dodicenne, Falco, miracolosamente strappato all’evirazione.
È l’incontro tra il mirto (la virilità) e la rosa della fanciullezza, in un contrasto innamorato di biondo e di bruno, di virile e di androgino, di forte e di delicato. Nessun sottinteso sessuale: sono gli altri, il pervertito Hussein che faceva morire di sfinimento sessuale le sue giovani prede, e il ribaldo e violento primogenito Harad, a insinuare la carnalità di un legame che, invece, si snoda tra caste notti, abbracci filiali e prove di reciproca dedizione. Tutto quanto perfettamente incastonato in due parentesi inquietanti: lo sfregio iniziale del ragazzo, eseguito dal pugnale del principe, per tutta la lunghezza della guancia; e l’abbraccio frenetico finale – al limite della deflorazione – a cui lo spaurito ragazzo riesce a malapena a sottrarsi, prima di precipitare, abbracciato al suo uomo, felici e innamorati, nel crepaccio.
53 – Thomas Mann, La morte a Venezia
Tre inquietanti apparizioni precedono l’incontro dello scrittore Gustav Aschenbach con la bellezza fatale del giovane Tadzio: uno strano montanaro dal pelo rosso e dallo sguardo bellicoso, che gli scatena dentro un desiderio di irrequietezza e di lontananze; un vecchio signore imbellettato dai modi chiassosi ed effeminati; un falso gondoliere che in un silenzio torvo e minaccioso lo trasporta clandestinamente al Lido. Sono le premonizioni d’una sciagura, perché è così che morirà Aschenbach: lontano da casa e dai riconoscimenti, truccato e tinto da giovanotto, infettato da un morbo che tutti fingono di misconoscere. Mentre davanti a lui, sul bagnasciuga, pallido psicagogo, il ragazzo gli indica, all’orizzonte, il regno dell’abbandono e della suggestione. Così Thomas Mann trasferisce nel sublime letterario quel desiderio “imbrigliato” che gli fa confessare con amarezza nei diari: «Le avventure segrete della vita, che si compiono quasi in silenzio, sono le più grandi».
54 – Jean-Paul Sartre, Il muro
C’è nella raccolta un racconto dal titolo Infanzia d’un capo che narra i primi sedici anni di vita del protagonista, Luciano Bouffardier, dall’indistinta sessualità dell’infanzia (sembrava una bambina, con i boccoli biondi, i vezzi e le cannerie); la pubertà: «“Fammi vedere il tuo”, disse Rirì. Li misurarono e quello di Luciano era più piccolo, ma Rirì barava; tirava il suo per farlo più lungo»; l’incontro con Achille Bergère, omosessuale surrealista e oppiomane che invita Luciano «allo sregolamento di tutti i sensi», fino a sedurlo in una camera d’albergo, tra pigiami di seta e rigurgiti di whisky, feroce caricatura del povero Cocteau.
Grande disgusto per il rapporto subito: «Ho cominciato col complesso edipico, poi sono diventato un sadico-anale e adesso, per completare il mazzo, sono pederasta; dove mi fermerò?» A far militanza in Action Française, a odiare e pestare gli ebrei, a sognare di diventare padre e padrone.
«La metamorfosi era compiuta; in quel caffè, un’ora prima era entrato un adolescente grazioso e incerto; un uomo ne usciva, un capo tra i francesi».
55 – Luigi Settembrini, I neoplatonici
Fingendo di aver tradotto dal greco un manoscritto di Aristeo di Megara, autore inesistente, Settembrini consegna dal carcere di Santo Stefano questo delizioso racconto, come una bottiglia gettata in mare da un naufrago.
Perché sapeva bene il venerato Maestro, martire patriottico dei Borboni, che quest’apologo pederastico (lui inventa il termine «fanciullaio» per chi ama i ragazzi) avrebbe avuto un effetto devastante per la sua immacolata reputazione.
Ecco perché, giustificando alla moglie l’azzardo della traduzione, mette avanti una excusatio non petita – «Le opere greche sono piene di queste oscenità; era il tempo, era la gente voluttuosa […] Scrivendo io da me, mi guarderei bene da queste sozzure» – che si rivela di fatto una accusatio manifesta.
La storia di Callide e Doro, «i più bei garzoni d’Atene», è il racconto leggero e licenzioso d’una educazione sessuale. Naturale, perché fin da bambini i due dormivano nello stesso letto: «e spesso l’un con l’altro confondendo i piedi e le gambe, come i serpenti intorno alla verga di Mercurio, si abbracciavano e soavemente si addormivano».
Autodidatti, perché già efebi sentendo «quell’interno rimescolamento, quell’angoscia che è […] la prima voce di amore», ebbero l’ispirazione divina di afferrare «un vasello di purissimo olio […] unsero bene e la chiave e la toppa» e si presero a vicenda «senza molta fatica e senza noia».
Quando arrivano i maestri, non c’è più molto da imparare. Ha un bel vantare il filosofo Codro, quarantenne piacevole e ciarliero, la superiorità dell’amore omosessuale, citando Armodio e Aristogitone, e Achille che rimpiange Patroclo e «la dolce usanza di star fra le tue cosce santamente». Sfonda una porta aperta.
Lo stesso succede all’intraprendente Innide, ballerina, che inizia i vergini Dioscuri alle gioie d’Afrodite. Più adulti, sposati ma recidivi, Doro e Callide continueranno a frequentarsi «sino alla vecchiezza», e di tanto in tanto «trovandosi nel medesimo letto confondevano i piedi e si abbracciavano come nei primi anni della loro giovinezza».
Se è vero che sognare, in carcere, è un modo di resistere all’abbrutimento, questa favola su un eros libero e disinibito si rivela un’umanissima ciambella di salvataggio. E con quanta sincerità, Settembrini – condannato a morte, messo ai ceppi per otto anni e poi esiliato – riconosce che «l’ergastolo è la casa dei sogni: qui si sogna ad occhi aperti e ad occhi chiusi».
56 – Jonathan Ames, Notti newyorkesi
«È un misto di Genet e del giovane Holden nell’età dell’Aids», così Philip Roth ha definito Ames a questa sua prima prova d’autore. C’è New York nel titolo e al centro del girovagare notturno del protagonista: con le puttane della Bowery, i bar gay del Greenwich Village, gli homeless accovacciati sui cartoni e una girandola malinconica di ricordi d’infanzia, le colonie estive, la perdita della verginità con una coetanea intraprendente, la buona azione giornaliera (la mitzvah), il cappello che apparteneva al nonno ebreo, il primo rapporto omosessuale: «Mi bruciava il culo, avevo cagato lo sperma bianco […] sono andato di sopra e mi sono sdraiato sul mio letto d’infanzia. C’era un gran silenzio e ascoltavo, e il mio corpo era come una casa nella quale potevo distinguere i rumori delle varie porte che sbattevano». Uno stile cinematico, secco, senza sentimentalismi, ma non “minimalista”, bensì autorevole, sarcastico e oggettivo.
57 – Giorgio Bassani, Gli occhiali d’oro
Non è facile incontrare nella nostra letteratura un ritratto così delicato eppure incisivo come quello del dottor Athos Fadigati, di professione laringoiatra, che apre e chiude il romanzo di Bassani. Visto attraverso gli occhi di un giovane ebreo ferrarese, è un ritratto riflesso, che si compone via via in un crescendo orchestrato – un venticello – di apprezzamenti e di calunnie: «Cosa aspetta a mettere su famiglia, il dottore?» oppure, al cinema: «Che ci fa laggiù in platea, in mezzo alla peggiore ‘teppa popolare’?» Fino ai primi sospetti: «Dicono che sia di ‘quelli’», e all’insulto plateale del giovane amato: «Oh, un vecchio finocchio».
La provincia è sorniona e tollerante finché non si dà scandalo. Ma quando il povero Fadigati, sedotto e in balia dei capricci del bellissimo Deliliers, «un vero e proprio reuccio locale», viene «munto» e scarrozzato davanti al Grand Hotel «in un’Alfa Romeo 1750 a due posti, rossa, tipo Mille Miglia», siamo al rombo di cannone. E «con la tecnica di un cronista sportivo dell’EIAR» la signora Lavezzoli può sfogarsi a nome di tutti: «Quel Deliliers, in fondo, non era che un ragazzo viziato, un “ragazzaccio”, a cui il servizio militare avrebbe fatto benissimo, a suo tempo. Ma il dottor Fadigati, no. Un uomo della sua condizione, della sua età, non era scusabile in nessun senso. Aveva certi gusti? Era ‘così’? Ebbene… pazienza! Ma venire a esibirsi proprio a Riccione…».
Parallela a questa, c’è la tragedia del giovane ebreo che vede avvicinarsi le famigerate leggi razziali volute dal fascismo. Sono due diversità che si guardano affascinate davanti al precipizio: l’una sotto il segno di David, l’altra sotto quello di Caino. Entrambe cieche, non ci sarà scampo per nessuno. E mentre Fadigati, dismessa ogni prudenza e doppiezza, si toglie la vita in nome dell’unica passione avuta, all’orizzonte si disegna la sagoma dell’Olocausto che le pupille incredule e smarrite degli ebrei ferraresi s’ostinano proprio a non riconoscere.
58 – Monique Wittig, L’opoponax
L’infanzia raccontata attraverso gli occhi di una bambina (Catherine Legrand) non è uno spazio riempito da ricordi scelti e soggettivi, ma un infinito presente narrativo dove battono all’unisono, con i sensi della protagonista, tutte le voci e i rumori del mondo.
La bambina è un radar che registra il ronzio unico e insistente degli insetti, i diversi odori delle foglie marce, i fischi dei rondoni, la frittella di merda fresca d’una vacca, l’ubriacatura del fieno appena tagliato, la cantilena in chiesa delle giaculatorie. E in questo mondo della campagna, anche i rapporti con gli esseri umani sono diretti, condizionati dallo scorrere del tempo e delle norme: la scuola, le suore, le ricreazioni, i funerali, le recite, le diarree, le iniziazioni al sesso. Parlano “le cose” in questa narrazione «oggettiva» che elimina ogni sentimentalismo legato all’infanzia, ogni tentativo di “inquinare” i ricordi. Uno spartito di naturali crudeltà, di fantasie cupe e spaventate, come l’idea che i bimbi morti finiscano nelle buche della strada o la scoperta imbarazzata dei genitali, i morsi e i calci delle zuffe, i primi goffi approcci con il pennino e le parole, l’esperimento di nutrire una serpe a girini, il gusto nero e velenoso delle bacche di sambuco.
E infine, sulla finestra del collegio, l’apparizione fantastica dell’opoponax, che «non è possibile descrivere, perché non ha mai la stessa forma. Regno, né animale, né vegetale, né minerale […] Umore, incostante, frequentare l’opoponax non è raccomandabile». È il simbolo immaginario della rivolta, che appare, come evocato da una stregoneria infantile proprio quando scatta la passione amorosa e la piccola Catherine s’incanta davanti alla nuca e al profilo di Valerie, alle sue gengive color di rosa, tenta di sedurla, la minaccia, la costringe a essere amata proprio in forza e per la suggestione dell’irresistibile opoponax.
59 – Virginia Woolf, Orlando
Dedicato a Vita Sackville-West, Orlando è stato definito «la più lunga e affascinante lettera d’amore di tutta la letteratura inglese». Quando Vita e Virginia si conobbero, fu l’incontro tra due nature profondamente opposte che si affascinarono a vicenda. Virginia era la scrittrice «idolatrata e lontana», «un genio tranquillo» che di fronte a quel «granatiere» di Vita, «dura, prestante, virile», si sentiva «vergine, timida e scolaretta». Vita, di dieci anni più giovane, era invece esuberante e piena di forza. Benché «dichiaratamente saffica», riusciva a essere una madre perfetta, una moglie, «a governare l’argenteria, i domestici, i cani chow-chow», oltre che a produrre un romanzo di ventimila parole, Seducers in Ecuador, in sole due settimane.
Orlando è l’omaggio a questa vitalità e all’incontro tra il maschile e il femminile, così intrecciati nell’indole di Vita. Come lei, Orlando è un giovane aristocratico «malato d’amore per la letteratura» che, quasi rapito per le sue «belle gambe lunghe» dalla rigida e bisbetica regina Elisabetta, attraversa senza invecchiare tre secoli di storia, tra folli esaltazioni per una principessa russa, per gli scrittori Pope e Swift, per Istanbul e gli zingari, per i levrieri e le rose, fino a risvegliarsi, dopo un letargo, trasformato in donna.
Biografia fantastica e funambolica, Orlando è una grande metafora dell’Inghilterra, dall’età elisabettiana a quella della regina Vittoria, con l’arrivo del XIX secolo caratterizzato da una sorniona e fitta nube d’umidità che cresce e costringe gli inglesi a coprirsi di cappotti e crinoline, e persino a rivestire i mobili e le gambe dei tavoli, finché «nulla si vide più di nudo». Il romanzo termina con i rintocchi di mezzanotte dell’ll ottobre 1928. È l’anno in cui la morte del padre toglie a Vita il possesso del castello di Knole, e lo destina, per linea ereditaria maschile, al cugino Edward Sackville-West. Per Vita fu una perdita inconsolabile, ma la pubblicazione di Orlando le restituì in parte Knole, nel senso più profondo e autentico della memoria: «Mi hai fatto piangere, con i brani su Knole, farabutta», scrive emozionata e fiera, subito dopo la lettura del libro.
(E per chi volesse oggi vedere il manoscritto originale di Orlando, donato a Vita, è custodito proprio a Knole, nella dimora ancestrale dei Sackville-West).
60 – Muhammad Choukri, Il pane nudo
Autobiografia spietata di un autore marocchino, analfabeta fino a vent’anni, che racconta un’infanzia d’orrori, come lo strangolamento del fratellino malaticcio a opera del padre-padrone, e una vita di stenti, divisa tra carcere, prostituzione e contrabbando di droga. Reazioni di scandalo seguirono alla pubblicazione: gli stessi intellettuali marocchini e i mezzi di informazione rimproveravano – come successe da noi con il Neorealismo – l’autore per aver lavato in pubblico «i panni sporchi». Non era mai successo che uno scrittore magrebino raccontasse così spudoratamente la sua esistenza, fino alla presa di coscienza del riscatto. Questa avviene in carcere, con l’acquisto di un libro, con cui l’autore «impara a leggere e a scrivere». E a definire anche la propria ribellione.
Classico esempio di autodidatta, Choukri approfondisce la conoscenza dell’arabo classico e comincia a insegnare nelle scuole primarie. A Tangeri s’imbatte negli outsider della letteratura come Genet, Capote, Tennessee Williams – intere notti spese tra bordelli e caffè a parlare d’arte, di ragazzi e di futuro – e proprio per mano del genius loci di Tangeri, Paul Bowles, Choukri il ladro sarà «redento» dalla letteratura.