Quarto appuntamento con il canone letterario di Teobaldelli.
Ivan Teobaldelli è, fra le altre cose, l’autore del romanzo Esercizi di castità (Einaudi, 1993) e il co-fondatore e direttore della pionieristica rivista Babilonia. Nel 1997 ha pubblicato La biblioteca segreta. Cento romanzi che raccontano l’amore omosessuale (Sperling & Kupfer), un personale canone di opere letterarie del Novecento stilato «in nome di che? Della libertà, beninteso, e delle legittime ragioni del cuore». il lavoro culturale è felice di ripubblicarlo per intero, in dieci puntate: questa è la quarta. Qui le puntate precedenti.
31 – Carlo Coccioli, Fabrizio Lupo
Scritto originariamente in italiano, il libro fu invece tradotto e pubblicato in Francia nel 1956, destando grande scalpore e infinite vicissitudini censorie (in Messico, Argentina, Inghilterra, Spagna, Portogallo e in Italia, dove Vallecchi lo chiuse in un cassetto). A distanza di anni, non colpisce più la dichiarata scandalosità del tema omosessuale, quanto l’arrovellamento mistico-esistenziale del protagonista, il pittore Fabrizio Lupo, che consegna a Coccioli la storia della sua vita a mo’ di testamento, esemplare per il senso di colpa e di repressione che coglie l’omosessuale credente e per la tragica fine – così in contrasto con la fede religiosa – consumata in un albergo d’Arezzo. Ma questo era l’assunto “ideologico” del libro, la tesi che non c’è spazio nella società e nemmeno nell’ambiente gay per “il diverso” che aspira alla santità e alla purezza dell’amore omosessuale.
32 – Djuna Barnes, La foresta della notte
Eccentrica, solitaria, «una specie di trappista», la femme-writer Djuna Barnes dichiarava a quasi cinquant’anni dalla pubblicazione di Nightwood, apparso nel 1936: «Sono la sconosciuta più famosa del mondo».
E in questa definizione, tutto l’orgoglio e il sarcasmo di chi sapeva d’occupare un posto, in letteratura, accanto a Eliot, Joyce e Proust.
«Romanzo architettonico», «narrazione spaziale», «realismo in fuga», «un edificio verbale Art Déco»: sono alcune delle tante definizioni per un libro insolito e vertiginoso che assomiglia davvero a un’oscura foresta che nasconde, nel groviglio più intricato dei rami, la storia d’amore tra due donne, Nora e Rodin, e tutte intorno, in controluce, le sagome degli altri personaggi: il patetico barone Volkbein, la rapace Jenny e il più grande ciarlatano di tutti i tempi, l’eloquente ed eccessivo dottor Matthew-Gran-sale-in-zucca-Dante-O’Connor, che dovrebbe sciogliere i nodi della «degradazione e della notte» e guarire dal «male universale», ma non può che ironizzare, invadente come un coro greco, e frignare sotto i boccoli di una parrucca da donna: «Quanto a me, così Dio m’ha fatto, la mia casa è il pisciatoio […] Magari ai vecchi tempi ero una ragazza di Marsiglia che ci dava dentro sul molo con un marinaio, e forse è quel ricordo che mi perseguita».
È la Parigi degli anni Venti, turbolenta e mondana, decisamente franglaise, dove le biografie nascono già come finzione letteraria.
Ma se i café alla moda spariscono, e con loro le Bugatti rosse e i Dan Mahoney e l’agitarsi di un turbante di lamé (quello di Djuna Barnes) dietro una ragazzona americana dai grandi piedi e dalle smanie di scultrice (Thelma Wood), restano, nel cielo metafisico della letteratura, per sempre, la voce sontuosa di O’Connor – e le sue intonazioni da checca – e il calco d’un amore – un reperto fossile – per una ragazza che «esala il profumo dei funghi», «è un’antilope inghirlandata di fiori d’arancio e del velo nuziale», «è una creatura selvaggia intrappolata in una pelle di donna».
33 – Furio Monicelli, I giardini segreti
Se nel suo primo romanzo, Il gesuita perfetto, al centro della trama c’era l’istituzione religiosa con i suoi raffinati meccanismi assolutori e di repressione (la carota dell’ambizione personale e il bastone dell’annullamento nell’obbedienza), qui la dicotomia è tra grazia e colpa, tra innocenza e caduta. Il finale è ugualmente drastico: la Chiesa è sempre d’ostacolo per un’autentica realizzazione, ma il ventaglio del pessimismo si è allargato.
Sergio è un giovane omosessuale che tenta di diventare “normale” con l’aiuto di un sacerdote, di una ragazza e della madre.
Tutti e tre falliranno in questo compito, anzi, «la morte provvidenziale» di Sergio li obbliga a un riesame interiore (espresso in forma di diario) dove dichiarano, assieme alla sua, la fine di ogni certezza.
Il prete chiede l’esonero: «Io subisco, mio malgrado, il fascino del suo male». La ragazza abbandona il convento dove viveva come orfana. La madre confonde ormai la sua comprensione con la follia d’un amore senile possessivo e morboso: «Conoscevo, più d’ogni altro al mondo, la struttura virile e gagliarda del tuo corpo». La sconfitta è totale, e anche l’insistito compiacimento che l’autore mette nel correre a schiantarsi contro la tragedia.
Ma, visto il tipo di interlocutori, come poteva andare meglio per il povero Sergio?
34 – Giovanni Comisso, Gioco d’infanzia
Lo annunciava agli amici come «il grande libro», come un’opera «tremendamente tragica» che poteva essere pubblicata, per via della censura fascista italiana, solo in Francia. A Saba piacque molto; ma gli sconsigliò l’originale titolo Eros. Il libro uscì nel 1965 ed è una parte di quel viaggio che Comisso fece nel 1929 come corrispondente del Corriere della Sera e che fu pubblicato con il titolo di Amori d’Oriente.
Il protagonista, Alberto, decide un giorno, per noia e irrequietezza, d’imbarcarsi per l’Oriente senza una vera meta in testa; sa solo che a Massaua l’aspetta Pietro, un vecchio amore perso nel tempo e nella memoria. La traversata è lunga e monotona; chiuso nella sua cabina, Alberto accende, come cerini, i ricordi della sua vita: la morte del padre, l’abbandono di Pietro, gli odori aspri e intensi delle marine in estate, i primi giochi erotici. Dagli oblò, lungo il ponte della nave, si muovono come fantasmi i passeggeri: il magro e spiritato Hans che va a farsi monaco buddista, l’ufficiale biondo, il marinaio sexy dal coltello alla cintola e, negli sbarchi a Porto Said o a Colombo, un’umanità cenciosa e mansueta a ogni richiesta sessuale. Ma non è lì l’appagamento; altre stagioni, altri profumi riempiono l’immaginario di Alberto-Comisso, inalterabili e fissati per sempre. E se il viaggio doveva servire «a fare luce», l’illuminazione finale è amabilmente beffarda: «I miei piaceri non sono stati che il proseguimento dei miei giochi d’infanzia».
35 – Rita Mae Brown, La giungla di fruttirubini
Il titolo è una metafora per indicare la gioiosità dell’orgasmo lesbico e l’autrice, esponente del movimento gay statunitense, racconta la sua autobiografia di ragazza del profondo Sud degli States costretta a fuggire a New York, con la maledizione della madre e gli anatemi della comunità, per affermare il diritto a una vita «diversa». Molly Bolt, la protagonista, conoscerà difficoltà e traversie, sesso e alcol, povertà e lavoro, ma tutto sarà superato con umorismo e spavalderia: «Una volta provato con le donne, gli uomini diventano una barba tremenda». E quando, nel finale, ritorna al paesello per dimostrare alla madre che la sua ricerca della felicità era giusta, scopre che il ragazzo gay, Leroy, con cui aveva fatto tanti anni prima l’amore, è diventato «un velato» e ha scelto tristemente di vivere una doppia vita, sposandosi e facendo figli.
In questa sconfitta del deuteragonista, sta il senso di tutta una letteratura militante omosessuale, con il culto del coming out e la fuga a New York, dove, nella gay scene sembra scomparire un’intera popolazione. Sono quei ragazzi «la cui enigmatica scomparsa a New York è più incomprensibile di una morte per incidente stradale». E questo perché le famiglie ignorano l’omosessualità dei figli.
36 – Mary McCarthy, Il gruppo
Kay si sposa, Kay muore: tra queste due parentesi, un matrimonio e un funerale, si intrecciano le diverse esistenze di otto ragazze di buona famiglia, laureate al Vassar College di Poughkeepsie, nell’America del 1933.
New York, chiesa episcopale di Saint George: «il gruppo» è al completo per le nozze di Kay e Harald. Tra curiosità e delusione – la cerimonia è sciatta, frettolosa e non riscattata da un intento anticonformista – nessuna s’accorge d’assistere alla prima defezione dal gruppo, ma tutte s’ostinano a riproporre – magari aggiornata – la solita istantanea scolastica. La vita le ha già spaiate e cambiate: Dotty è alle prese con la perdita della verginità e con l’uso appropriato del pessario; Norme con un marito impotente e la teoria marxista; Libby con la carriera editoriale; Polly con un uomo già sposato, e così via. Come su un nastro magnetico, s’incidono il pettegolezzo e la confidenza, e l’arte suprema della chiacchiera che manipola i ricordi e moltiplica la memoria di ciascuna «ragazza del Vassar», fino a disegnare il puzzle di un’epoca di transizione, dove le buone maniere apprese a scuola e «i cari genitori» non sono più in grado di consigliare alcunché. Con occhio esemplarmente veridico e implacabile, l’autrice tira i fili delle storie, mostrandone alla fine il fallimento e l’eccentricità – per Kay il suicidio, per Priss la tragica imposizione all’allattamento, per la bellissima e gelida Lakey, «la Monna Lisa del fumoir», il suo insospettabile lesbismo. È il lato in ombra di un pianeta femminile, la parte oscura e spaventata di otto ragazze educate a recitare ruoli esemplari nella vita, e che resistono solo in forza della sapienza tribale appresa nel gruppo.
37 – Roland Barthes, Incidenti
Molto spesso i riserbi, le indecisioni, i gesti mancati, spiegano più dei fatti.
Questo libriccino postumo di Barthes, «briciole di romanzo senza supporti personali» è, nella prima parte, un’arcadica rievocazione della sua infanzia nelle campagne di Bayonne quando, orfano di padre, vive una fanciullezza serena e senza dolore: «In fondo non c’è altra terra che quella dell’infanzia».
La seconda parte è «una specie di caccia amorosa», piena di luce nel Nordafrica del 1968-1969, poi un funereo bollettino di sconfitte, la Parigi del 1979, annotato dentro le saune, i bar gay, i cinema porno. È da poco scomparsa la madre, che sarebbe inorridita di fronte a una dichiarazione d’omosessualità del figlio; Barthes abbozza un diario meno reticente anche se intriso di stanchezza e dal rigetto verso tutto ciò che è troppo «intimo» e privato. Nel suo vagabondare notturno nei bagni turchi, nelle dark-rooms, nonostante l’evidente desiderio, non osa fare proposte, si defila davanti alle avance. È un’altalena nevrotica di richiami e di ritrosie – la solita paura d’essere rifiutato – che gli fa rimasticare, rientrato a casa, l’inconcludenza di quelle sortite, la sua pavidità e l’incapacità a prezzolare il piacere: «Mi ha colto una specie di disperazione, avevo voglia di piangere. Vedevo nel modo più evidente che dovevo rinunciare ai ragazzi, perché non c’era desiderio da parte loro verso di me, e sono o troppo scrupoloso o troppo impacciato per imporre il mio».
38 – Tony Duvert, L’infanzia al maschile
Autore francese implacabilmente refrattario al milieu letterario e alla “promozione”, che ama farsi dimenticare nascondendosi in luoghi sperduti del Nordafrica, Duvert è scrittore dallo stile molto personale e riconoscibilissimo. Perché la sua ossessione sono i ragazzi, la sua inclinazione la pedofilia, il suo progetto sondare la galassia perversa e innocente dell’infanzia, registrandone le trasgressioni e le fantasie erotiche più smaccate.
Diario di un’innocente, Recidiva o Quando morì Jonathan sono le tappe di un itinerario che Duvert non si limita a romanzare ma ne tenta anche una sistematica riflessione, come ne L’infanzia al maschile (La Rosa, Torino 1982), dove, novello Carroll, dalla parte però dei ragazzini, analizza le rivendicazioni che il potere famigliare, medico, poliziesco esercitano sul bambino, e scaglia invettive tremende contro gli eterocrati, gli omosessuali «per bene», le madri e quell’esercito di donne «sorveglianti dell’infanzia» che succedono alle madri. E come alternativa a questo «sequestro legalizzato» del minore, mostra il palcoscenico ludico e sconfinato che gli offre l’adulto innamorato.
39 – Gore Vidal, Jim
Il primo titolo era The city and the pillar con riferimento alla moglie di Lot che, curiosa di vedere la fine di Sodoma, si volta indietro e diventa una colonna di sale. Titolo emblematico e tragico per il primo romanzo americano che esamina il mondo omosessuale nel tentativo di dimostrare la naturalezza di questo comportamento, a dispetto della morale corrente. E benché, nascosto nelle pieghe, il tema dominante di un secolo di letteratura americana (da Melville a Baldwin) fosse stato il sodalizio maschile, in una cornice naturale incontaminata e sempre insidiata dalla «intrusione» della donna, fu scandalo. Ma la breccia era aperta: nello stesso anno, il 1948, apparve il rapporto Kinsey che documentava statisticamente che un terzo dei maschi americani aveva avuto rapporti omosessuali e che andava definita «una nuova moralità sessuale». Merito anche di questo eroe comune, Jim Willard, per niente esotico, ma americanissimo giovane della piccola borghesia, che non è né arredatore né ballerino, ma gioca a tennis e desidera i ragazzi con lo stesso semplice appetito sessuale che suo fratello prova per le donne.
40 – Sibilla Aleramo, Lettere d’amore a Lina
È primavera, ed esattamente l’aprile 1908, quando Sibilla Aleramo conosce a Roma, al Congresso delle donne, una studentessa di nove anni più giovane di lei, Lina Poletti. È l’incontro con l’Altra, una relazione che dura poco più d’un anno, quasi quotidianamente scandita da una corrispondenza che diventa «lo specchio in cui due donne si vedono come una».
Nella vita già scandalosa di Sibilla Aleramo (in Una donna aveva raccontato la decisione d’abbandonare il tetto coniugale e il figlio per una scelta di autodeterminazione), l’amore lesbico viene a rappresentare la liberazione dall’uomo, dai ruoli, e anche da quello stile da «vergini misandre», caratteristico del gruppo delle «amazzoni» (Colette, Barney e Vivien), spesso indulgente verso una grottesca contraffazione del rapporto eterosessuale.
In queste lettere vince «il principio femminile»; le parole bruciano, sono un prolungamento sensoriale, dichiarano una «omoemozione» perché non è la personalità «maschia» ad attrarla, bensì l’identico, il femminile.
E così Sibilla Aleramo scrive a Lina: «Amica mia, tu non sei ancora te stessa e non fai nulla per divenirlo. È un’illusione quella che ti trae a virilizzarti. Tu sei donna […] E non hai mai raccolto la mia dichiarazione, hai continuato nei tuoi ingenui atteggiamenti di cavaliere […] E tuttavia, ti piaccia o no, resti una cara bionda dolce forma di fanciulla».