#400ISO: Iran 1970: lo sguardo di Gabriele Basilico

Una lettura per immagini di “Iran 1970” di Gabriele Basilico con testi di Luca Doninelli, Gabriele Basilico, Giovanna Calvenzi (Humboldt Books, 2015). Il volume verrà presentato dopodomani 18 giugno alle 18.30 al MUDEC – Museo delle Culture di Milano.

Il libro è un quadernetto blu persia in brossura, un’ottantina di pagine, quasi un taccuino. E del taccuino ha la consistenza e in parte anche il senso: appunti di viaggio in forma di fotografia. Iran 1970, da pochi giorni in libreria grazie alla cura delle raffinate edizioni milanesi Humboldt Books, racconta due viaggi di Gabriele Basilico: quello avventuroso a bordo di una Fiat 124 diretta a Kabul e quello di un fotografo prima di essere tale. Non tanto e non solo la formazione di un fotografo, ma il rischio e l’ebrezza di diventarlo virando la propria vita verso una direzione inedita che nel caso di Basilico sarà determinante per la storia della fotografia italiana. Quindi Basilico prima di Basilico, come scrive nel bel pezzo di apertura Luca Doninelli.

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Gabriele Basilico percorre la tratta che nel 1970 era tipica di una cultura e di un sentire giovanile, la direzione è l’India, il medioriente con il suo carico di mistero e di rivelazione. Il senso era allora quello di ritrovarsi in un tempo che precedesse l’attorno metropolitano, l’industrializzazione: uscire dalla contemporaneità per dare corpo alle proprie passioni.

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Un viaggio del desiderio in cui il dilettantismo benjamiano si fa strumento essenziale di scoperta e della sua stessa costruzione: elaborare una nuova visione necessita di strumenti inediti che ogni volta vengono misurati sul campo, nella pratica. Iran 1970 è un libro di metafotografia in cui ogni immagine racconta la formazione di un fotografo in costruzione, appigli di uno stile e di uno sguardo che è ancora tutto da rivelarsi, in primis per lo stesso Basilico. Le immagini in bianco e nero furono stampate in formato 24×30 e 30×40 con l’idea di farne poi un libro, come ricorda nella postfazione la moglie Giovanna Calvenzi, e raccontano il percorso da Dubrovnik fino all’Iran passando per la Turchia.

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L’approccio fotografico che inizialmente è intimo, in parte antropologico, si fa sempre più iconico ed essenziale con l’attraversamento dei paesaggi glabri e a tratti desertici della Cappadocia. I massi e le asperità montuose si confondono con le rovine millenarie: il tempo prende forma tra le sfumature del bianco e del nero non come un consumo, ma come una ricostruzione in atto. Un montare e rimontare continuo colto al volo dall’occhio di Basilico, che sembra citare il Kubrick di 2001 Odissea nello spazio di due anni prima. Se in Kubrick il monolite è il tramite dell’evoluzione, qui invece prende la forma di un oggetto icastico che all’evoluzione associa la trasformazione, il passaggio ad altro. Il lavoro di Gabriele Basilico si presenta così in tutta la sua potente fisicità non solo nei volumi, ma specificatamente nel respiro di una corporeità viva e inquieta che ridefinisce confini e paesaggi attraverso una comprensione di ciò che è luce e di ciò che è spazio.

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Le prime immagini dall’Iran colgono uomini seduti ai caffé: i loro visi sono schiacciati dal nero dell’ombra. Appaiono sorpresi e sorridenti, non abituati a farsi ritrarre, ma comunque all’interno di un dialogo che accomuna la loro sorpresa a quella dello stesso Basilico. Gli uomini stanno spesso di spalle, in alcuni casi non si sono voltati, in altri è come se l’avessero fatto solo all’ultimo momento, richiamati dalla curiosità in pose spontanee e imbarazzate. Una comunione li unisce così al fotografo che si fa tale nell’esatto momento in cui mette in pratica il proprio sguardo. Un occhio aperto sul mondo perché capace di vedere la propria stessa intimità senza giudizi, ma con la misurata compassione e curiosità necessarie per esplorare la bellezza e l’imprevisto.


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La postfazione di Giovanna Calvenzi – anch’essa fotografa – non è semplicemente l’apparato di un libro molto ben curato, ma la tasca interna di un taccuino: appunti scritti oggi che si aggiungono alle note di viaggio scritte allora da Gabriele Basilico. Passato quasi mezzo secolo, Giovanna Calvenzi fa il punto su un viaggio e su una storia, su ciò che si sperava trarne e su ciò che non si aspettava certo potesse accadere. Un’equilibrio affettuoso che affonda con discrezione nei ricordi e che – anche nel suo caso – ha nelle fotografie che ritraggono il marito il senso più preciso di un tempo irripetibile e avventuroso. Un tempo unico, ma universale e per questo replicabile per chiunque che abbia occhi e luce per arrischiarsi e per riconoscersi.

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