Pubblichiamo un estratto dalla nuova introduzione, a firma di Maria Grazia Giannichedda, del testo “Conferenze Brasiliane” di Franco Basaglia, riedito da poco da Raffaello Cortina Editore.
Il testo verrà discusso, assieme a gli “Scritti” di Basaglia, riediti da Il Saggiatore, in un incontro organizzato da Olinda Onlus, che si terrà oggi alle alle ore 19.00 all’Ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano, assieme a M.G. Giannichedda, Franco Rotelli e Alessia De Stefani, e Silvia Jop, in occasione della rassegna DA VICINO NESSUNO è NORMALE.
Questo contributo rientra nel progetto di approfondimento #Basaglia180X40 realizzato in occasione dei 40 anni della Legge180 e che proseguirà fino alla metà di giugno attraverso la pubblicazione di estratti, riflessioni e segnalazioni.
Il pensiero di Basaglia appare qui collocato in una luce giusta, che mette in evidenza un carattere essenziale della sua impresa: il legame stretto, diretto, tra l’elaborazione teorica, il lavoro nell’istituzione pubblica e la dimensione politica di questo lavoro. Questo legame oggi è meno evidente data la grande distanza dal tempo di Basaglia, e ciò può alimentare il rischio di leggere i suoi scritti come quelli di un intellettuale accademico, slegati dal lavoro istituzionale e dall’impegno politico; e può alimentare anche il rischio opposto di appiattire il suo pensiero sugli accadimenti di un tempo tanto lontano e diverso. Queste conferenze, invece, aiutano il lettore di oggi a vedere come il pensiero di Basaglia si sia nutrito del suo impegno per trasformare l’istituzione pubblica in cui lavorava (“trasformando il campo istituzionale in cui lavoro io cambio la società”) e come i passaggi di quella trasformazione, che consentivano via via di immaginare e sperimentare i passaggi successivi, abbiano anche rivelato questioni di fondo, che Basaglia non cessava di evidenziare e che restano in gran parte attuali, sebbene siano molto cambiate sia la psichiatria sia la società.
Questo effetto di attualità si deve in parte al fatto che Basaglia parla da un passato nel quale i segni del cambiamento oggi compiuto erano già visibili, da una fase già “postmanicomiale” potremmo dire, che aveva preso avvio negli anni Sessanta negli Stati Uniti e prima ancora nel Regno Unito e in Francia, con le esperienze della comunità terapeutica e della psicoterapia istituzionale, seguite da riforme della legislazione e dei servizi. Basaglia è legato a quelle esperienze: nei primi anni del lavoro a Gorizia erano state motivo di ispirazione e riflessione, dice esplicitamente nella prima conferenza di Rio, concludendo però che in entrambi i casi “la psichiatria [aveva] così coperto le contraddizioni che [aveva] evidenziato”, costruendo ideologie scientifiche diverse che, come in tutta la storia della psichiatria, “hanno prodotto solo nuove forme di controllo sociale” senza eliminare il manicomio o la violenza verso la persona malata. Per evitare di seguire quella traiettoria e di far regredire la nostra lotta a livello di “nuova ideologia scientifica” – continuava Basaglia – “a Trieste [abbiamo lavorato] per eliminare il manicomio”.
Infatti, “se abbiamo la possibilità di internare un paziente finiremo con l’internarne molti. Noi dobbiamo trovare il sistema perchè questo non accada e questo sistema si trova coinvolgendo nel problema il maggior numero possibile di persone”, attraverso la creazione di servizi comunitari di tipo nuovo, di un nuovo modo di lavorare. Basaglia cita diverse volte anche il caso degli Stati Uniti, che gli serve per evidenziare un fenomeno che all’epoca si cominciava a vedere anche in Italia e in Europa: la riduzione dei letti psichiatrici pubblici perseguita dalla politica liberista dei tagli alla spesa pubblica e avviata per primo da Ronald Reagan in California negli anni Sessanta. Quella politica aveva portato alla chiusura dei manicomi più grandi e all’abbandono dei malati alla strada, al controllo sociale della miseria, dice Basaglia, mentre rivendica alla riforma italiana la scelta di volere la chiusura dei manicomi in nome dei diritti di cittadinanza e dell’offerta di “un’alternativa di cura”, che sola potrebbe portare davvero al superamento dei manicomi come distruzione dei meccanismi dell’istituzione.
Basaglia chiarisce più volte la differenza tra chiudere gli istituti ed eliminare i dispositivi di internamento, cioè quelle forme di limitazione della libertà che sono motivate non da reati e condanne ma dalla protezione della persona e della società, la “cura e custodia”, in altre parole, come dicevano la vecchia legge italiana e la gran parte delle legislazioni. I meccanismi dell’internamento possono restare in funzione anche quando l’ospedale psichiatrico si è rimpicciolito oppure è uscito di scena – insiste Basaglia – e per mettere in evidenza i processi che li alimentano porta il discorso sull’origine del manicomio e sulle strutture della vita sociale che ne riproducono la domanda. “E’ come nella divisione dell’atomo, si scatenano reazioni, contraddizioni a catena”, quando si cerca di rimettere un malato in una situazione che si era riorganizzata senza di lui ed è dunque necessario, per evitare il riproporsi della domanda di internamento, che i tecnici nuovi siano là, ad assumersi la responsabilità delle proprie azioni, a creare servizi, iniziative e culture nuove “per aiutare la comunità a capire ciò che voleva dire la presenza di una persona folle nella società”. Ma la trasformazione della psichiatria non è sufficiente: Basaglia insiste sulla necessità di estendere la critica alla medicina clinica che “era nata come cosa morta nelle sale di anatomia”, sul corpo morto, e ha espulso totalmente dal corpo malato “la vita dell’uomo e la sua organizzazione sociale”; dice duramente, in una conferenza che si svolge a Rio nell’ospedale universitario, che “senza una sorta di ‘supervisione politica’ della sua azione, il medico eserciterà l’arbitrio più di quanto immagini”; ripete che occorre rivedere alla radice ciò che sono diventati l’ospedale, l’organizzazione sanitaria nel suo complesso e la formazione dei medici.
Le riflessioni su questi temi, che sono gli stessi su cui Basaglia scriveva in quell’anno che sarebbe diventato, quasi all’improvviso, l’ultimo della sua vita, testimoniano di un bisogno di guardare le cose un po’ da lontano, in prospettiva, come per fare un bilancio, in una fase molto ricca ma anche molto complicata per la riforma, per la società italiana e per lui stesso.