Il paradigma Balotelli

L’italiano nero, i media e una problematica idea di nazione

Fin dall’inizio della sua carriera Mario Balotelli è stato costretto ad essere altro. Il primo campione nero italiano nello sport più popolare, il figlio di immigrati africani cresciuto con una famiglia adottiva italiana bianca, non poteva essere interpretato solo in quanto calciatore. Probabilmente la sua carriera ne ha risentito, e segnata da controversie e casi mediatici lo ha ora condotto, al compimento dei 30 anni, a giocare in Serie B, la seconda serie del calcio professionistico italiano. Tuttavia, quella è un’analisi che lasciamo ad un’altra occasione. L’oggetto di questo articolo è un momento particolare nella storia di Balotelli, i mondiali del 2014 e le implicazioni di quell’evento per il discorso pubblico su immigrazione, razza e nazione. Le note che seguono sono parte di un lavoro di ricerca che ha avuto un primo approdo nel libro The Balotelli Generation (2016) e che continua in altre forme e nuove direzioni. Il mio interesse per il ruolo dello sport nell’immaginario popolare, e l’impatto dell’atleta di origine immigrata, e particolarmente il calciatore nero, in questo immaginario, è stato ispirato dal compianto Mauro Valeri, che proprio a Balotelli aveva rivolto una suggestiva riflessione meta-sportiva (Vincitore nel pallone, 2014). Questo articolo è dedicato a lui.

Il paradigma Balotelli

Formazione di un mito

Lo spettacolo sportivo, i grandi eventi mediatici legati allo sport, funziona da lente di ingrandimento per fenomeni sociali che attraversano la società. Le Olimpiadi, i mondiali di calcio e altri mega-eventi sportivi, sono un palco sul quale vengono rappresentate, amplificate, le emozioni, le illusioni, i rimossi, di una collettività immaginificamente definita “nazione”. In questo contesto, il modo in cui i mass media hanno trattato l’eliminazione della nazionale dai mondiali di calcio del 2014, ci offre l’opportunità per cogliere da vicino lo sguardo che l’Italia ha di se stessa e delle dinamiche sociali ed economiche che ne hanno sensibilmente modificato i tratti negli ultimi trent’anni. Mario Balotelli è al centro di questa narrazione.

Vi sono due momenti significativi nella carriera di Balotelli con la nazionale italiana. Nel 2012, Balotelli aiutò con i suoi gol la nazionale a raggiungere la finale dell’Europeo. In quell’occasione i media lo rappresentarono come un simbolo dei “nuovi italiani”, la cosiddetta Generazione Balotelli. Il suo successo sportivo veniva sovrapposto nella rappresentazione mediatica all’orgoglio di un Paese che si voleva finalmente pensare multiculturale, un paese maturo. Tuttavia, la narrazione pubblica cambia radicalmente appena due anni dopo. Da simbolo dei nuovi italiani, Balotelli diventa qualcuno che non merita di essere italiano.

Il giorno successivo all’eliminazione dell’Italia dai mondiali, la stampa italiana articola un nitido esempio di razzializzazione. Per razzializzazione si intende il processo attraverso il quale delle persone vengono accumunate in base a categorie stabilite da altri, per tenerle in una posizione subordinata. In molte società subiscono razzializzazione le persone con il colore di pelle più scuro, i neri o gli arabi, ma anche i Rom, i Travellers in Irlanda, o semplicemente gli immigrati in quanto immigrati.

Per la stampa italiana, l’unico nero della squadra azzurra diventa il simbolo della sconfitta. In quel mercoledì di fine giugno, tutti i principali quotidiani nazionali scelgono una fotografia di Balotelli per raccontare la storia. L’immagine è un condensato di significati, e accompagnata da titoli e sottotitoli crea una narrazione esplicita. A farci riflettere non è solo il fatto che il calciatore nero sia scelto a rappresentare il “disastro azzurro” (La Repubblica), il “fallimento” (La Gazzetta dello sport), il “caso nazionale” (Corriere della sera). Ancora di più, è la scelta di quasi tutti i quotidiani di usare la stessa immagine, o meglio la stessa scena ripresa da diverse angolature, in diversi successivi istanti. Alcuni quotidiani nazionali pubblicano questa immagine in copertina, gli altri negli articoli interni di approfondimento.

La scena vede Balotelli disteso a terra, con le mani a coprire il viso. Il Giornale la associa al titolo “Il fallimento dell’Italia”. A pagina 26 un’altra immagine del calciatore afro-italiano con un titolo emblematico: “Il tradimento di Balotelli”. La stessa immagine, ma da un’angolatura più ristretta, è utilizzata da l’Unità, che esplicita l’identificazione tra il destino della nazionale di calcio e quello della nazione (“Fuori dal mondo”). Il Corriere dello sport sceglie un’angolatura più distante, così che il corpo del calciatore nero in maglia azzurra è una figura isolata in un campo verde. La fotografia copre l’intera prima pagina (il titolo, a caratteri cubitali, è “Azzerati”). La Repubblica inserisce un altro attore nella scena, e l’inserimento è anch’esso significativo. Il solito Balotelli è ora seduto sul campo, la testa piegata in basso esprime scoramento. In primo piano appare di schiena l’allenatore della nazionale, Cesare Prandelli. E’ posto di fronte al calciatore nero seduto in terra, tiene le mani sui fianchi e lo osserva come farebbe un padre (o un padrone?) preoccupato. Il titolo è diretto: “Disastro azzurro”. Anche qui, la sconfitta è visivamente associata ad un solo giocatore, sempre lui: Mario Balotelli.

Il paradigma Balotelli
Prima pagina di L’Unità del 25 giugno 2014

Cosa significa?

Nel suo seminale Miti d’oggi, uscito in Francia nel 1957, Roland Barthes commenta una copertina della popolare rivista Paris Match dei primi anni Cinquanta. Si vede un soldato nero in divisa francese che saluta la bandiera tricolore. Per Barthes, immagini come questa contribuirono alla costruzione di un mito specifico: quello della Francia quale stato coloniale che include tutti a prescindere dalla loro origine etnica o razziale. Il caso dell’Italia nel giugno 2014 è diverso: si tratta non di una sola copertina, ma di una serie di immagini aventi un unico soggetto protagonista, pubblicate allo stesso tempo da diverse fonti, e che con l’aiuto di titoli e sottotitoli sviluppano una narrazione univoca.

Osservando la copertina di Paris Match, Barthes si era chiesto: Cosa ci dice questa immagine? Nel caso di Balotelli e della stampa italiana la domanda dovrebbe essere: Che tipo di discorso esprimono i giornali italiani? L’analisi di un discorso prende in considerazione il contesto in cui avviene la comunicazione, in quale tipo di società, in quale particolare momento storico, attraverso quale mezzo. Secondo Stuart Hall il significato di un evento prende corpo attraverso la sua rappresentazione. In altre parole, l’evento non ha un significato al di fuori del processo di rappresentazione. Non importa se in campo altri calciatori italiani hanno giocato peggio di Balotelli, e se perfino uno si è fatto espellere. La rappresentazione seleziona, articola, e dice altro: in questo caso sceglie un capro espiatorio. L’osservatore/spettatore non è un soggetto passivo in questo processo, ma al contrario contribuisce alla produzione del significato attraverso l’utilizzo di mappe concettuali condivise, e una lingua comune.

Le immagini di Balotelli (sempre la stessa scena, da diverse angolature) diranno qualcosa di diverso a una persona cresciuta in Italia, rispetto a qualcuno non cresciuto in questo Paese, in questa società. L’italiano “medio” legge questa serie di immagini e titoli quale prova che l’uomo nero, e solo lui, rappresenta la sconfitta. Questo avviene perché, per cogliere il senso delle cose, usiamo il principio di similarità e differenza. L’uomo nelle foto appare, al principio del ventunesimo secolo, “diverso” dalla maggioranza della popolazione. Il lettore interpreta l’italiano nero, il figlio di immigrati, come un outsider. Qualcuno che non è di casa qui. L’anima della nazione, così come immaginata dai mass media, è salva.

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Prima pagina di Il Corriere dello Sport del 25 giugno 2014

In nome della pelle

Nel discorso pubblico dominante, articolato attraverso i mass media, la pubblicità, la televisione, e nella comunicazione social della politica e delle celebrità, la nerezza, il colore scuro della pelle, incarna l’immigrazione e la diversità. Questo è anche prova di quanto il passato coloniale italiano abbia penetrato la cultura popolare, e a 80 anni dalla fine di quell’epoca sia ancora un elemento attivo di razzializzazione. Viene a questo proposito in mente lo straordinario racconto sociale che emerge dalle pagine di La pelle giusta, la ricerca sull’infanzia coordinata da Paola Tabet negli anni Novanta. Per comprendere il radicamento del pensiero razzista tra i bambini, in una società che stava crescendo diversa e più ricca, i ricercatori presentarono loro dei quesiti mirati. Alla domanda “Cosa farei se i miei genitori fossero neri” un bambino rispose: “Io proverei a dipingerli con un colore chiaro come il rosa e almeno diventerebbero di pelle italiana”.

Un salto di vent’anni in avanti, ed ecco la pelle più che mai al centro del dialogo sportivo. Dalla messe di esempi a disposizione è difficile contestare che il mondo del calcio non sia un immondezzaio razzista a cielo aperto. Per esempio, nel 2019, il presidente della Lazio Claudio Lotito per sminuire gli abusi razzisti ricorse ai ricordi della sua infanzia: “Quando ero piccolo, spesso si faceva buu anche a giocatori non di colore, con la pelle normale, bianca, per scoraggiarli a non segnare”. La pelle normale, la pelle bianca. Dello stesso anno è l’uscita di Massimo Cellino, presidente del Brescia, per il quale giocava proprio Balotelli. In seguito ad una serie di insulti razzisti rivolti al calciatore, il Cellino ebbe a dire: “Balotelli è nero e sta lavorando per schiarirsi”. La pelle da schiarire, la pelle nera. E’ lo “sbiancamento” di cui parlano Gaia Giuliani e Cristina Lombardi-Diop nel loro prezioso Bianco e Nero. Storia dell’identità razziale degli italiani (2014): il passaggio centrale nella costruzione dell’identità razziale degli italiani, durante e dopo il Fascismo.

Il paradigma Balotelli
La prima pagina di La Repubblica del 25 giugno 2014

Cittadino a tempo

Alla fine è sempre un problema di pelle, di tonalità di pelle. Eppure il razzismo non ha nulla di epidermico, è anzi un problema profondo, strutturale, inchiavardato nella storia Europea assieme al colonialismo e al capitalismo, anelli concentrici dello stesso sistema ideologico. Certo, in ogni società o momento storico c’è qualcuno che ha sentimenti migliori di altri, o idee più “aperte”. Ma il razzismo dipende da posizioni di potere storicizzate, chi decide cosa e in nome di chi, e prescinde dalle inclinazioni individuali. Il modo in cui la stampa italiana ha trattato l’uscita dell’Italia dai Mondiali del 2014, ponendo al centro di una particolare narrazione Mario Balotelli, è solo uno dei tratti più visibili del discorso razzista italiano, che è trasversale, a tratti impalpabile perché normalizzato.

Quando si discute di Balotelli, tuttavia, c’è sempre quello che cerca di sottilizzare: “E però lui…”. In un ribaltamento del problema, la vittima razzializzata e umiliata diventa il portatore di colpa. E il tema, come intuibile o prevedibile, non si esaurisce con Balotelli. Mentre la sua carriera calcistica seguiva una parabola declinante, i mezzi di informazione hanno trovato in Moise Kean un nuovo calciatore nero italiano attorno cui riprodurre una narrazione basata sulla razzializzazione.

“Se vinco sono un Americano, non un nero Americano. Ma se faccio qualcosa di sbagliato diranno un ‘negro’”. Così commentò Tommie Smith il famoso gesto di protesta alle Olimpiadi del 1968 che lo vide protagonista assieme a John Carlos (e al silente ma nondimeno iconico Peter Norman). La storia di Balotelli ci dice che, al fondo, poco è cambiato in questi cinquant’anni. Il passo da cittadino a negro è ancora breve, brevissimo.

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