Avere un posto nel mondo

Il seguente contributo è tratto dal volume di prossima pubblicazione “Aree interne, sperimentare per ri/abitare”, con sperimentazioni progettuali nei comuni molisani di Riccia, Jelsi e Gambatesa, a cura di Nicola Flora e Francesca Iarruso. La pubblicazione è divisa in tre parti: saggi, sperimentare col progetto, sperimentazioni e prospettive nell’Alto Fortore: Riccia, Jelsi, Gambatesa. Il contributo che segue, firmato da Sandro Abruzzese, fa parte della prima sezione del libro.

Foto di Sandro Abruzzese

Abitare e vedere

Abitare è una parola nobile, porta a quel misto di avere e tenere che rimanda al possesso, ma anche a qualcosa che ci sta a cuore e di cui abbiamo cura. Ci sono aspetti complessi e ambivalenti nell’abitare, riguardano la relazione tra spazi privati e pubblici, tra ambiente, società, individui: non si abita mai del tutto soli.

Abitare presuppone il vedere. Vedere per capire significa, secondo la lezione di Carlo Levi, avere senza possedere, rinunciare ad appropriarsi, lasciare intatto e alla portata di altri sguardi. Vedere un paesaggio, però, è qualcosa di diverso dal vedere una piazza o visitare una città. Quando guardo la natura vedo qualcosa che non presuppone per forza un soggetto. Una città, al contrario, è un artificio costruito spesso a partire dal soggetto, in cui la conquista della visibilità spinge il potere (religioso, politico, economico) ad appropriarsi dello spazio, trasformandolo in segno, effigie, simbolo, in grado di rappresentare, e gettare così le basi dell’immaginario collettivo.

Vedere allora diventa necessario proprio per interrogare e decifrare, a questo punto si tratta di non farsi irretire e alienare, di riconoscere la realtà nei suoi tratti salienti.

Vedere, ha scritto Merleau-Ponty, è apertura al mondo.

Paesaggio

La mia apertura al mondo è legata a un luogo, poco lontano dalla casa in cui sono cresciuto, che, aperto com’è sullItalia interna, offre un paesaggio davvero unico. Non riuscivo ancora a definire, da ragazzo, alla vista di quel paesaggio, l’ammirato stupore e la curiosità che eliminano il disagio, né riuscivo a dare un nome al desiderio di riconoscere. Eppure dall’altura dei Limiti, a Frigento, abbracciavo la valle riuscendo a superare il mio consueto orizzonte. Bastava raggiungere le vette di Trevico o Frigento, per vedere le terre di Lucania, il Vulture, o i paesi più alti del Fortore e della Puglia dauna. Sull’altura dei Limiti, dopo i monti del Matese, il Taburno, rare volte, faceva capolino la vetta arrotondata della Maiella. Verso il tirreno invece, era uno scherzo inseguire con la mente il Sele, la discesa delle sue acque fino alle ruvide pendici dei dolomitici Alburni, o immaginare i detriti dell’Ofanto spingersi fin nell’Adriatico. Ma la sfida vera riguardava Greci, lunico paese arbrëschë della Campania, oppure la sella in cui è riparato Savignano, con le sue casette bianche ben proporzionate, affacciate sul principio della strada per la valle del Bovino.

A oriente, la sfida era scorgere Monteleone dai portali scolpiti, il paese più alto della Puglia, e ai suoi piedi Zungoli bianca e pendente, appesa a una parete ripida, sopra una forra. Spuntavano qua e là piccole zone industriali, intersecate dall’autostrada dei mari, dritta come la sutura di una cicatrice mai rimarginata.

L’autostrada corre ancora lungo il margine agricolo, dove il giallo delle monocolture del grano pugliese, quasi sull’Ufita, incontra il verde della policoltura mediterranea o i castagneti, gli ulivi, i vitigni e i boschi delle montagne.

Foto di Sandro Abruzzese

In seguito, spesso mi sono chiesto cosa nascondesse questo inseguire luoghi di un mondo minore. Credo sia nel rapporto con lo spazio, la risposta. Il mondo di cui scrivo non è altro che un unico luogo in cui le persone e le cose, le parole e i gesti, si muovono come qualcosa che è già dentro di me e che ri-conosco.

Guardare il mondo con gli occhi del paese, dai margini, farlo partendo da uno Stato fondato su un gravissimo e annoso squilibrio territoriale come l’Italia, in un momento storico in cui l’imporsi di un nuovo spazio, quello virtuale, in grado di abolire le distanze, ha messo in crisi le grandi conquiste del ‘900, è diventato un modo di stare al mondo e abitare.

Vicinanza e lontananza

Non capisce, scrisse Mario Soldati in America primo amore, forse, non ama il proprio paese chi non l’ha abbandonato almeno una volta, e credendo fosse per sempre.

Penso spesso a questa frase di Soldati. Egli capì, nel viaggio americano, che abitare significa essere con i luoghi in rapporto di vicinanza e lontananza. Saperli vedere, secondo una linea che da Sestov e Simmel arriva fino ad Adorno e Bauman, è poi comprendere gli esiliati, gli emarginati, lo straniero, l’estraneità, la diversità, e farlo per essere successivamente in grado di costruire una patria nel rispetto del genere umano, in cui sicurezza e comunità non siano cortine di ferro né limiti invalicabili.

È necessario per questo non solo conoscere il proprio territorio, l’ambiente, ma esserne al contempo distanti. Salvaguardare il peculiare non può darsi senza verità e giustizia, il rischio sotteso nel perdere di vista l’universale è il familismo, anticamera del baronaggio. È continuare a smarrirsi ripetendo la storia, il cui ritorno vuol dire assenza di reale progresso.

Un mondo servile e amorale si rifiuta di vedere, ha gli occhi chiusi. Per cui, essere vicino e lontano vuol dire svelare i rapporti di dominio, scorgere nei luoghi, al di là dell’utile e dell’economico, l’umano e il sacro. Occorre per questo sentirsi parte del Tutto, di un tutto plasmato senza annichilire né schiacciare, poiché lo spazio è, per dirla con Kant, possibilità di essere insieme. Occorrono una cornice e dei confini, per definire i limiti dei luoghi, ma solo se si ricorderà che i confini sono sempre arbitrari e nulla valgono senza la vita affettiva e la consonanza psichica di chi li abita. Lo spazio psichico precede e forma quello geografico.

Nondimeno, adesso che lo spazio virtuale, sebbene non privo di ambivalenze, consente nuove strade, attraverso vicinanza e lontananza le aree marginali possono affrancarsi dalla trappola del conservatorismo per sommare il senso di libertà al progresso, non dimenticando l’energia vitale senza cui il futuro ha i giorni contati: i figli, ha scritto Hans Jonas, sono l’unico esempio altruistico della natura.

Foto di Sandro Abruzzese

Prospettive

Per quanto mi riguarda, sono un figlio emigrato, che non è più tornato, e pure che non smette di tornare, non rinuncia a pensare all’Appennino e al Meridione come parte integrante e vitale di sé e di questo Paese. E se, come ha scritto ne L’abusivo Antonio Franchini, chi da un luogo se ne è andato non ha diritto di parlare se non del luogo che lasciò, il Sud in cui sono cresciuto sembrava, rispetto alla pienezza della metropoli napoletana che avrei scoperto alluniversità, espressione di una cultura minoritaria, una patria minore, cristallizzata, come di popoli superstiti o sconfitti, in cui tutto, a partire dalla lingua, attraverso l’isolamento e la distanza, si era conservato più vicino al passato.

Ebbene, quando questa condizione viene percepita come involuzione o disvalore, e quei luoghi stessi, attraverso un’approssimativa rappresentazione mediatica, vengono banalizzati e deformati, non può che emergerne un rapporto asimmetrico col resto del Paese. Come colonie di abitanti, direbbe Gianni Celati, delle riserve.

Nel rapporto con la costa campana, per esempio, con questa conurbazione che vede il casertano unirsi attraverso una miriade di cittadine al salernitano, formando un’unica, gigantesca periferia di pochi centri privilegiati, lAppennino è più debole, disarmato e attenuato, privato di reciprocità prospettica.

Un po’ come dei nuovi albigesi, come dei berberi, da ragazzi abitavamo luoghi ancora privi di velocità e quantità, privi di frenesia; dalle impercettibili diseguaglianze sociali. Chiunque, in paese, era equidistante dal centro come nella più perfetta polis greca. E il paese intero risultava percorribile, esplorabile, in parte manipolabile, in un rapporto di esperienza in cui lo spazio circostante, la possibilità insita nello spazio, era la cifra fondante della nostra formazione. Vi erano meno povertà e indigenza, nessun contrasto sociale, meno stimoli e competizione, poche possibilità, annacquati strumenti di potere e nessuna parvenza di organizzazione criminale. Forse è questo a far sì che Meneghello si chieda, in Libera nos a Malo, Perché questo paese mi pare certe volte più vero di ogni altra parte del mondo che conosco?

In comune con le città avevamo però il disprezzo atavico per la campagna e i contadini. Quel mondo laborioso e autonomo, non veniva migliorato, bensì continuamente esecrato. E forse se ancora oggi le campagne non sono ambite, in qualche misura ciò è dovuto anche al disprezzo oppressivo e all’assenza di lealtà, all’incapacità di vedere le possibilità insite in un diverso universo morale, permeato com’era dalla vocazione al lavoro e da un alto grado di autodeterminazione.

Memoria

L’Irpinia, va detto, ha fatto parte di quella civiltà contadina in grado di esprimere una straordinaria omogeneità di valori in tutta Europa, prima di essere, in preda all’emigrazione, ai terremoti, al boom economico del Nord, definitivamente soppiantata. L’episodio che sancisce simbolicamente il tracollo porta la data del 23 novembre 1980. Quei devastanti novanta secondi, con i suoi tremila morti insabbiati, lasciati a morire sotto le macerie di un Paese privo di Protezione civile, mentre il presidente della Repubblica Pertini inveiva contro l’assenza e poi la lentezza dei soccorsi, avrebbe segnato, per molti, un punto di non ritorno. Non solo le forze materiali, ma anche quelle psicologiche furono inquinate irrimediabilmente dalla conseguente pioggia di denaro pubblico sul territorio. La maggior parte delle risorse, è noto, venne distratta dalle rapaci classi dirigenti attraverso il settore edilizio e infrastrutturale a favore di corruzione e criminalità.

Sicché nel dopo-sisma, insieme al mio corpo bambino, un po’ dappertutto crescevano enormi caseggiati o villette geometrili bianche, con archi, veneziane, torrette merlate, cuspidi. I vecchi casolari furono abbandonati e affiancati da moderni edifici cittadini, i paesi distrutti vennero ricostruiti senza alcuna cura per la memoria e le antiche relazioni degli abitanti con i luoghi.

La descrizione potrebbe indurre a pensare solo ai paesi appenninici fatti di desolazione e spopolamento. E invece la politica urbanistica post-sisma generava anche paesi che attualmente hanno raddoppiato la propria popolazione: Grottaminarda, Lioni, Ariano Irpino, Atripalda, Solofra. Ai paesi desolati e inattuali ora fanno eco i paesi-città, sformati, bulimici, ingrossati fino a incarnare il simulacro delle città osservate alla televisione.

È la nostra attuale compresenza dei tempi.

Il cemento e il ferro, oltre alle case, finirono per armare un invincibile sistema di potere politico-clientelare. Questo potere impose la sua facile utopia. Ma le utopie hanno sempre un prezzo alto, e di rado la lungimiranza necessaria. In questo caso si barattò la necessità col diritto, la cittadinanza con la sudditanza. Il rimedio preparava mali peggiori e tante volte, guardando al passato, mi illudo che senza di lui sarebbe stato diverso. Preferisco puerilmente dare la colpa al terremoto e dire che saremmo stati migliori, che fu il terremoto a depositare come una polvere sottile dappertutto e in ognuno: tra le case, su per ogni singola narice. E così il mondo successivo alla scossa inoculò il germe da cui è scaturita una sorta di allergia collettiva per ogni sorta di responsabilità e per qualsiasi bene comune. 

Rispetto all’Irpinia contadina e artigiana, che sapeva produrre e costruire, questo continuo dissipare ha avuto il sapore di una mutazione genetica.

D’altra parte la stessa Italia odierna, dall’Aquila a Amatrice e Genova, sembra aver rinunciato definitivamente al suo corpo. Pare aver dimenticato che un Paese democratico si fonda su un corpo simmetrico, fatto di una miriade di centri e quasi nessun margine. Un Paese, per essere giusto, deve essere dappertutto.

Diritti

Certo, non solo l’Italia ma il mondo intero sembra avere la testa da qualche altra parte rispetto al suo corpo. Eppure abitare fa pensare inevitabilmente alla parola patria, a questo spazio di condivisione, comune e politico, in cui albergano il dono e il dovere. Hannah Arendt ha ricordato che la più grande privazione dei diritti umani è avvenuta ai danni di una popolazioni privata di un posto nel mondo: gli ebrei.

A distanza di centocinquanta anni dall’Unità, forse per rispondere alle emergenze globali e alle esigenze dei popoli, occorrerebbe ricordare che anche le popolazioni appenniniche, insulari, alpine hanno vissuto, – schiacciate da due guerre mondiali decise sulla base di veri e propri Colpi di stato -, una perpetua e inaccettabile diaspora. I contadini derubati, spremuti, di Sardegna e Calabria, per esempio. I contadini ubriacati prima di assaltare altri contadini in trincee nemiche. Oppure accusati di vigliaccheria e diserzione per occultare le responsabilità degli Alti comandi. La gente di Lussu e Gramsci, di Levi, Scotellaro, di Cavani, Alvaro, di Jovine, Silone, scompare dalle antologie e dalla memoria collettiva.

La mia patria, scrisse Scotellaro, è dove l’erba trema / un alito può trapiantare / il mio seme lontano.

Foto di Sandro Abruzzese

La provincia

Rispetto a quanto detto, una risposta potremmo costruirla proprio nell’altrove di cui abbiamo parlato finora. In anni recenti è toccato ad Alexander Langer ricordare che se l’inurbamento pone il problema ecologico, della diseguaglianza, dei costi della vita, della mobilità, dell’alienazione e della violenza, è la provincia il luogo dove la vita è sostenibile e al riparo dal potere; dove si può opporre alla competizione urbana, la cooperazione e la solidarietà.

In provincia, certo in una provincia votata al dubbio, al sospetto, aiutata e migliorata nellopposizione agli aspetti più deleteri della metropoli, – vien fatto di pensare con Bataille, – si potrebbe essere individui e comunità sovranamente.

I luoghi rurali a questo proposito conservano tracce di quell’antica forma di pietas che viene dalla capacità di ridurre tutto allUno, fatta di necessità e semplicità, di consapevolezza, a volte tragica, del destino comune. Ecco che la vicinanza al mondo rurale può aiutare a guardare i nuovi ultimi moderni con la consapevolezza innata della comune miseria umana, poiché c’è nell’infinitamente piccolo dei luoghi marginali qualcosa che rimanda davvero all’universo e al cosmo: vedere le comunità, la lingua, i gesti svanire, assistere alla perdita di senso e significato dei valori di un mondo precedente, anche questo è il potenziale istruttivo delle aree marginali.

D’altra parte, se la subalternità ricaccia gli stessi luoghi in sacche di tribalismo, in cui lo smarrimento, la rabbia, la delusione, sfociano nell’intolleranza, divenendo strumentali alla xenofobia e ai neo-fascismi; è la tradizione stessa ad avere un ruolo principale. Posto che sia all’altezza di essere conservata e rinnovata nei suoi valori positivi e duraturi, la tradizione può, secondo De Martino, aiutare la comunità a farsi cosciente, razionalizzata, organizzata e plasmata, fino a diventare una vera società. Beninteso, la cittadinanza e la capacità di operare necessitano di luoghi che si hanno a cuore, di continuità generazionale e relazioni umane.

Mi rendo conto che quanto detto ricorda un nuovo protestantesimo, magari capace di riscoprire la serietà e la mitezza, la responsabilità e la maturità. Ma forse è proprio nella dimensione ideale, tante volte sacrificata a criteri pragmatici ed economici, in un rapporto di tipo eretico, passionale e razionale, che diventa possibile offrire ai luoghi più indifesi alternative alla competizione e al mercato. E diventa possibile una riflessione sulla dignità di qualsiasi lavoro, di quello agricolo e materiale, rispettabili in quanto matrice da cui tutto comincia, nobili non già per la gloria o la potenza generata, ma perché nelle giuste condizioni non sfruttano nessun altro.

Credo che la semplice quanto chimerica assenza di sfruttamento sia già riportare la propria parte di mondo nella sfera morale, per sottrarsi al male di questo globo sempre più grande e terribile.

Si tratta ancora una volta di opporre, ha scritto una volta Fortini, la parola alla chiacchiera. E all’edonismo, sempre infantile, preferire una battaglia culturale che investa la concezione futura del tempo del lavoro e dello spazio concreto, nonché di quello dell’immaginario e dell’immaginazione. Ripartire magari dalla cura dell’intimità, della sfera privata, perché è da un mondo interiore decolonizzato, dalla solitudine che non è isolamento, ma riflessione per l’altro e con gli altri, che può nascere, anche e soprattutto in luoghi cosiddetti marginali, un nuovo senso del mondo.

La provincia, dunque, potrebbe essere il luogo dove un sapere liberato dal narcisismo, si dedichi alla salvaguardia e tutela dell’esistente, magari attraverso la modestia di piccoli passi certi, liberi e partecipati.

Print Friendly, PDF & Email
Close