La Storia, le storie: l’Atlante sentimentale del cinema per il XXI secolo

Pubblichiamo alcuni estratti dall’“Atlante sentimentale del cinema per il XXI secolo” (Derive Approdi, 2013) di Alberto Momo e Donatello Fumarola, una raccolta di conversazioni con i maggiori cineasti contemporanei.

Parole e utopie

Il cinema è ancora un paese sconosciuto. Può darsi che sia un continente sommerso, o che lo sarà presto. Alcuni lo vorrebbero in cielo, esiliato in un mondo di fantasia. Per altri coincide con questo mondo, anzi, ne è uno dei creatori – o dei dissolutori – dipende dai punti di vista. Forse noi non l’abbiamo mai capito, e per questo l’abbiamo iniziato a cercare.

Siamo sicuri che nel paese del cinema ci siano delle zolle ancora in movimento. Dei punti di frizione, delle piccole voragini, dei crateri di vulcano non spenti, dove ribolle ancora qualcosa di incandescente. E che ci siano ancora delle porte, aperte su altri spazi, se non su altre dimensioni. E che ci siano delle terre ancora da scoprire. Anche solo perché c’è chi il cinema ancora lo pensa. E perché è difficile anche solo pensare il mondo, senza il cinema.

Questo atlante è costruito alla maniera degli antichi, come una cronaca di viaggio. Un viaggio dove avvengono degli incontri, dei quali si riporta la cronaca. Questi incontri sono avvenuti in bar e in stanze d’hotel, in cortili e giardini, o in piccoli improbabili spazi ricavati in corridoi o in sale di proiezione. Qualcuno ci ha aperto la porta di casa. Altri invece hanno preferito non riceverci.

Abbiamo viaggiato da Torino a Roma, da Rotterdam a Parigi, dall’isola di Procida fino alle colline di Hollywood. Spesso si è trattato di viaggi immobili, come quelli che permettono i festival di cinema, dove per scoprire nuovi paesi puoi spostarti di sala come rimanere seduto sulla stessa poltrona, rivolgere la parola a chi è seduto di fianco a te, e non capire la sua lingua. I festival sono stati parte della nostra educazione sentimentale al cinema, del nostro tempo perso e della nostra flânerie; e non ci stupisce che molti dei nostri incontri siano avvenuti lì.

[…]

Questo atlante quindi non è solo costituito da luoghi fisici e fatti materiali. Ma è anche una mappa sentimentale, come la secentesca Carte du tendre. Perché il cinema che vi è compreso è il cinema che amiamo.

[…]

Volevamo prenderci del tempo, rubare il tempo che di solito manca nelle sessioni di interviste dei festival o delle presentazioni promozionali dei film. Insomma, superare il tempo dei convenevoli e provare ad affondare su temi che non si risolvono in due battute.
Da questo punto di vista più che un atlante questo libro è un’enciclopedia.

È una storia del cinema: tra il più vecchio (Manoel de Oliveira, 104 anni) e il più giovane (John Torres, 22 anni) trascorrono tranquille quattro generazioni. Ma è anche un manuale di cinema: dalla produzione alla scrittura, dalla riprese al montaggio. E volendo volar alti, un libro di filosofia: dove la domanda, più o meno celata, se non ottusamente espressa, è sempre quella di André Bazin. Alla quale ancora non sappiamo dare una risposta. Che cosa è il cinema?

 

 

Atom Egoyan

 

Torino, 19 maggio 2003
La cornice è lussuosa. Hotel Principi di Piemonte, parrebbe Visconti.
Una luminosa sala da caffè nel centro di Torino.
Atom Egoyan è qui ospite del Museo del cinema, che gli ha dedicato una retrospettiva.
Lo inseguivamo da tempo. Per tutti gli anni Novanta ci eravamo persi nei suoi labirinti,
scivolando nelle sue ellissi apolidi. Come ipnotizzati dai suoi dispositivi,
abbiamo fatto viaggi nel tempo, fino a smarrire la nostra identità,
per ritrovarlo infine ora, dopo molto tempo,
tra gli specchi di questa sala. Sembra quasi fatto apposta.
Lui sorride, ordiniamo un caffè.
Stefano Boni ci accompagna nella conversazione.



A proposito di Ararat, ricordo una cosa che aveva detto Godard nella conferenza stampa di Allemagne 90 neuf zéro. Diceva: «Devi raccontare la Storia, ma per raccontare la Storia è necessario raccontare delle storie…».

Mi sono reso conto molto bene del bisogno di raccontare delle storie, come modo di giustificare e di asserire la Storia. Ma poi ho capito che ero sopraffatto dalla natura soggettiva di ogni tipo di narrazione. E questo è buono solo se anche il narratore lo è. E, cosa più importante, è la capacità da parte di qualcuno di ricevere la storia. Così, invece di concentrarmi su un momento storico, penso che questo rappresenti una generazione particolare. Ci sono state quattro generazioni, dal genocidio armeno: la generazione dei sopravvissuti, quella dei loro figli, quella dei nipoti e ora quella dei pronipoti. Quindi ho pensato che fosse più interessante raccontare una storia che mostrasse come tutte e quattro queste generazioni fossero consumate dall’idea di ri–raccontare la loro storia, attraverso gli oggetti che producono per raccontare agli altri: come dei dipinti, dei film, libri che scrivono o video digitali. Nell’assenza di prove, abbiamo bisogno di artefatti. E tutti questi artefatti sono stati costruiti con vari livelli di riuscita.

In questa storia c’è una sorta di malinconia, che sembra un po’ dovuta all’idea che ci sia una perdita, che si stia perdendo qualcosa…

Beh, penso che il peso della malinconia venga dal fatto che la storia essenziale è stata negata. Nel senso che questo è quello che rende il genocidio armeno così particolare: il fatto che non sia riconosciuto. E per questo motivo gli armeni vivono questo bisogno continuo di portare gli altri a credere loro, cosa che li rende molto vulnerabili: è una posizione molto vulnerabile dove si collocano. Questo mi sembra abbia permesso molti dei miei altri film, non consciamente, ma quest’idea di trovare qualcun altro con cui condividere la Storia; e la vulnerabilità di tutto ciò. Il fatto che il momento in cui ti esponi a qualcun altro possa durare degli anni, ti rende completamente alla mercé del suo bisogno soggettivo. Quindi nel film c’è un certo numero di ricevitori, di persone che ricevono. Per esempio il poliziotto della dogana, quella notte particolare – a causa di sue personali circostanze, perché è la sua ultima notte di lavoro – sente di avere il tempo di ascoltare la storia del ragazzo. Un’altra notte avrebbe semplicemente potuto arrestarlo. C’è qualcosa di molto precario: non è l’autorità della storia così come viene raccontata, ma la concentrazione che ci si aspetta da chi ascolta.

In relazione alla Storia: quando la si fa attraverso il cinema, che è l’arte del presente, è un taglio in cui si può spiare o in cui si può affondare… Guardando il film ho pensato a questioni che trovo molto attuali. E mi domandavo se hai visto alla tv le immagini dell’ultima guerra in Iraq… che è molto sovraesposta e molto nascosta nello stesso tempo. Che idea ti sei è fatto di queste immagini?

In un certo senso queste immagini sono molto simili a quelle di dieci anni fa, a quest’idea di guerra per procura. Quello che è diventato più provocatorio, questa volta, è l’idea dei giornalisti embedded: la persona che è lì, implicata… Ti rendi conto che tutta l’idea della guerra è cinematografica. Virilio ha scritto un libro famoso su questo. Tutti si rendono conto dello spettacolo della guerra, come lo ingegnano e come lo presentano, come un intrattenimento. Molto spesso c’è pochissimo da vedere, ma c’è questo spararla grossa ogni volta, rispetto alle aspettative. Quando vedi questi giornalisti che cercano sempre di affermare l’idea di essere sotto il coprifuoco. Mentre sappiamo che la maggior parte non lo sono affatto. È uno sviluppo sinistro, quest’idea di avere persone che sono incastrate (embedded) in una guerra che si pensa sia lontana. Non è come la Seconda Guerra Mondiale, o altre guerre, dove c’era una dimensione fisica concreta. Le truppe fisiche non sono davvero dove la guerra si svolge. Viene intrapresa da controlli a distanza, e in questo senso è più vicina al videogioco. Che è poi più o meno come la gente ci si relaziona: diventa astratta.
Il risultato più grande è dato da come noi ci sforziamo di capire cosa significhino davvero la distruzione e il disprezzo della vita altrui. Come troviamo delle immagini che ci diano accesso a questo; e non penso che sia un processo di comando a distanza, immaginario, o anche di giornalisti embedded. Viene dalle storie particolari che queste persone raccontano, i problemi di cui non sentiamo parlare, le storie degli iracheni, quello che provano loro… Tutto viene visto unicamente dalla nostra prospettiva occidentale. E poi non c’è una tradizione per fare film autoctoni, né c’è il permesso di farli. È tutto molto complicato… Penso che quando parliamo del vedere il punto di vista dell’altro, molto spesso parliamo del giornalista con la camera che chiede a qualcuno, in un villaggio, di esprimere i suoi sentimenti, e questo è ancora il punto di vista che viene da… Prima parlavamo del raccontare storie: di chi racconta la storia e di chi la riceve. Questo crea una particolare energia. Non ci dà realmente il senso di come la vita di quelle persone sia stata devastata. Ci dà il senso di come loro rappresentino questo di fronte a un giornalista occidentale, verso cui possono solo provare rabbia. È molto ingannevole.
Forse chiediamo di avere qualcosa a cui non avremo mai accesso: il che è molto malinconico, è molto triste. Dove, e come, hai accesso all’esperienza delle altre persone, questo è qualcosa che riguarda tutto il mio lavoro: come possiamo avere un reale accesso a come qualcun altro viva nel mondo. Qual è la loro esperienza, chi ci dà questo accesso? Come creano le loro storie? Queste per me sono questioni emotivamente pesanti.

[…]

Enrico Ghezzi mi ha anche chiesto di farti una domanda sull’11 settembre 2001, perché lo scorso anno ha lavorato su quelle immagini, e sta raccogliendo delle ipotesi su queste immagini. Come le hai vissute?

Mi era stato chiesto di fare parte di quel gruppo di registi che hanno realizzato dei corti per 11/9. Ci ho pensato su molto, ma ho declinato l’invito, perché ho pensato che fosse troppo presto per digerire il significato di quelle immagini. È il problema che hai ogni volta che vuoi fare un’immagine e pensi: «Ok, ora abbiamo capito». È il problema che ogni immagine pone: «Questo è quello che vuol dire…». Mentre penso che queste immagini siano così profonde, bibliche, in una tale scala di grandezza che avremo bisogno di anni per digerirle, per capire il loro significato. E il pericolo è che pensiamo di poterle maneggiare, e capirle, e assorbirle. Ho pensato che fosse prematuro. Quindi ho deciso di rifiutare l’invito per il film. Le immagini una volta erano scolpite. Da una prospettiva biblica erano scolpite sulla pietra o sul legno. Anche con la pellicola, il nitrato d’argento: l’argento sposta materiale. Abbiamo questa idea biblica di immagini scolpite, il che vuol dire che i materiali sono rimossi, vengono mossi, per creare un’immagine. Il digitale è un sistema binario, non c’è nessun movimento. In un certo senso questo cambia totalmente la nostra relazione a cosa un’immagine significhi. Non c’è nulla di sacro. Abbiamo perso il senso di essere iconografici. E con la perdita della fisicità è molto strano che siamo lì a confrontare immagini straordinarie di una distruzione fisica. Non so, non l’ho ancora digerito. Forse Ararat è una sorta di meditazione su questo, per estensione… Quest’idea della differenza di filmare qualcosa come un’immagine filmica o come un dipinto… Come il gesto molto fisico di come muovi le mani, come fanno i pittori. In un mondo digitale tracci solo delle linee o clicchi col dito. Magari oggi c’è un movimento elettronico delle mani se un pittore lavora col digitale ma la fisicità di questo gesto, la polvere sulle mani… Il processo di come noi facciamo le immagini è altrettanto importante di come le immagini sono registrate.

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